Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29512 del 16/06/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29512 Anno 2015
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
SICILFERT S.R.L. avverso la sentenza del 03/06/2014 della Corte di
Appello di Palermo;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Antonio Gialanella che
ha concluso per il rigetto;
uditi i difensori avv.ti Adolfo Scalfati e Diego Tranchida che hanno
concluso per l’accoglimento del ricorso;
FATTO
1. Con sentenza del 29/09/2011, il Tribunale di Marsala dichiarò
SICILFERT SRL responsabile dell’illecito amministrativo dipendente dal
reato di cui agli artt. 21 e 24, 2° comma Decreto Legislativo 8 giugno
2001 n. 231 (e successive modificazioni), in relazione alla commissione
dei delitti di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen.

«quale società

destinataria, in via provvisoria, giusto decreto n. 2020, datato
11.8.2005, della Regione Siciliana – Assessorato Industria –

Data Udienza: 16/06/2015

Dipartimento Regionale Industria, di un contributo in conto impianti di
Euro 5.084.798,00 per l’esecuzione del progetto di investimento n. 141
(codice identificativo:1999.IT.16.1P0.011/1.17/5.2.10/0045), relativo
alla realizzazione di un impianto per la produzione di energia da fonte
rinnovabile nel settore di intervento “biomassa” da ubicare nel territorio

titolo di anticipazione, per una somma dì denaro pari a complessivi Euro
2.542.399,00, con l’aggravante di avere conseguito, in seguito alla
commissione dei suddetti delitti un profitto di rilevante entità. In
Marsala, in data 20.3.2007».
Il Tribunale, pertanto, ritenuta la pluralità delle condotte, applicò
nei confronti della suddetta società la sanzione amministrativa
pecuniaria di C 120.000,00 nonché la sanzione interdittiva
dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e
l’eventuale revoca di quelli già concessi per anni

1 e mesi 6; ordinò,

altresì, la confisca di tutti i beni di proprietà della SICILFERT SRL già
sottoposti a sequestro preventivo con decreto emesso dal GIP di Marsala
il 22 febbraio 2008 in quanto, in parte, costituenti profitto del reato
(somma di denaro pari a C 327.033,71) e, quanto ai restanti beni, per
equivalenza fino all’intero importo dello stesso profitto del reato
ammontante a complessivi C 2.542.399,00, in solido con Foderà
Michele, amministratore unico della suddetta società per il quale si era
proceduto separatamente e che aveva patteggiato la pena per i reati di
truffa, falso e malversazione ai danni dello Stato con sentenza passata
in giudicato.
Il suddetto giudizio di responsabilità si fondava sulle indagini che
avevano permesso di accertare che Foderà Michele e la Sicilfert avevano
percepito il finanziamento in parola e di fatto già locupletato la prima
tranche di esso, pari a due milioni e mezzo di euro transitata sui conti e
sul patrimonio della Sicilfert Srl, ma mai impiegati per la realizzazione
del progettato impianto produttivo di energie rinnovabili, ma, piuttosto,
malversati a tutto vantaggio del Foderà Michele, che ne aveva fatto uso
personale, abusivo e distorto a proprio vantaggio ed a vantaggio della
Sicilfert SRL.

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comunale di Marsala, la cui prima quota di contributo era già erogata a

Proposto appello, la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del
03/06/2014, confermava la sentenza impugnata.

2. Avverso la suddetta sentenza, la Sicilfert s.r.I., a mezzo del
proprio difensore, proponeva ricorso per cassazione deducendo i

2.1. MOTIVAZIONE ILLOGICA sulla sussistenza del reato presupposto:
la difesa sostiene che la sussistenza del reato presupposto era stata
affermata sulla base della semplice sentenza di patteggiamento del
Foderà Michele: ma, la Corte non aveva considerato che quella sentenza
non poteva fare stato nel procedimento a carico della ricorrente con la
conseguenza che il giudice di appello avrebbe dovuto esaminare e
valutare autonomamente le prove della presunta sussistenza dei reati
presupposti;
2.2. VIOLAZIONE DEGLI ARTI -. 5-6 DLGS 231/2001: ad avviso della
difesa, la tesi secondo la quale Foderà Michele aveva agito nel suo
esclusivo interesse non solo non avvantaggiando la Sicilfert s.r.l. ma
semmai danneggiandola, non era stata sufficientemente valutata dalla
Corte territoriale in quanto, incorrendo in un erreyre di diritto, l’aveva
ritenuta superflua ed assorbita dalla circostanza che era stata accertata
la mancata predisposizione di un modello organizzativo idoneo a
prevenire i reati della stessa specie di quelli verificatasi. La ricorrente,
quindi, sostiene che, in realtà, la Corte, al fine di pervenire ad un
giudizio di responsabilità, avrebbe dovuto evidenziare quali, tra le prove
acquisite, fossero in grado di dimostrare, per di più “oltre ogni
ragionevole dubbio”, che il Foderà Michele avesse agito, non nel suo
solo interesse, ma anche nell’interesse della Sicilfert srl. Ma, tali prove
non esistevano perché, quella acquisite e utilizzate in motivazione, sia in
primo che in secondo grado, convergevano verso un’unica, nitida
direzione, vale a dire quella di una iniziativa ideata (procacciamento e
utilizzazione di una fideiussione falsa), attuata (presentazione e gestione
della richiesta di finanziamento dinanzi all’Assessorato all’industria della
Regione Sicilia) e conclusa (incasso del finanziamento e sua successiva
destinazione tramite lo svuotamento delle casse sociali) autonomamente

