Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29452 del 17/05/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29452 Anno 2013
Presidente: MACCHIA ALBERTO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da Marchi Antonio, Paolo Antonio, Veneruso Mariano, Bruno
Giuseppe, Rodà Antonio e Ribatti Elisabetta,
avverso la sentenza 17.2.12 della Corte d’Appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Antonio Manna;
udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. Alfredo Pompeo Viola, che
ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori – Avv. Gian Piero Biancolella e Avv. Massimo Krogh per la
Ribatti, Avv. Vincenzo Nico D’Ascola e Avv. Giovanni Aricò per il Marchi, Avv.
Claudio Zadra per il Roda, Avv. Franco Rossi Galante per il Paolo, Avv. Anselmo
Torchia e Avv. Giovanni Sisto Vecchio per il Veneruso, Avv. Carlo Luppino per
il Bruno -, che hanno concluso per l’annullamento dell’impugnata sentenza in
virtù dei motivi di cui ai rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 4.5.10 il Tribunale di Milano condannava a pene varie
Antonio Marchi, Antonio Paolo e Mariano Veneruso per il delitto p. e p. ex art. 74
d.P.R. n. 309/90 (capo 1 della rubrica) e il Paolo anche per violazioni fiscali

Data Udienza: 17/05/2013

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relative a fatture inesistenti (capo 7), nonché Giuseppe Bruno solo per utilizzo di
fatture relative ad operazioni inesistenti, mentre assolveva Elisabetta Ribatti e
Antonio Roda dai reati loro ascritti (art. 648 bis c.p. la Ribatti; artt. 74 e 73 d.P.R.
n. 309/90 il Rodà).
Con sentenza 17.2.12 la Corte d’Appello di Milano condannava il Roda per il
delitto di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90 (capo 2) e la Ribatti per il delitto di
riciclaggio (capo 4), con interdizione dai pubblici uffici per anni 5 per il Rodà.
Questi, in sintesi, i fatti come ricostruiti dai giudici del merito: insieme con altre
14 persone (Salvatore Morabito, Pasquale Modaffari, Antonino Palamara,
Francesco e Antonio Zappala, Carmelo Foti, Giovanni Falzea, Caterina Mista,
Giuseppe D’Agostino, Ignazio Spirmato, Francesco Pizzinga, Ivano Mondini,
Leone Auteliano e Franco Messa, separatamente giudicate con rito abbreviato e
condannate in via definitiva), Antonio Marchi, Antonio Paolo e Mariano
Veneraci avevano fatto parte di un’associazione per delinquere finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti, operante in Milano e in altre località della
Lombardia, in Liguria, in Calabria, in Svizzera, in Brasile, in Argentina e in
Bolivia. L’associazione era caratterizzata da una fitta rete di rapporti e
dall’articolazione internazionale del gruppo, che si approvvigionava direttamente
da trafficanti operanti in alcuni paesi dell’America latina e disponeva di notevoli
mezzi finanziari e proprie basi logistiche (il ristorante di Antonio Zappala, lo
studio di Ivano Mondini e gli uffici messi a disposizione dal Paolo e dal Marchi);
in tale associazione vi era una ripartizione di ruoli e una struttura gerarchica.
Il sodalizio criminale aveva dimostrato una forte capacità di reazione all’azione
di contrasto degli inquirenti e aveva come propri punti di riferimento le strutture
societarie “parallele” dell’Ortomercato di Milano facenti capo al Paolo (e di cui si
era ingerito il Morabito, già condannato in passato per traffici di droga, pur privo
di specifica esperienza nel settore).
A riguardo erano emerse, a seguito di apposita consulenza tecnica, anomalie
contabili nella gestione delle varie società, caratterizzate da ingiustificati prelievi
di contante per grossi importi – tra l’altro nel periodo in cui era in corso
l’importazione di un ingente quantitativo (206 kg.) di cocaina (con principio
attivo pari all’81%) – e da un movimento di false fatturazioni per imponibili
complessivamente assai elevati.

Confermava nel resto le statuizioni di prime cure.

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In altre parole, concludevano i giudici del merito, per gestire le enormi liquidità
riferibili al traffico di droga il Morabito aveva strumentalizzato organismi
societari apparentemente leciti. Significativa dell’appartenenza al parallelo
sodalizio criminale era non solo l’adesione al programma associativo con compiti
direttamente operativi nella gestione dei traffici illeciti, ma anche i ruoli assunti
dagli altri imputati del reato associativo nelle strutture dell’Ortomercato, con la
consapevolezza della strumentalizzazione delle attività societarie agli specifici
Contro la sentenza della Corte territoriale, di cui chiedevano l’annullamento per
i motivi qui di seguito riassunti, ricorrevano tramite i rispettivi difensori il
Marchi, il Paolo, il Veneruso, il Rodà e la Ribatti e, personalmente, il Bruno.
Il Marchi lamentava:
1) erronea affermazione della sua responsabilità per il reato associativo in
base alle cointereasenze societarie ed economiche con Francesco Zappalà,
nonostante che non fosse emersa prova alcuna che riguardassero il traffico
di stupefacenti anziché una lecita attività imprenditoriale e che non
risultasse prova della consapevolezza, da parte del ricorrente, dell’attività
di spaccio svolta dallo Zappalà e della volontà di cooperarvi, a tal fine non
potendo bastare i rneri rapporti di amicizia fra i due; inoltre, l’impugnata
sentenza aveva ignorato elementi a discarico del ricorrente (atteso che
nessuno dei coimputati lo avevano indicato come correo) e aveva taciuto
sull’illogicità dell’ipotesi accusatoria che, pur ritenendo che il Marchi
fornisse un permanente contributo all’attività dell’associazione criminale,
aveva però richiamato un solo episodio di importazione di sostanze
stupefacenti (relativo al sequestro del 23.1.07);
2) mancata applicazione delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza.
Il Veneruso denunciava (nel ricorso a firma dell’avv. Giovanni Vecchio) che:
3) la motivazione della Corte territoriale aveva sostanzialmente eluso
l’obbligo di motivazione rispetto alle censure svolte nell’atto d’appello, in
cui si era negato che il Veneruso fosse uomo di fiducia del Morabito e che
fossero illecite le attività del Consorzio Europa 2004; né la sentenza aveva
spiegato perché il ricorrente fosse un imprenditore impegnato a prestare la
propria attività per finanziare il gruppo criminale o perché fosse sospetta
la cessione dei contratti dal Nuovo Co.Se.Li. al Consorzio Europa 2004; la

