Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29518 del 26/06/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29518 Anno 2013
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MESSINA GIOVANNI LUCA DAVIDE N. IL 18/07/1973
avverso l’ordinanza n. 1272/2012 TRIB. SORVEGLIANZA di
CATANIA, del 17/10/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott a.MONJCA BO
lette/~ le conclusiogi del PG Dott.
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Data Udienza: 26/06/2013

Rilevato in fatto
1.Con ordinanza deliberata in data 17 ottobre 2012, il Tribunale di Sorveglianza
di Catania dichiarava inammissibile l’istanza, avanzata nell’interesse di Giovanni
Luca Davide Messina, volta a ottenere la misura alternativa alla detenzione
dell’affidamento in prova al servizio sociale, rilevando che il reato per il quale era in
corso l’esecuzione era ostativo all’accesso ai benefici penitenziari e che il
condannato non aveva collaborato con la giustizia.

cassazione l’interessato a mezzo del difensore, chiedendone l’annullamento per
mancanza di motivazione, in quanto il Tribunale di Sorveglianza aveva omesso di
esporre le ragioni del proprio convincimento e non aveva indicato la sussistenza di
elementi dai quali desumere collegamenti con la criminalità organizzata, mentre
dalla sentenza di condanna emergevano argomenti in senso contrario, ossia
l’assenza di tali collegamenti e l’impossibilità di collaborazione con la giustizia in
ragione del già avvenuto accertamento dei fatti e delle responsabilità. Inoltre,
anche se la pena inflitta fosse ostativa alla concessione della misura, si sarebbe
dovuto procedere allo scorporo della porzione da imputare alla circostanza
aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91.
3.Con la requisitoria scritta depositata il 13 febbraio 2013 il Procuratore
Generale presso la Corte di Cassazione. Dr. Alfredo Pompeo Viola, ha chiesto
dichiararsi inammissibile il ricorso.
4. Con memoria depositata il 10 giugno 2013 la difesa del ricorrente ha
ulteriormente illustrato i motivi di ricorso.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1.Va premesso che il Messina sta espiando la pena di anni quattro, mesi
cinque, giorni dieci di reclusione inflittagli per aver commesso il delitto di concorso
in estorsione aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. 152/1991, giusta sentenza della
Corte di Appello di Catania del 13/5/2011, irrevocabile il 27/3/2012.
1.1 L’avvenuta contestazione e la ritenuta sussistenza della predetta circostanza
aggravante rende operativa la causa ostativa all’accesso ai benefici penitenziari,
prevista dall’art. 4-bis ord. pen. a prescindere da quale delle due ipotesi
contemplate dal predetto art. 7 sia stata integrata, ossia se il condannato abbia
agito con modalità proprie della criminalità organizzata di stampo mafioso, oppure
per avvantaggiare un’organizzazione di tale natura.

2. Avverso il citato provvedimento ha interposto tempestivo ricorso per

1.2 La richiesta avanzata al Tribunale di Sorveglianza di procedere allo
“scorporo” della porzione di pena inflitta per la citata circostanza aggravante e di
imputare ad essa il periodo di espiazione già sofferto in modo da prendere in
considerazione il residuo, che consentirebbe l’ammissione all’affidamento in prova
ai servizi sociali, è del tutto priva di fondamento ed ignora la funzione di elemento
accidentale del reato, proprio di qualsiasi circostanza.
1.3 n motivo richiama il noto orientamento interpretativo della giurisprudenza di