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seguenti motivi:

dall’amministratore pro tempore: occorreva, in altri termini verificare se
l’ente avesse “voluto” tale utilità e se, nel momento in cui l’aveva
percepita, si fosse resa conto della sua effettiva origine.
2.3. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 444 COD. PROC. PEN., 63 DLGS 231/2001:

la difesa lamenta l’illegittimità del rifiuto da parte di entrambi i giudici di

subordinata alla non applicazione della confisca nei confronti della
ricorrente società. La difesa, poi, sostiene che, ove i giudici avessero
ritenuto illegittima l’apposizione della condizione sulla confisca, ben
avrebbero potuto ugualmente applicare la pena richiesta disattendendo
la condizione illegalmente apposta.
2.4. VIOLAZIONE DELL’ART. 19 DLGS 231/2001: la difesa sostiene che
entrambi i giudici di merito, erroneamente, avevano fatto coincidere il
profitto dell’ente con l’intero profitto del reato presupposto, senza,
quindi, verificare la relazione causale e patrimoniale fra il reato
commesso e il beneficio procurato sulla base del principio della
pertinenzialità che impone la sussistenza di un profitto da intendersi in
senso concreto materiale e patrimoniale e non quale generico vantaggio
per la società dalla commissione dell’illecito. E così, nel caso di specie, il
profitto confiscabile non poteva essere individuato nell’intera
contribuzione ricevuta di C 2.542.399,00 ma solo in quello di stretta
pertinenza dell’ente, ossia solo nella somma di C 327.033,71 rinvenuta
ancora nella disponibilità dell’ente al momento del sequestro.
2.5. VIOLAZIONE DELL’ART.

19 DLGS cm :

la difesa lamenta che,

nonostante, con memoria del 19/02/2014, la Sicilfert avesse dimostrato
che era intervenuto un accordo con la “Riscossione Sicilia s.p.a.” in virtù
del quale la Sicilfert si era obbligata a corrispondere l’intero importo del
finanziamento pubblico, la Corte aveva completamente ignorato tale
fatto sostenendo che si trattava di un piano affidato alle buone
intenzioni dei vertici rinnovati e senza alcun esito sul suo definitivo
completo buon esito. In realtà la confisca non avrebbe potuto essere
disposta proprio a norma dell’art. 19 dlgs cit. che sottrae alla confisca
«la parte che può essere restituita al danneggiato»: la norma non fissa
alcun termine finale per la restituzione né esclude che la restituzione

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merito, della richiesta di applicazione della pena nei limiti di C 52.000,00

possa essere oggetto di un accordo negoziale così da essere dilazionata
nel tempo.
2.6. LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 19 DLGS CIT: la difesa, dopo
avere premesso che la confisca era stata applicata alla società ai sensi
dell’art. 19 dlgs cit. che già dal 2001 faceva rientrare nel suo ambito

invece, nei confronti dell’amministratore Foderà Michele, la confisca per
equivalente non può essere disposta in quanto, per le persone fisiche, la
legge ne estende l’applicabilità ai suddetti reati dal 2012 e, quindi, in
epoca successiva ai fatti: da qui deriverebbe l’illegittimità della norma
nella parte in cui non prevede uno stesso termine di entrata in vigore
della confisca per equivalente nei confronti dell’ente e
dell’amministratore posto che l’asimmetria temporale determina
conseguenze irragionevoli.
2.7.

TRATTAMENTO SANZIONATORIO:

infine

la

difesa

lamenta

l’eccessività della pena irrogata.
2.8. Con memoria a firma dell’avv.to Scalfati, depositata il
28/05/2015, la difesa, oltre che illustrare ulteriormente i motivi dedotti,
ha sostenuto che, fra le condotte previste dai reati di cui agli artt. 640
bis e 316 bis cod. pen. (ossia i reati presupposti in relazione ai quali era
stata ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo), intercorrerebbe
un rapporto di sussidiarietà del secondo rispetto al primo , realizzandosi,
così, un concorso apparente di norme.
DIRITTO
1. MOTIVAZIONE ILLOGICA sulla sussistenza del reato presupposto: la

prima doglianza dedotta dalla ricorrente

(supra §

2.1.) è

manifestamente infondata.
In punto di diritto, va rammentato che, a norma dell’art. 8 del dls
n° 231/2001, la cui rubrica è intitolata “Autonomia della responsabilità
dell’ente”, «la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore
del reato non è stato identificato; b) il reato si estingue per una causa
diversa dall’amnistia […]».