interessi criminali del Morabito e degli altri sodali.

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gravata pronuncia non aveva indicato qUale fosse la prova del
ripianamento della posizione debitoria del Paolo tramite contributi illeciti
provenienti dal Morabito, transitati attraverso il Veneruso; né risultava in
che modo il ricorrente avesse giovato all’illecito arricchimento
dell’associazione per delinquere, così come non vi era prova di flussi
finanziari anomali a favore del Consorzio Europa 2004.
Il Veneruso lamentava ancora (nel ricorso a firma dell’avv. Luca Tarabbia)
4) la scarna motivazione della Corte territoriale, nel fare propria quella del
Tribunale, non aveva chiarito da cosa risultasse la consapevolezza e la
volontà del ricorrente di far parte di un’associazione finalizzata al traffico
di stupefacenti, ma si era limitato a una serie di congetture sprovviste di
riscontro oggettivo, tale non potendosi considerare l’apodittica
affermazione della qualità del ricorrente come uomo di fiducia del
Morabito (sol perché il primo sapeva dei precedenti penali del secondo) o
la presenza del Veneruso tra gli imputati del reato p. e p. ex art. 416 bis
c.p. nel procedimento cd. “Ciaramella”, i cui atti, acquisiti al presente
processo, dimostravano invece l’estraneità del ricorrente alle attività del
Morabito (v. deposizione del capitano Gabriele Mambor, che aveva svolto
le indagini in quel procedimento), tanto che la posizione del Veneruso era
stata archiviata (su ciò il ricorrente insiste anche nei motivi aggiunti
depositati il 30.4.13); e ancora, l’impugnata sentenza aveva omesso di
valutare le censure relative alla costituzione del Consorzio Europa 2004, al
ruolo del Morabito e a quello degli imprenditori che avevano agito a
favore del Morabito stesso, anche perché costui era in grado di gestire
propri interessi direttamente dalla Calabria; ne era vero che il ricorrente
non avesse competenze specifiche nell’attività dei consorzi (vedi testi
Grieco e Capuzzo e i documenti che dimostravano come da trent’anni il
Veneruso lavorasse nel settore); i giudici del merito avevano presunto, ma
senza concreti riscontri, che il Veneruso fosse uomo di fiducia del
Morabito, che questi fosse tornato a Milano grazie al Paolo, che il
Veneruso e il Morabito non avessero esperienza nell’attività dei consorzi e
che il Morabito, avendo ingenti disponibilità finanziarie grazie al traffico
di sostanze stupefacenti, avesse ripianato i debiti del Paolo (del che non vi

che:

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era alcuna traccia documentale); inoltre, non era vero (alla stregua di
quanto affermato dal consulente dr. Bellavia) che le fatture false o per
operazioni inesistenti costituissero una struttura di costi destinata a risalire
fino ai consorzi determinandone in tal modo i bilanci; ancora l’impugnata
sentenza aveva trascurato altre risultanze processuali che smentivano
l’ipotesi accusatoria e che erano state segnalate nei motivi di appello;
5) del pari carente era la motivazione circa l’applicazione delle attenuanti
fine non bastando l’assunto secondo cui il Veneruso avrebbe commesso il
reato pur non essendo mosso da difficoltà economiche e non avendo
l’impugnata sentenza valutato l’incensuratezza del ricorrente, doglianza
che questi coltivava anche con i motivi aggiunti.
Il Paolo deduceva che:
6) la Corte territoriale aveva dato di ogni elemento emerso nel dibattimento
una lettura colpevolista anche quando ne sarebbe stata possibile una di
segno opposto, facendosi influenzare dalla sentenza, passata in giudicato,
con cui il GUP di Milano aveva condannato altri coimputati per il delitto
di cui all’ari 74 d.P.R. n. 309/90, omettendo un autonomo e nuovo
accertamento circa l’esistenza dell’associazione per delinquere oggetto di
contestazione, come se la sentenza resa in altro procedimento avesse
efficacia di giudicato penale in quello presente; nello specifico della
posizione del Paolo, non era emersa alcuna prova diretta di una sua
partecipazione alla presunta associazione criminale, mentre erano stati
smentiti gli elementi portati a suo carico dalla pubblica accusa, come il
supposto debito iniziale che avrebbe spinto il Paolo a stringere legami con
il Veneruso e il Morabito, la notorietà del carattere criminale di
quest’ultimo, l’utilizzo di denaro contante, il trasferimento di uffici del
Nuovo Co.Se.Li., la presunta commistione di utili leciti e illeciti per le
cooperative: si trattava di elementi rispetto ai quali la difesa aveva fornito
una spiegazione in chiave alternativa a quella accusatoria, senza però che a
tale riguardo la Corte territoriale rispondesse alle obiezioni sollevate dalla
difesa, soprattutto in ordine all’elemento soggettivo del reato ascritto al
ricorrente, a tal fine non bastando la circostanza che realmente il Paolo,
nel corso della propria attività imprenditoriale, avesse utilizzato anche