unificazione di pene inflitte per titoli giudiziali diversi, il quale, che si tratti di
cumulo materiale o giuridico, dà luogo alla determinazione di una pena unica ad
ogni effetto giuridico, con la costituzione all’atto dell’espiazione di un rapporto
esecutivo unitario perché riferito a tutte le condanne riportate e non singolarmente
a ciascuna o ad alcune di esse. Proprio per mitigare gli effetti pregiudizievoli di tale
considerazione è intervenuta la giurisprudenza di questa Corte, che sin dalla
pronuncia delle Sezioni Unite nr. 14 del 30/6/1999, Ronga, rv. 214355,
successivamente confermata da sentenze più recenti, ha risolto la questione in
punto di diritto, che aveva dato luogo ad un contrasto fra orientamenti
interpretativi differenti, relativa alla possibilità di intervenire in sede esecutiva sul
cumulo delle pene, che, sia in caso di cumulo materiale, derivante da
provvedimento di unificazione di pene concorrenti ai sensi dell’art. 663 cod. proc.
pen., che di cumulo giuridico, effetto dell’applicazione della continuazione o del
riconoscimento del concorso formale di reati, pur dando luogo ad un rapporto
esecutivo unitario, avente ad oggetto l’espiazione di sanzione divenuta unica, può
essere sciolto quando tale operazione sia propedeutica all’applicazione di benefici
penitenziari o comunque di istituti che producano effetti a vantaggio del
condannato. Si è in tal modo recepito quanto affermato dalla Corte costituzionale
nella nota sentenza n. 361 del 27/7/1994, con la quale, nel dichiarare infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della
L. 26/7/1975, n. 354, come sostituito dal D.L. 8/6/1992, n. 306, art. 15, comma 1,
lett. a), convertito nella L. 7/8/1992, n. 356, per contrasto con gli artt. 3 e 27
Cost., si è precisato che la stessa norma, per essere aderente al principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., va interpretata nel senso della concedibilità delle
misure alternative alla detenzione ai condannati per i reati gravi, indicati dalla
disposizione stessa, se essi abbiano già espiato per intero la pena per detti reati e
stiano eseguendo pene per reati meno gravi, il cui titolo non impedisce l’accesso
agli istituti penitenziari alternativi alla carcerazione.
1.4 Ebbene, i medesimi principi non possono trovare applicazione nel caso in
esame, nel quale il ricorrente ha riportato condanna per un unico reato aggravato,
rispetto al quale la pena inflitta, pur risentendo dell’effetto della circostanA
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questa Corte, espresso con riferimento alle situazioni di cumulo, ossia di

aggravante, è altrettanto unica e non scomponibile in base agli elementi che hanno
concorso a determinarla. Del resto il giudizio di disvalore del fatto di reato, alla
base della sua inclusione nell’elenco dei titoli ostativi all’ammissione ai benefici
penitenziari, in ragione delle modalità della condotta che hanno dato luogo alla
contestazione dell’aggravante, lo investe nella sua interezza.
2. Infine, anche la questione dell’impossibilità della collaborazione, che
consentirebbe di superare il divieto dell’art. 4-bis ord. pen., non

è stata

reato e dei suoi responsabili, ossia alla condizione imprescindibile per pervenire in
sede di cognizione alla pronuncia di condanna, senza però indicare la materiale
impossibilità di fornire agli inquirenti informazioni ulteriori, rispetto a quanto già
acquisito. Inoltre, il reato per il quale il Messina ha riportato condanna comporta
l’esclusione dai benefici penitenziari sotto un duplice profilo, non soltanto perché
contestato ai sensi dell’art. 629 cod. pen., ma anche perché aggravato ex art. 7 d.l.
152/91, il che rende applicabile al Messina la disposizione di cui all’art. 4-bis,
comma 1-bis, ord. pen..
2. Tale norma, come modificata a seguito della novella introdotta con D.L. 23
febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni con L. 23 aprile 2009, n. 38,
stabilisce un divieto assoluto di fruizione dei benefici carcerari nei confronti dei
condannati per reati di particolare gravità, indicati convenzionalmente come “di
prima fascia”, con le uniche eccezioni che costoro collaborino con la giustizia a
norma dell’art. 58-ter ord. pen. e che sia accertata l’inesistenza di collegamenti con
la criminalità organizzata. All’attività di collaborazione con gli inquirenti, come tale
riconosciuta, va equiparata l’accertata impossibilità di fornire un’utile collaborazione
con la giustizia.
2.1 Non ricorrono nel caso in esame i presupposti per rende inoperante il
divieto dell’art. 4-bis, non potendo a tal fine tenersi conto del fatto che nel giudizio
di merito gli sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche, motivate
dall’assenza di precedenti e per il buon comportamento processuale, profili che
esulano dall’eventuale esistenza di collegamenti con ambienti della criminalità
organizzata e dall’impossibilità di collaborazione.
In definitiva, l’ordinanza impugnata, per quanto succintamente motivata, ha
fatto corretta applicazione delle norme di riferimento e ha esposto in modo
comprensibile le ragioni del rigetto dell’istanza, superando quindi il vaglio
conducibile nel giudizio di legittimità.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa
insiti nella proposizione di siffatta impugnazione, ad una somma di denaro che si
reputa equo stabilire in euro 1.000,00 a favore della Cassa delle Ammende.

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sufficientemente illustrata col ricorso, ove si accenna all’avvenuto accertamento del

P. Q M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e di euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 26 giugno 2013.

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