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operativo i reati di truffa aggravata e malversazione, ha rilevato che,

Questa Corte ha rilevato che

«Il senso letterale della norma è

chiarissimo nell’evidenziare non tanto l’autonomia delle due fattispecie
(che anzi l’illecito amministrativo presuppone – e quindi dipende da quello penale), quanto piuttosto l’autonomia delle due condanne sotto il
profilo processuale. Per la responsabilità amministrativa, cioè, è

riconducibile all’ente, ma non è anche necessario che tale reato venga
accertato con individuazione e condanna del responsabile. La
responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter tantum
(ad esempio perché non si è potuto individuare il soggetto responsabile
o perché questi è non imputabile) e ciò non ostante può essere
sanzionata in via amministrativa la società. 15. Anche l’intenzione
soggettiva de/legislatore (che, in questo caso, emerge dalla relazione
governativa, trattandosi di decreto legislativo) è chiara in tal senso,
affermando che il titolo di responsabilità dell’ente, anche se presuppone
la commissione di un reato, è autonomo rispetto a quello penale, di
natura personale. Dice la relazione ministeriale che non vi sarebbe
ragione di escludere, in queste ipotesi, la responsabilità dell’ente. Quello
della mancata identificazione della persona fOca che ha commesso il
reato è, infatti, un fenomeno tipico nell’ambito della responsabilità
d’impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione
alle quali più forte si avvertiva l’esigenza di sancire la responsabilità
degli enti (viene portato l’esempio ai casi di c.d. imputazione
soggettivamente alternativa, in cui il reato (perfetto in tutti i suoi
elementi) risulti senz’altro riconducibile ai vertici dell’ente e, dunque, a
due o più amministratori, ma manchi o sia insufficiente la prova della
responsabilità individuale di costoro). L’omessa disciplina di tali
evenienze – prosegue la relazione – si sarebbe dunque tradotta in una
grave lacuna legislativa, suscettibile di infirmare la ratio complessiva del
provvedimento. Sicché, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità
dell’assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la
responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò
nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l’ente ne dovrà
rispondere – ricorrendone tutte le condizioni di legge – sul piano

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necessario che venga compiuto un reato da parte del soggetto

amministrativo. 16. Infine, anche la ratto oggettiva della norma – quale
emerge sistematicamente dal complesso delle disposizioni sulla
responsabilità amministrativa degli enti – persegue la finalità di
sanzionare l’ente collettivo ogni volta che le persone che rivestono
funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente (o

commettono dei reati nel suo interesse o a suo vantaggio»:

Cass.

20060/2013 Rv. 255414 (in motivazione).
Ora, in punto di fatto, va osservato che il fatto descritto nel capo
d’imputazione a carico della società (cfr supra § 1) è stato ampiamente
accertato e, sul punto, neppure la ricorrente ha dedotto alcunché: il che
significa che, al di là della sentenza di patteggiannento
dell’amministratore unico, la responsabilità penale presupposta deve
ritenersi quanto meno accertata incidenter tantum proprio perché la
pacifica commissione da parte dell’amministratore Foderà Michele dei
fatti di cui ai capi d’imputazione, integra gli estremi dei contestati reati
di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod. pen. come ha, prima ritenuto il
tribunale (cfr amplissima motivazione a pag 4 ss) e, poì, la Corte (pag.
3 ss).
La ricorrente sostiene che la Corte avrebbe fondato la propria
decisione sulla sola sentenza di patteggiamento: ma, è sufficiente la
lettura delle pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata, per avvedersi che la
Corte, in primis, ha fatto propria la motivazione con la quale il tribunale
aveva accertato la sussistenza di entrambi i reati, poi, ha ritenuto
infondata, anche alla stregua della intervenuta sentenza di
patteggiamento passata in giudicato, la pretesa della ricorrente società
di sostenere l’insussistenza dei reati e, infine, ha nuovamente ed
autonomamente motivato sulla condotta del Foderà ritenendola
integrativa degli estremi dei reati di cui agli artt. 640 bis e 316 bis cod.
pen. e confutando, quindi, la tesi difensiva.
In altri conclusivi termini, la lettura unitaria delle motivazioni di
entrambe le sentenze di merito, non lascia margine di dubbio alcuno
sull’accertamento dei reati presupposti essendo stato il giudizio
effettuato alla stregua di puntuali elementi fattuali dai quali sono state

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sulle quali queste esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo)

tratte le corrette conseguenze giuridiche. Pertanto, poiché la
motivazione della Corte territoriale non si presta, sul punto, ad alcuna
censura, la doglianza dev’essere ritenuta manifestamente infondata.
Infine, ma solo per completezza, si deve anche osservare, come
ha correttamente rilevato il Procuratore Generale, che

«in tema di

presupposto successivamente alla contestazione all’ente dell’illecito non
ne determina l’estinzione per il medesimo motivo, giacché il relativo
termine, una volta esercitata l’azione, non corre fino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della
persona giuridica»: Cass. 20060/2013 riv 255415

2. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 5-6 DLGS 231/2001: la censura è infondata
per le ragioni di seguito indicate.