generiche senza criterio di prevalenza sulla contestata aggravante, a tal

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fatture false per giochi contabili non trasparenti; inoltre non era dimostrato
che egli fosse consapevole dell’attività delinquenziale svolta
parallelamente dal Morabito, ben potendo il Paolo essere all’oscuro di
tutto ciò ed essere stato usato come schermo dietro il quale agiva
indisturbata un’associazione per delinquere; il cuore della tesi accusatoria
consisteva nella circostanza della confusione di utili leciti e utili illeciti,
ma ciò era smentito dal fatto che – alla stregua delle stesse conclusioni dei
milionari poi ripianati dal Morabito; in altre parole, se il fondamento
dell’esistenza del dolo da parte del ricorrente era nell’analisi dei flussi
finanziari, ciò era stato smentito dal fatto che i debiti iniziali del Paolo
erano stati ridimensionati dagli stessi consulenti del PM in poche centinaia
di migliaia di euro e che lo stesso ricorrente aveva provveduto a pagare,
come dimostrato dalla difesa; per quanto riguardava, poi, i flussi di denaro
in entrata nel Consorzio, non vi era prova della loro illiceità, né poteva
dirsi che l’ingresso del Morabito avesse portato con sé un giro di nuovi
clienti importanti, essendosi invece dimostrato che i clienti di rilievo erano
già presenti nel periodo precedente all’arrivo del Morabito;
7) in subordine, l’impugnata sentenza aveva omesso di accertare l’esistenza
dell’affectio societatis e del pacturn sceleris, nonché di valutare la
possibilità che il Paolo rivestisse il ruolo di mero concorrente esterno o
che il suo fosse stato un concorso anomalo, non essendo emersa prova che
avesse condiviso la pianificazione e/o la preparazione dell’attività
delittuosa; né vi era prova di una consapevolezza del ricorrente circa i
singoli progetti delittuosi attuati dall’associazione criminale, al punto che
l’eventuale concorso esterno del Paolo sarebbe stato veicolato non
mediante l’art. 110 c.p., ma attraverso l’art. 116 c.p., nel senso che, al più,
il Paolo avrebbe potuto avere la consapevolezza e la volontà di aiutare un
gruppo criminale organizzato, ma senza alcun profilo del dolo proprio del
narcotrafficante; a questo punto, dovendosi approfondire la tematica del
concorso anomalo, si sarebbe dovuta dimostrare la reale possibilità che il
ricorrente immaginasse che l’importazione di sostanze stupefacenti
facesse parte del panorama delle attività illecite cui era dedita
l’associazione;

consulenti contabili della Procura – non era vero che il Paolo avesse debiti

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8) quanto alla contestazione di cui al capo 7 della rubrica, relativa alle fatture
inesistenti, il Paolo ne aveva confessato l’utilizzo, ma non l’emissione, che
non poteva dirsi provata neppure dai files (presenti in due pen drive)
relativi a modelli di fatture intestate a società per le quali non erano
realmente state svolte operazioni in grado di giustificare alcun pagamento:
ad avviso del ricorrente si trattava di mero insufficiente elemento
indiziario, inidoneo anche ad integrare il tentativo punibile ex art. 56 c.p.;
statuizione civili, non comprendendosi quale sarebbe stato il danno subito
dalle parti civili costituite: a tale proposito non poteva certo bastare la
risonanza mediatica del fatto che l’associazione per delinquere sarebbe
stata solita frequentare gli uffici del Consorzio Nuovo Co.Se.Li. ubicati
presso l’Ortomercato, né il fatto che la vulgata giornalistica avesse
associato la SOGEMI al processo in corso; ancora più illogica e priva di
sostegno giuridicc) era la decisione di riconoscere analogo risarcimento
anche a Roberto Predolin, presidente della SOGEMI, entrato in carica
appena prima della deflagrazione giudiziaria del caso, così da non poter in
nessun modo veder offeso il proprio decoro dall’eco mediatica derivante
dalla vicenda; comunque, si sarebbe trattato di danni meramente indiretti,
non avendo il Paolo responsabilità alcuna della denigratoria campagna di
stampa.
Il Bruno lamentava che:
9) contrariamente a quanto statuito dall’impugnata sentenza, non vi era prova
del dolo specifico del reato ascrittogli, ossia del fatto che il Bruno avesse
specifica consapevolezza della falsità delle fatture, del loro inserimento
nella contabilità aziendale e della loro finalizzazione a scopo di evasione
fiscale; anzi, alcuni testimoni avevano escluso che fosse al corrente della
contabilità; né in contrario poteva valere l’aver firmato assegni in bianco o
l’aver ricevuto indicazioni circa le risposte da dare agli inquirenti circa il
fatto di essere formale amministratore delle società; né il dolo specifico
proprio del reato poteva essere sostituito da un generico riferimento alla
posizione di garanzia assunta dal Bruno in virtù della mera carica formale
ricoperta; né la responsabilità del Bruno poteva fondarsi, dal punto di vista