2.1. Il d.lgs. n. 231 del 2001 stabilisce, agli artt. 5 e 6, i criteri in
base ai quali il reato commesso dalla persona fisica può essere attribuito
alla persona giuridica.
L’art. 5 individua il c.d. criterio di imputazione oggettiva, a norma
del quale l’ente risponde solo dei reati commessi nel suo “interesse o
vantaggio”.
E’ controverso il significato da attribuire ai suddetti lemmi.
Secondo la Relazione governativa al D.Lgs. (§ 3.2.) «[..]

la

formula costituisce l’espressione normativa del citato rapporto di
immedesimazione organica. E’ appena il caso di aggiungere che il
richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente
soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che “si
accontenta” di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può
essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito
nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post».
In dottrina, si contendono il campo, sulla questione, due tesi:
quella monistica, il cui approdo finale è la sottovalutazione del criterio
del vantaggio, e quella dualistica secondo la quale l’art. 5 d.lgs cit.
prevede due autonomi e alternativi criteri.

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responsabilità da reato degli enti, l’intervenuta prescrizione del reato

La giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3615/2005 Rv. 232957;
Cass. 10265/2013 riv. 258575; Cass. 24559/2013 riv 255442; SSUU
38343/2014 Rv. 261114), ritiene che i due criteri d’imputazione
dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività,
come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo

La suddetta giurisprudenza, presta formale adesione alla Relazione
governativa: si legge, infatti – in specie nelle massime – che il criterio
dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato,
apprezzabile

ex ante,

al momento della commissione del fatto, e

secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo in relazione
all’elemento psicologico della specifica persona fisica autore dell’illecito;
il criterio del vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente
oggettiva, come tale valutabile

ex post,

sulla base degli effetti

concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito ed
indipendentemente dalla finalizzazione originaria del reato.
Tuttavia, gradualmente, la giurisprudenza si è avviata verso una
concezione oggettiva non solo del vantaggio ma anche dell’interesse.
E’ stato, infatti, rilevato che «[…] Se non può sussistere dubbio
alcuno circa il fatto che l’accertamento di un esclusivo interesse
dell’autore del reato o di terzi alla sua consumazione impedisca di
chiamare l’ente a rispondere de/l’illecito amministrativo ex d.lgs. n.
231/2001 (in questo senso anche Sez. 6, n. 36083 del 9 luglio 2009,
Mussoni e altri, Rv. 244256), ciò peraltro non significa che il criterio del
vantaggio perda automaticamente di significato. Infatti, ai fini della
configurabilità della responsabilità dell’ente, è sufficiente che venga
provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche
quando non è stato possibile determinare l’effettivo interesse vantato
“ex ante” alla consumazione dell’illecito e purché non sia, come detto,
contestualmente stato accertato che quest’ultimo sia stato commesso
nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi. Appare,
dunque, corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel primo
comma dell’art. 5 una dimensione non propriamente od esclusivamente
soggettiva, che determinerebbe una deriva “psicologica”

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della disposizione.

nell’accertamento della fattispecie che invero non trova effettiva
giustificazione nel dato normativo. E’ infatti evidente come la legge non
richieda necessariamente che l’autore del reato abbia voluto perseguire
l’interesse dell’ente perché sia configurabile la responsabilità di
quest’ultimo, né è richiesto che lo stesso sia stato anche solo

Per converso, la stessa previsione contenuta nell’art. 8 lett. a) del
decreto – per cui la responsabilità dell’ente sussiste anche quando
l’autore del reato non è identificato o non è imputabile – e l’introduzione
negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell’ente per reati di natura
colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere. Il concetto di
interesse mantiene invece anche e soprattutto una sua caratterizzazione
oggettiva, evidenziata proprio dal disposto del secondo comma dell’art.
5, il che consente per l’appunto di conservare autonomia concettuale al
termine “vantaggio”, pure contemplato dalla norma menzionata tra i
criteri ascrittivi della responsabilità. In altri termini l’interesse dell’autore
del reato può coincidere con quello dell’ente (rectius: la volontà
dell’agente può essere quella di conseguire l’interesse dell’ente), ma la
responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il
proprio autonomo interesse, l’agente obiettivamente realizzi (rectius: la
sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché
rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche
quello dell’ente. In definitiva, perché possa ascriversi all’ente la
responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell’autore di
quest’ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella
prospettiva del soggetto collettivo, “anche” l’interesse del medesimo (in
senso analogo Sez. 5, n. 40380 del 26 aprile 2012, Sensi, Rv. 253355,
in motivazione)»: Cass. 10265/2013 cit.
In particolare, relativamente alla nozione dell’interesse esclusivo
dell’agente che ha commesso il reato presupposto, si è osservato che va
individuata nei «fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo,
per un fine personalissimo o di terzi. In sostanza, con condotte estranee
alla politica di impresa»: Cass. 3615/2005 cit.

lo

consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta.

A contrario, ed in positivo, si può quindi ritenere che le condotte
dell’agente poste in essere nell’interesse dell’ente sono quelle che
rientrano nella politica societaria ossia tutte quelle condotte che trovano
una spiegazione ed una causa nella vita societaria.
Più agevole la definizione del “vantaggio” che va inteso come la

carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato
presupposto»:

Cass. 24583/2011 Rv. 249822 (in motivazione),

valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla
realizzazione dell’illecito.
Si può, quindi, affermare che, mentre è indubbio che l’interesse va
valutato ex ante (perché si ha riguardo al momento in cui l’agente ha
agito), ed il vantaggio va valutato ex post (perché si ha riguardo al
risultato conseguito dall’azione dell’agente), al contrario, va sempre più
sfumando l’indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente
relativamente all’interesse che lo ha sorretto nell’azione illecita,
richiedendosi solo la proiezione finalistica della condotta.
Appaiono, infatti, decisivi gli argomenti secondo i quali la teoria
soggettivistica facendo dipendere l’esistenza dell’illecito dalla soggettiva
rappresentazione, eventualmente erronea, dell’autore del fatto, non è
compatibile né con l’ipotesi della responsabilità dell’ente nel caso della
mancata identificazione dell’autore del reato ex art. 8, comma 1, lett.
a), d.lgs. cit. (sarebbe, infatti, impossibile accertare se l’ignoto autore
del reato agì o meno nell’interesse dell’ente) né con le ipotesi di
responsabilità derivanti da reati colposi dove fosse ipotizzabile la colpa
incosciente.
I successivi art. 6 e 7 individuano, invece, il c.d. criterio di
imputazione soggettiva, in base al quale l’ente non risponde se risulti
adottato un modello di organizzazione e gestione, idoneo ad impedire la
commissione di uno dei reati realizzati da un soggetto che ricopre al suo
interno sia posizioni apicali, sia subordinate.
Sul punto, questa Corte ha rilevato che «dall’esame del D.Lgs. n.
231 del 2001, e particolarmente dagli artt. 5 e 6, scaturisce il principio
di diritto secondo cui l’ente che abbia omesso di adottare e attuare il

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«potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di

modello organizzativo e gestionale non risponde per il reato (rientrante
tra quelli elencati negli artt. 24 e 26), commesso dal suo esponente in
posizione apicale soltanto nell’ipotesi di cui al D.Lgs. cit., art. 5, comma
2»: Cass. 36083/2009 riv 244256.
Più esattamente è stato precisato che

«il sistema normativo

dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un
“tertium genus” di responsabilità compatibile con i principi costituzionali
di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza», sicchè grava sulla
pubblica accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito dell’ente,
mentre a quest’ultimo incombe l’onere, con effetti liberatori, di
dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della
commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a
prevenire reati della specie di quello verificatosi: SSUU cit.
Dal combinato disposto delle suddette norme, il sistema delineato
dal dlgs cit. può essere, quindi, ricostruito nei seguenti termini:

l’ente è responsabile ove la pubblica accusa provi che il soggetto
che ricopre al suo interno sia posizioni apicali, sia subordinate, ha
commesso il reato presupposto nell’interesse (inteso come
proiezione finalistica dell’azione) o a vantaggio (inteso come
potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale
ed accertabile in modo oggettivo) dell’ente;

se la suddetta prova non viene data o fallisce, l’ente, anche se
non ha adottato alcun modello di organizzazione e di gestione
idonei a prevenire reati, non può essere ritenuto responsabile di
alcunché;

se la suddetta prova, invece, viene fornita, l’unico modo per
l’ente di sfuggire alla declaratoria di responsabilità per il reato
presupposto, è quello di dimostrare di avere adottato un idoneo
modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati.

Il principio di diritto che, quindi, deve enunciarsi è il seguente: «I criteri
ascrittivi della responsabilità da reato degli enti, rappresentati dal
riferimento contenuto nell’art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001 all’interesse o
al vantaggio, evocano concetti distinti e devono essere intesi come