l’impugnata sentenza era censurabile anche per aver confermato le

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causale, in base all’articolo 40 cpv. c.p., applicabile soltanto ai reati con
evento naturalistico;
10) erroneamente erano state negate le attenuanti generiche malgrado
l’incensuratezza del ricorrente e il fatto che egli svolgesse stabile attività
lavorativa in un normale contesto socio-ambientale, come assistente
tecnico in ambito scolastico.
Il Rodà denunciava:
a carico del ricorrente un assegno che, lungi dal riguardare cessioni di
stupefacenti (del cui passaggio non vi era prova), concerneva – invece – la
vendita di prodotti tipici calabresi fatta al Rodà dal Foti (altro coimputato
condannato in via definitiva per il delitto di cui all’art. 73 d.P.R. n.
309/90); in tal modo la sentenza d’appello aveva riformato, in base ad
un’ipotesi alternativa e non maggiormente persuasiva, quella assolutoria
emessa in prime cure, il tutto secondo elementi congiunturali tratti da
intercettazioni telefoniche; né era vero che nei colloqui intercettati il Rodà,
il Foti e lo Zappalà avessero adoperato un linguaggio criptico; inoltre i
viaggi effettuati dal ricorrente a Milano erano giustificati dal fatto che vi
risiedeva la sua ragazza, Alessia Casile;
12)a riprova dei reali rapporti commerciali tra il Fati e il Rodà aventi ad
oggetto prodotti gastronomici calabresi – e non sostanze stupefacenti doveva considerarsi una telefonata in cui si parlava di vendita di salumi:
non a caso l’assegno di euro 1050,00 risultava firmato da tale Mussali,
titolare di un negozio di gastronomia a Lainate; ed ancora,
apoditticamente, la Corte territoriale aveva ritenuto che nelle
conversazioni in cui si parlava di “pesce” si intendesse, invece, fare
riferimento a sostanza stupefacente;
13) analogamente, in maniera illogica, i giudici d’appello avevano ritenuto che
in alcune conversazioni telefoniche in cui si parlava di “mangiare due
pesci”, di “prendere un caffè insieme”, oppure di un “agnello”, ci si
riferisse, invece, a sostanze stupefacenti; in realtà, in nessuna telefonata
intercorsa tra lo Zappalà e il Rodà si era mai parlato di agnelli e il
riferimento al pesce si giustificava per il fatto che all’epoca dei fatti il
ricorrente viveva in Liguria, tra Lavagna e Chiavari, note località di mare;

11)vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza aveva valutato

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14)in violazione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
l’impugnata sentenza aveva affermato la penale responsabilità del
ricorrente, riformando l’assoluzione emessa dal Tribunale, senza rinnovare
le prove dichiarative acquisite in primo grado;
15) erroneamente l’impugnata sentenza aveva valutato contro il Rodà la
sentenza di condanna già emessa carico dello Zappalà e del Poti, senza
sottoporre ad adeguato vaglio la condivisibilità del dictum dell’altro
La Ribatti lamentava che:
16) la Corte territoriale aveva riformato l’assoluzione emessa in primo grado
senza confutare in modo specifico le contrarie argomentazioni del
Tribunale;
17)in particolare, l’impugnata sentenza aveva immotivatamente asserito che il
riciclaggio dei proventi di reato fiscale si sarebbe concretato in sempre
crescenti quantità di prelievi in contanti per operazioni che venivano
registrate sul conto corrente come pagamento di fatture, indicazione che
corrispondeva solò alla causale indicata dal cliente negli ordini di bonifico
che egli disponeva, non certo addebitabili alla funzionaria di banca, vale
dire alla ricorrente;
18)i reati considerati come presupposto di quello di riciclaggio erano stati
individuati nell’emissione e nell’utilizzo di fatture false o per operazioni
inesistenti, ma di ciò la sentenza impugnata non aveva fornito prova;
inoltre, il quadro degli asseriti reati presupposti offriva un panorama di
utilizzi di fatture straordinariamente modesto rispetto all’entità dei
prelievi, di guisa che era del tutto arbitrario ritenere, come aveva fatto la
Corte territoriale, l’esistenza di relazioni di funzionalità dei primi rispetto
ai secondi;
19)l’impugnata sentenza aveva escluso la buona fede della ricorrente in base
ad asserite irregolarità addebitatele dalla relazione ispettiva della banca
presso cui lavorava, nonostante che le società del gruppo facente capo ad
Antonio Paolo meritassero sicuramente gli affidamenti concessi, il che
escludeva che la Ribatti potesse essere consapevole dei reati fiscali del
cliente affidato, censura che la ricorrente coltivava anche nei motivi
aggiunti;

giudice.