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introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti

criteri concorrenti, ma comunque alternativi. L’interesse va inteso come
proiezione finalistica dell’azione da valutarsi ex ante; il vantaggio va,
invece, apprezzato come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere
non patrimoniale ed accertabile in modo oggettivo, da valutarsi ex post»

di cui si è appena detto, se la doglianza della ricorrente sia fondata in
punto di fatto.
La difesa, innanzitutto, sostiene che la Corte avrebbe errato nel
ritenere la responsabilità dell’ente sol perché non era stato adottato
alcun idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire
reati.
In realtà, la Corte, dopo avere ribadito che i reati erano stati
commessi nell’interesse e a vantaggio delle società, ha concluso,
correttamente, che la società avrebbe potuto essere ritenuta non
responsabile solo ove essa avesse dimostrato di avere adottato un
modello di organizzazione idoneo a prevenire i reati: poiché era, però,
pacifico che alcun modello era stato predisposto, ne conseguiva la
responsabilità della società: cfr pag. 5 -6.
Risolta questa prima questione, non resta ora che verificare la
fondatezza o meno della censura secondo la quale il Foderà aveva agito
solo ed esclusivamente nel suo interesse.
Sul punto, dalla sentenza di primo grado (pag. 18-19, confermata
espressamente dalla Corte territoriale), risulta che «con riferimento al
reato di truffa accertato in premessa, non può che constatarsi come la
condotta dell’amministratore unico Foderà Michele (rilevante ai sensi
dell’art. 5, comma I lett. A del D.Lgs. 231/01), sia stata in effetti
finalizzata a conseguire l’erogazione dei contributi pubblici in favore (ed
a vantaggio) della società. Sul punto, nessuna influenza assume la
circostanza che H finanziamento ricevuto dalla società sia stato, peraltro
soltanto in parte, distratto su conti personali dell’amministratore. Ed
infatti, premesso che una parte delle somme è comunque rimasta nella
disponibilità della Sicilfert S.r.L, ciò che rileva è il momento realizzativo
del profitto, in tal caso coincidente con l’accreditamento del contributo

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2.2. Non resta ora che verificare, alla stregua dei principi di diritto

pubblico sul conto corrente nella disponibilità della società. Ciò che
avviene dopo resta, perciò, condotta post factum inidonea ad elidere il
dato storico del profitto (vantaggio) già conseguito dall’ente. Se,
dunque, il contributo pubblico è entrato materialmente nel patrimonio
sociale, confondendosi con le altre risorse pecuniarie, si è verificato il

lasso più o meno lungo di tempo, incrementata la sua ricchezza (cfr.
Cassazione, Sez. 2°, Sentenza n. 3615 del 2006) […] Alla medesima
conclusione deve poi pervenirsi con riferimento al presupposto-reato di
cui all’art. 316 bis c.p, posto in essere anche in tal caso
dall’amministratore unico della Sicilfert. Ed, infatti, quanto al requisito
oggettivo del “vantaggio” conseguito dalla commissione di tale ultimo
delitto, lo stesso non può ritenersi eliso dal fatto che il Foderà Michele
abbia (in parte) sottratto tali somme trasferendole su conti correnti a sè
intestati. Ed invero, sul punto rileva la circostanza che la parte residua
del finanziamento fu utilizzata dall’amministratore unico: per l’estinzione
di pregresse posizioni debitore gravanti sulla società: si veda, al
riguardo, quanto già precisato con riferimento al debito di C 50.000,00
sussistente nei confronti del socio Foderà; Antonino e all’esposizione
bancaria per l’importo di C 331.587,51 sussistente nei confronti della
Credem […]; per il compimento di plurimi investimenti finanziari: il
primo, di C 1.800.000,00 (poi successivamente riaccreditati sul conto
corrente della Sicilfert), ed il successivo (per l’ammontare di C
500.000,00) presso la USB Fiduciaria»
La motivazione è amplissima nonchè puntuale nell’avere
individuato il vantaggio conseguito dall’ente, vantaggio che corrisponde
perfettamente a quella nozione di cui si è dato conto e che è
espressione della monolitica giurisprudenza di questa Corte di legittimità
richiamata e fatta propria dal Tribunale.
La difesa, come si è illustrato, insiste, però, nel sostenere che i
giudici di merito avrebbero omesso di verificare se l’ente avesse
“voluto” tale utilità e se, nel momento in cui l’aveva percepita, si fosse
resa conto della sua effettiva origine (cfr pag. 9 ricorso).
Ma, è proprio qui che si annida l’erroneità della suddetta tesi.

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vantaggio oggettivo della società, che ha storicamente visto, per un

Ed infatti, poiché, sulla base della immedesimazione organica,
l’ente “vuole” ed “agisce” per come “vuole” ed “agisce” il proprio
rappresentante, non è materialmente possibile effettuare questa sorta di
scissione propugnata nel ricorso.
Ed è proprio per evitare una incontrollabile deriva “psicologica”,

possibilità di tutelarsi dalla responsabilità solo attraverso la
predisposizione di idonei modelli organizzativi: ossia, ancora una volta,
un sistema che, sulla base di dati oggettivi ed estranei ad impossibili ed
improbabili indagini sulla volontà del rappresentante, possa verificare
l’estraneità dell’ente al comportamento illecito del proprio
rappresentante.
In conclusione, deve ritenersi che le pacifiche risultanze
processuali, ampiamente evidenziate da entrambi i giudici di merito,
hanno posto in evidenza che i reati commessi dal legale rappresentante,
lo furono nell’interesse e vantaggio dell’ente: nell’interesse, perché il
finanziamento era finalizzato all’esecuzione del progetto di investimento
relativo alla realizzazione di un impianto per la produzione di energia da
fonte rinnovabile nel settore di intervento “biomassa”: quindi, una
condotta che, in quanto inerente e pertinente alla politica d’impresa
dell’ente, non può ritenersi effettuata nell’interesse personale ed
esclusivo del legale rappresentante; a suo vantaggio come dimostrato,
in punto di fatto, dalle utilità che l’ente ricavò ed analiticamente indicate
in specie nella sentenza di primo grado.

3. VIOLAZIONE DEGU ARTr. 444 COD. PROC. PEN., 63 DLGS 231/2001: la
suddetta doglianza è manifestamente infondata.
Entrambi i giudici di merito, hanno respinto la richiesta sotto un
duplice profilo: a) perché ritenuta non congrua in relazione alla gravità
dei reati; b) perché comunque la richiesta era stata subordinata ad una
condizione illecita e cioè la non confiscabilità del profitto: cfr pag. 23
sentenza primo grado; pag. 6 sentenza di appello.
Trattandosi di doppia motivazione, è sufficiente rilevare che le
ragioni addotte in ordine alla non congruità della richiesta, devono

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che si è affermata la tesi oggettiva dell’interesse, lasciando all’ente la

ritenersi incensurabili in questa sede involgendo una questione di merito
sulla valutazione discrezionale da parte dei giudici di merito che deve
ritenersi esercitata correttamente e razionalmente: il che rende
irrilevante la disamina dell’ulteriore ed alternativa motivazione con la
quale la richiesta è stata respinta sotto il profilo che era stata sottoposta

4. VIOLAZIONE DELL’ART. 19 DLGS 231/2001: entrambe le censure
dedotte in ordine alla confisca (supra in parte narrativa §§ 2.4. – 2.5.),
nei termini in cui sono state dedotte, sono manifestamente infondate.

4.1. Quanto alla prima doglianza (illustrata in parte narrativa al §
2.4.), va premesso che il pacifico principio di diritto al quale occorre
attenersi è quello secondo il quale «in tema di responsabilità da reato
degli enti collettivi, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile
ad un’ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto confiscabile ex art. 19
del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere determinato da un lato,
assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale
costituenti diretta derivazione causale dell’illecito così da aver riguardo
esclusivamente dell’effettivo incremento del patrimonio dell’ente
conseguito attraverso l’agire illegale e, dall’altro, escludendo i proventi
eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente
svolte in favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico,
pari alla “utilitas” di cui si sia giovata la controparte»: ex plurimis Cass.
53430/2014 Rv. 261841.
Sennonché, in punto di fatto, risulta accertato (cfr supra § 2), che
il denaro incassato fraudolentemente fu utilizzato per scopi
completamente diversi per quelli per cui era stato erogato: in altri
termini, non un solo euro risulta che fu destinato al progetto per la
realizzazione di un impianto per la produzione di energia da fonte
rinnovabile. E’ chiaro, quindi, che tutta la somma incassata va
considerata “profitto” non potendosi detrarre da essa alcunché.
Quanto, infine, alla tesi secondo la quale la confisca dovrebbe
essere limitata alla sola somma rinvenuta nelle casse sociali, con

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ad una condizione illecita.

esclusione di quella di cui si era appropriato il Foderà, va osservato che,
erroneamente, la ricorrente tende a separare la propria posizione da
quella del proprio legale rappresentante.
Invero, una volta che si sia accertato che i reati commessi dal
legale rappresentante, lo furono nell’interesse e a vantaggio dell’ente,

entrambi i giudici di merito, hanno ritenuto che il profitto andasse
individuato in tutto l’importo fraudolentemente ottenuto.

4.2. Quanto alla seconda doglianza (in parte narrativa § 2.5.), va
osservato quanto segue.
L’art. 19 dlgs cit., stabilisce che è sempre disposta la confisca del
prezzo o profitto del reato «salvo che per la parte che può essere
restituita al danneggiato».
La ricorrente, facendo leva su questa previsione normativa,
sostiene che la confisca non avrebbe potuto essere disposta in quanto
era stato raggiunto – fra essa ricorrente e la “Riscossione Sicilia s.p.a.” un accordo che prevedeva la restituzione dell’intero importo del
finanziamento pubblico.
La Corte territoriale ha rigettato la suddetta richiesta adducendo la
seguente motivazione: «E’ del tutto evidente come, solo sulla base di
quello che allo stato è soltanto un piano affidato alle buone intenzioni
dei vertici rinnovati della Sicilfert SRL, senza alcuna certezza sul suo
definitivo completo buon esito, non possa certo revocarsi la confisca
come disposta in primo grado nel pieno rispetto della normativa di cui
agli artt. 9 e 19 del D.Igs 231 del 2001 che la rendono obbligatorio
corollario, non certo discrezionale, in caso di condanna. Non sposta i
termini della questione l’avere allegato, questa volta con la memoria
difensiva depositata per l’udienza del 3 giugno 2014, le copie dei plurimi
bollettini per il pagamento, nei prossimi lunghi anni a venire fino alla
fine del 2019, delle varie rate, in larghissima parte ancora ovviamente
non versate. Si tratta, allo stato, solo di un’aspirazione, non certo della
prova, l’unica che potrebbe essere presa in considerazione ai fini della
revoca della disposta confisca anche per equivalente, dell’intervenuta