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20) l’impugnata sentenza risultava altresì viziata nella motivazione in ordine
all’asserita anomalia degli ingenti prelievi di contanti, nonostante che essi
potessero spiegarsi con il pagamento di stipendi ai dipendenti, censura che
veniva coltivata anche nei motivi aggiunti (con il dire che il pagamento in
contanti degli stipendi dovuti agli operai non aveva destato alcun sospetto
neppure negli altri dipendenti della banca);
21) altro vizio di motivazione riguardava l’elemento soggettivo del reato di
rilevare quella frequenza di prelievi come significativa di un’operazione di
riciclaggio;
22) contrariamente a quanto asserito dalla gravata pronuncia la Ribatti non
aveva mai apposto sugli assegni la propria sigla per autorizzare il cambio
in contanti; inoltre il teste Pezzali, direttore dell’agenzia di San Marco,
aveva riferito che gli sconfinamenti autorizzati dalla Ribatti rientravano
nelle sue facoltà;
23) per definire irregolare od anomala la condotta della ricorrente si sarebbe
dovuto stabilire quali fossero i comportamenti da lei dovuti e omessi, il
che era mancato, così come era mancato un qualsiasi accertamento in
ordine a eventuali profili di personale tornaconto economico che la
ricorrente avrebbe ricavato dall’asserita agevolazione dell’associazione
criminale;
24) contraddittoriamente l’impugnata sentenza aveva qualificato il denaro in
contanti sia come provento di reato sia come risultato della trasformazione
del provento medesimo;
25) in violazione dell’art. 648 bis c.p. la Corte territoriale aveva ravvisato il
riciclaggio di denaro proveniente da reati fiscali nonostante che nel caso di
specie ne mancasse l’ineludibile rapporto di causalità diretta: infatti, il
reato di utilizzo di fatture inesistenti si consumava al momento della
presentazione della dichiarazione, mentre nell’ipotesi in esame la
disponibilità di contante sussisteva ancor prima e indipendentemente dalla
registrazione nelle scritture contabili e, quindi, non conseguiva da tali
successive scritturazioni, sicché il contante prelevato non poteva
considerarsi provento del reato di utilizzo di fatture per operazioni

riciclaggio, non risultando dimostrato perché mai la ricorrente dovesse

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inesistenti; in conclusione non si poteva confondere il concetto di
provenienza da reato con quello di mera pertinenza.
Con motivi aggiunti la difesa del Veneruso lamentava ulteriormente che la
sentenza impugnata aveva eluso le argomentazioni difensive contenute nei motivi
d’appello, con particolare riferimento al fatto che la posizione del ricorrente nel
cd. procedimento Ciaramella era stata archiviata, che i rapporti con il Morabito
erano squisitamente professionali, che le false fatturazioni erano funzionali
evadere le imposte, che non vi era prova d’un qualche apporto finanziario
proveniente dal Morabito, così come non vi era prova che il Veneruso fosse
comunque consapevole di attività associative finalizzate al traffico di sostanze
stupefacenti.
Il Veneruso deduceva, ancora, che non vi era prova di pactum sceleris né di
affectio societatis riguardo al delitto associativo, prova non desumibile
dall’aprioristico postulato secondo il quale il Veneruso sarebbe stato uomo di
fiducia del Morabito.
Con motivi aggiunti la Ribatti insisteva nelle doglianze svolte nel proprio
ricorso per cassazione, illustrandole ulteriormente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1. I motivi che precedono sub 1), 3), 4), 6), 8), 12), 13), 14) e 16) — da

trattarsi congiuntamente perché tutti concernenti la motivazione della
ricostruzione dei fatti operata dall’impugnata sentenza — sono per certi aspetti
infondati, per altri estranei al novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p. perché
sostanzialmente si traducono in una differente lettura delle risultanze processuali
che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione in punto di
fatto. Si tratta di operazioni incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte
Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate
nella valutazione degli indizi di cui all’art. 192 co. 2° c.p.p., nonché la verifica
sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni
sostenute per qualificare l’elemento indiziario come grave, preciso e concordante,
senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione
dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti (cfr., ad es., Cass. Sez. VI
n. 20474 del 15.11.02, dep. 8.5.03).

soltanto a procacciare denaro contante per pagare “in nero” i soci lavoratori o per

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A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non
può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito,
dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con
massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.
Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto
generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a
decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui
adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei
sillogismi giudiziari di cui alle regole di valutazione della prova sancite dal co. 20
dell’art. 192 c.p.p.
Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del
sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque aecidit,
insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti
priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. VI, n. 15897 del
15 aprile 2009; Cass. Sez, VI n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).
Ciò detto, si noti che nel caso di specie le suddette censure non isolano singole
affermazioni intrinsecamente contraddittorie né l’uso di inesistenti massime di
esperienza né violazioni di regole inferenziali, ma si limitano a segnalare soltanto
possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito
precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere
in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di
un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza (anche a riguardo la
giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: cfr. Cass. Sez. I n. 12496 del
21.9.99, &p. 4.11.99; Cass. Sez. In. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. In.
7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. In. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98;
Cass. Sez. I n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep.
2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. I n. 1213 del
17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).
In alcuni casi i ricorsi contestano in fatto l’accertamento descritto
dall’impugnata sentenza, senza però denunciare travisamenti della prova, per altro
non consentiti in presenza di una doppia pronuncia conforme come quella che ha
ravvisato in primo e secondo grado la penale responsabilità del Paolo, del
Veneruso e del Marchi.

osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono

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Infatti, un eventuale travisamento della prova è pregiudizialmente inibito dal
rilievo che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, la novella dell’art. 606 co.
l lett. e) c.p.p. ad opera della legge n. 46/2006 consente la deduzione del vizio di
travisamento della prova, in ipotesi di doppia pronuncia conforme, nel solo caso
in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure contenute nell’atto di
impugnazione, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal
primo giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che non può essere
24667 del 15.6.2007, dep. 21.6.2007; Cass. Sez. II n. 5223 del 24.1.2007, dep.
7.2.2007; Cass. Sez. II n. 42353 del 12.12.2006, dep. 22.12.2006, e numerose
altre).
Quanto ad un ipotetico travisamento dei fatti, valga il preliminare rilievo della
sua non deducibilità come vizio di motivazione.
Né con il ricorso per cassazione ci si può dolere dell’omessa risposta a taluni
argomenti difensivi o della mancata menzione di alcune risultanze processuali: al
contrario, nella propria motivazione il giudice del merito non è tenuto a compiere
un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame
dettagliatamente tutto quanto emerga dagli atti, essendo invece sufficiente che,
anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi,
in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo
convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual
caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che,
anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata (cfr, e pluribus, Cass. Sez. IV n. 1149 del 24.10.2005, dep.
13.1.2006; Cass. Sez. IV n. 36757 del 4.6.2004, dep. 17.9.2004).
Operate tali doverose premesse, è appena il caso di notare che non risponde al
vero che i giudici di merito abbiano desunto l’esistenza dell’associazione per
delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti dalle sole risultanze
acquisite nel separato procedimento svoltosi a carico di altri coimputati (censura
formulata nel ricorso del Paolo), atteso che ad esse si sono aggiunte quelle
riportate in relazione alle singole posizioni degli odierni ricorrenti, che nel
delinearne la collocazione nel sodalizio criminale ne integrano altresì i tratti
salienti.

superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr. ad es. Cass. Sez. II n.

14

Nello specifico, è stato evidenziato che il Paolo e il Morabito (dopo che il
secondo aveva ripianato la consistente esposizione debitoria del primo) hanno
operato sostanzialmente come soci nelle società riconducibili al Paolo medesimo
(che in dibattimento ha ammesso, secondo quel che si legge nell’impugnata
sentenza, che il Morabito era il proprio socio occulto: lo stesso Morabito, in una
conversazione intercettata, aveva definito il Paolo come proprio socio); anzi,
l’odierno ricorrente addirittura rivendicava il diritto ad avere maggior peso nelle
dalla difesa) alla pianificazione dell’attività criminosa svolta dietro lo schermo
delle società.
Alcune di esse producevano utili che però, nascosti al fisco mediante false
fatturazioni od emissione di assegni circolari intestati a nominativi di lavoratori
stranieri dipendenti e incassati da prestanome, venivano poi reimpiegati per
costituire la provvista che andava ad alimentare il ben più redditizio traffico di
stupefacenti.
Quanto all’avvenuto ripianamento, da parte del Morabito, dei debiti del Paolo, si
tratta di fatto motivatamente accertato in sede di merito, su cui non è possibile
tornare in questa sede.
L’intensità del rapporto fra i due è stata altresì rimarcata dal fatto che il Paolo si
premurò di far avere ugualmente lo stipendio al Morabito (che figurava
formalmente come lavoratore dipendente) pur quando questi fu arrestato
nell’autunno del 2005, conformemente alla logica — annota l’impugnata sentenza
— che ispira i rapporti fra le organizzazioni criminali e i relativi adepti.
Inoltre, le movimentazioni bancarie delle società esaminate dalle consulenze
Bellavia e Mainieri hanno segnalato (sempre secondo quel che si legge nella
gravata pronuncia) una notevole produzione di fatture per operazioni inesistenti (i
cui schemi erano pronti nelle pen-drive del Paolo e della sua collaboratrice
Caterina Mista) in società sostanzialmente inattive. Tali movimentazioni di
denaro contante erano largamente superiori alla necessità (ipotizzata dalla difesa)
di pagare gli stipendi al personale: si tratta di circostanze fattuali la cui
significatività in chiave accusatoria è tutt’altro che illogica o contraddittoria.
A ciò si aggiunga, secondo quanto accertato dai giudici del merito anche in base
ad intercettazioni telefoniche, la consapevolezza da parte del Paolo dell’esistenza
di una doppia contabilità (la cui importanza veniva rimarcata dal Morabito) nelle

decisioni, a riprova della non configurabilità di quel suo disinteresse (ipotizzato

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società a lui riconducibili e, infine, la sua disponibilità a rimpiazzare il Veneruso
(altro affiliato) in un momento in cui questi era sotto indagine.
In breve, il quadro complessivo – delineato in sede di merito con motivazione
scevra da vizi logici o giuridici – è quello di una cosciente e volontaria
partecipazione dall’interno dell’associazione e mirante a realizzarne gli scopi, con
concrete manifestazioni di solidarietà verso gli altri concorrenti e con esclusione
di ogni congettura difensiva che vorrebbe il Paolo inconsapevole del sottostante
ed. concorso anomalo ex art 116 c.p.
Valgano analoghe considerazioni relativamente alla posizione del Veneruso,
soggetto in contatto con altri di notevole caratura criminale (anche della mafia
siciliana) e uomo di fiducia del Morabito, inserito come amministratore di diritto
(pur essendo sprovvisto di adeguate competenze specifiche) in quel Consorzio
Europa 2004, ma di esso co-amministratore, di fatto, al pari del Morabito e del
Paolo. Tale consorzio costituiva il vertice della piramide societaria
strumentalizzata per gestire le enormi liquidità riferibili al traffico di droga e
fisicamente collocato a stretto contatto con il Paolo.
Il Veneruso aveva condiviso con il Paolo e il Morabito tutte le scelte operative e
firmava anche disposizioni di pagamento giustificate in contabilità con
imputazioni del tutto generiche e incomprensibili, denaro poi incassato dal
coimputato Giovanni Falzea.
Quanto, all’archiviazione della posizione del Veneruso nel procedimento cd.
“Ciaramella”, si tratta di mero argomento difensivo inidoneo a dimostrare una
qualche illogicità nell’iter argomentativo dell’impugnata sentenza, poiché
l’archiviazione in un dato procedimento di per sé non implica la smentita delle
prove emerse in un altro.
La Corte territoriale ha poi correttamente motivato anche la conferma della
condanna del Marchi, che aveva messo a disposizione le proprie strutture
societarie, con annesso appoggio logistico, per consentire allo Zappalà di
confondervi i proventi del traffico di stupefacenti e di ricavarne la necessaria
provvista, il tutto nell’ambito di plurime operazioni concordate fra i due e in
cambio di appoggi da parte dello Zappalà medesimo per risolvere i problemi che
il Marchi aveva con i propri creditori.

traffico di stupefacenti, il che assorbe ogni ipotesi di mero concorso esterno o di

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Ciò si svolgeva in un contesto che vedeva Zappalà e Marchi in unione tanto
intensa da indurre il primo a mettere in contatto il secondo con trafficanti che
importavano cocaina dalla Bolivia, il che equivale a dire che non vi erano segreti
fra loro (d’altronde, come riportato nell’impugnata sentenza, nel 2002 erano stati
detenuti nella stessa cella in occasione di pregresse vicende giudiziarie).
A fronte di ciò è logicamente irrilevante che prima di entrare in contatto con lo
Zappalà il Marchi svolgesse (anche) lecite attività economiche, così come lo è il
del 23.1.07), atteso che l’esistenza e la partecipazione all’associazione di cui
all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 è stata ricavata dalla pluralità di episodi di traffico di
stupefacenti desunta dagli accertamenti svolti nel diverso procedimento (a carico
di altri coimputati) e trasfusi nel presente.
Con i motivi che precedono sub 12), 13), 14) e 16) si lamenta il diverso e non
persuasivo convincimento maturato nei giudici d’appello che, in contrario avviso
rispetto alla sentenza di primo grado e in base ad un differente apprezzamento
delle intercettazioni, hanno ritenuto il Roda colpevole del reato p. e p. ex art. 73
d.P.R. n. 309/90 di cui al capo 2 dell’editto accusatorio.
Anche tali doglia.nze vanno disattese perché la costante giurisprudenza di questa
Corte Suprema — da cui non si ravvisa ragione di discostarsi – statuisce che
l’interpretazione del linguaggio adoperato nel corso di colloqui intercettati, anche
quando esso sia criptico o cifrato, resta questione di mero fatto, sottratta al
giudizio di legittimità se la valutazione compiuta dai Giudici del merito risulta
logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., ad es., Cass. Sez. VI
n. 17619 dell’8.1.2008, dep. 30.4.2008; Cass. Sez. VI n. 15396 dell’11.12.2007,
dep. 11.4.2008; Cass. Sez. VI n. 35680 del 10.6.2005, dep. 4.10.2005; Cass. Sez.
IV n. 117 del 28.10.2005, dep. 5.1.2006; Casse. Sez. V n. 3643 del 14.7.97, dep.
19.9.2007).
Nella vicenda in esame, la Corte milanese – con motivazione immune da vizi
logici o giuridici e con specifica confutazione degli argomenti spesi nella
pronuncia assolutoria — ha asserito che i rimandi a prodotti alimentari (salumi,
pesce, caffè et similia) alludevano a traffici di stupefacenti non solo e non tanto
per i ripetuti contatti con altri coimputati (Francesco Zappalà e Carmelo Foti) già
separatamente condannati in via definitiva per concorso nel reato di cui al capo 2
della rubrica, ma soprattutto perché i riferimenti ai generi alimentari erano fuori

fatto che sia stato menzionato un solo sequestro di sostanze stupefacenti (quello