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non resta alcuno spazio alla tesi difensiva: correttamente, quindi,

restituzione alle casse pubbliche di quanto lucrato e malversato dalla
Sicilfert S.r.l.».
Ora, già questa motivazione, è, in punto di fatto, incensurabile in
quanto congruamente motivata.
Ma, a parte la suddetta motivazione, in realtà, la richiesta della

Dalla norma invocata, infatti, si desumono due requisiti perché il
profitto del reato non venga interamente confiscato e cioè: a) che ci sia
un profitto che sia stato materialmente sequestrato; b) che vi sia un
danneggiato che abbia richiesto (ed ottenuto) la restituzione di una
parte della somma sequestrata.
Nel caso di specie manca il requisito sub b), nel senso che non
risulta che la “Riscossione Sicilia s.p.a.”, ammesso che sia legittimata,
abbia mai chiesto la restituzione della somma sequestrata.
Di conseguenza, l’accordo intervenuto fra la ricorrente e la
“Riscossione Sicilia s.p.a.” è del tutto irrilevante costituendo un accordo
che non può avere alcuna influenza sulla normativa invocata che
prevede precisi presupposti di natura sostanziale e processuale
(appartenenza della somma sequestrata al danneggiato dal reato;
accertamento del

quantum;

restituzione) del tutto assenti nella

fattispecie.
Va, quindi, data continuità al principio di diritto secondo il quale
«in tema di responsabilità degli enti, l’utilità economica ricavata dalla
persona giuridica a seguito della consumazione di una truffa non può
essere confiscata come profitto del reato, nemmeno per equivalente,
quando la stessa sia stata già restituita al soggetto danneggiato»: Cass.
45054/2011 riv 251070

5. LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 19 DLGS CIT: la questione è
manifestamente infondata per la semplice ragione, prospettata già dallo
stesso ricorrente, che «il criterio di responsabilità della persona giuridica
è autonomo rispetto a quello stabilito per l’imputato»,
ipotizzabile la violazione di alcuna norma costituzionale.

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sicchè non è

ricorrente è inammissibile in punto di diritto.

In altri termini, ciò che rileva è che, al momento della
commissione dei reati presupposti, questi erano già in vigore, ed era
prevista la confisca per quei reati.
Che, poi, la confisca per equivalente sia stata introdotta per le
persone fisiche successivamente alla commissione del reato, non

responsabilità (del tutto diversa, rispetto a quella penale ed
amministrativa, tant’è che è qualificata come un tertium genus rispetto
alla prime due) trattandosi di scelta legislativa incensurabile.

6.

TRATTAMENTO SANZIONATORIO: la

suddetta censura Va ritenuta

manifestamente infondata in quanto la motivazione addotta dai giudici
di merito: [conseguimento di un profitto di rilevante entità; assenza di
circostanze esimenti o attenuanti; mancata predisposizione atte a
prevenire la commissione di illeciti: cfr pag. 20 sentenza di primo grado
e pag. 6 sentenza di appello] deve ritenersi ampia, congrua e logica e,
quindi, non censurabile in questa sede di legittimità, essendo stato
correttamente esercitato il potere discrezionale spettante al giudice di
merito in ordine al trattamento sanzionatorio.

7. Infine, quanto alla dedotta sussidiarietà fra gli artt. 640 bis e
316 bis cod. pen., questa Corte, pur consapevole di alcune decisioni
contrarie (Cass. 23063/2009 riv 244180), ritiene di confermare il
maggioritario e più recente indirizzo giurisprudenziale secondo il quale
«il reato di malversazione in danno dello Stato (art.316-bis cod. pen.)
può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche (art.640-bis cod. pen.)»:

in considerazione della

non identità degli interessi protetti. L’art. 640 e art. 640 bis c.p.,
tutelano, infatti, il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di
conseguimento di erogazioni pubbliche; l’art. 316 bis c.p., tutela la
pubblica amministrazione da atti contrari agli interessi della collettività,
anche di natura non patrimoniale: in terminis, Cass. 43349/2011 riv
250994.

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influisce, per la ricorrente, in alcun modo sulla propria autonoma

8. In conclusione,

l’impugnazione deve rigettarsi con

conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.

il ricorso e
CONDANNA
la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma 16/06/2015
IL PRESIDENTE
(Dott. Mario Gentile)
IL CONSIGLIER
(Dott. G. Rago

RIGETTA

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