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contesto, considerate altresì le particolari accortezze che accompagnavano gli
incontri tra il Rodà e il Foti, ingiustificate se davvero si fosse trattato di
consegnare meri generi alimentari (estranei alle attività di quel Francesco Zappalà
per conto del quale il Foti si incontrava con l’odierno ricorrente).
Anche la lettura delle intercettazioni in chiave agli esiti di servizi di
appostamento da parte della p.g. dimostra — ad avviso della Corte territoriale —
che nell’episodio cui si riferisce il capo 2 della rubrica (risalente al 17.12.05) il
stupefacenti.
Infine, correttamente l’impugnata sentenza ha escluso la necessità, per
dimostrare la consumazione del reato p. e p. ex art. 73 cit., del sequestro di
stupefacenti, in ciò attenendosi alla giurisprudenza di questa S.C. secondo cui la
prova a riguardo non deriva soltanto dal sequestro o dal rinvenimento delle
sostanze, potendo desumersi da altre risultanze probatorie come, ad esempio,
intercettazioni telefoniche (cfr. Cass. Sez. IV n. 48008 del 18.11.09, dep.
16.12.09; Cass. Sez. IV n, 46299 del 28.10.05, dep. 20.12.05).
1.2.- Del pari infondati sono il motivo che precede sub 7) — formulato dalla
difesa del Paolo – e quelli aggiunti proposti dalla difesa del Veneruso in ordine
all’asserita mancanza di prova dell’affectio societatis e del pactum sceleris.
Premesso che nel caso di specie si è in presenza di una doppia pronuncia di
merito conforme sulla penale responsabilità del Paolo e del Veneruso, sicché le
motivazioni delle due pronunce vanno ad integrarsi reciprocamente, saldandosi in
un unico complesso argomentativo (cfr. Cass. Sez. II n. 5606 del 10.1.2007, dep.
8.2.2007; Cass. Sez. I n. 8868 del 26.6.2000, dep. 8.8.2000, nonché
numerosissime altre), si tenga presente che la affectio societatis e il pactum
sceleris ben possono essere desunti — come hanno fatto i giudici di merito – dalla
ricostruzione della rete dei rapporti personali, dei contatti, delle cointeressenze e
delle frequentazioni all’interno dell’associazione per delinquere (cfr., ad es., Cass.
Sez. In. 5466 del 18.4.95, dep. 12.5.95).
Costituisce, poi, mera quaestio facti – su cui la motivazione è stata completa,
logica e scevra da contraddizioni, come tale insuscettibile di censura davanti a
questa Corte Suprema – stabilire quando i rapporti di frequentazione assumano

Rodà aveva pagato al Fati il corrispettivo di una pregressa consegna di sostanze

18

connotati tali da divenire indizianti di comuni interessi in affari penalmente
illeciti.
Si rinvia, dunque, alle osservazioni sopra svolte in ordine alla correttezza della
motivazione con cui l’impugnata sentenza ha confermato la penale responsabilità
del Paolo e del Veneruso come intranei all’associazione per delinquere per cui è
processo.

del Bruno, nel quale si sostiene che l’essere costui solo formalmente
amministratore delle società di cui era dominus effettivo il Paolo non sarebbe
sufficiente a dimostrare il dolo specifico del reato di utilizzo di fatture per
operazioni inesistenti.
Se è vero che, secondo costante giurisprudenza di questa S.C., la responsabilità
del mero prestanome nasce dalla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo
che derivano dall’accettazione della carica, cui va aggiunta la dimostrazione
effettiva e concreta del dolo, nondimeno deve rilevarsi che nel caso di specie
l’impugnata sentenza non ha omesso tale accertamento, ritenendo positivamente
provato (con motivazione immune da vizi) che il Bruno non si era limitato a
firmare assegni in bianco, ma si era ingerito in concreto nell’amministrazione
societaria cd. spicciola ed era stato istruito dal Paolo e dalla sua collaboratrice
Caterina Mista circa la versione difensiva da fornire negli interrogatori (del cui
esito aveva poi puntualmente riferito).
Quanto all’efficacia causale della condotta del Bruno, è pur vero che quello di
utilizzo di fatture per operazioni inesistenti è reato di mera condotta, tuttavia i
rilievi svolti dall’impugnata sentenza evidenziano, a conferma del capo di
imputazione, una condotta commissiva da parte del Bruno nel momento in cui
egli non si limitava ad omettere di vigilare, ma concretamente firmava gli assegni
nella consapevolezza che servivano a prelievi di contante a fronte di fatturazioni
false.
Le ulteriori contrarie argomentazioni svolte in ricorso scivolano sul piano
dell’apprezzamento del merito, il che non è consentito in questa sede.
1.4.- Il motivo che precede sub 15) è infondato.

1.3.- Del pari infondato è il motivo che precede sub 10), proposto dalla difesa

19

A partire dalle ed. sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007 la Corte cost. ha
statuito che nel sistema delle fonti del nostro ordinamento le disposizioni della
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, hanno il rango di norme interposte (o, se si preferisce, di livello subcostituzionale) che, attraverso il meccanismo di adattamento previsto dall’art. 117
co. 1° Cost., diventano esse stesse parametro di legittimità costituzionale delle
ultime secondo un’interpretazione non solo costituzionalmente conforme, ma
anche convenzionalmente orientata (si vedano, più di recente, anche Corte cost. n.
1 e n. 113 del 2011; Corte cost. n. 93, n. 138, n. 187 e n. 196 del 2010; Corte cost.
n. 239 n. 311 e n. 317 del 2009; Corte cost. n. 39 del 2008).
Ma, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del Rodà, l’art. 6 CEDU non
condiziona indefettibilmente il potere del giudice d’appello di ribaltare una
precedente pronuncia assolutoria alla rinnovazione delle prove dichiarative
assunte in primo grado.
In realtà, nella propria giurisprudenza la Corte di Strasburgo ha solo affermato
che coloro i quali “hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o
l’innocenza dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni
personalmente e valutare la loro attendibilità” e che “la valutazione
dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non
può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate.”
(sentenza 5.7.2011, Dan c. Moldavia; in senso analogo v. anche 21.9.2010,
Marcos Barrios c. Spagna; 27.11.2007, Popovici c. Moldavia;).
Si tratta di una regola non assoluta e comunque riferita essenzialmente alla
possibilità di sentire in prima persona i dichiaranti per valutarne l’attendibilità.
Dunque, il rispetto dell’art. 6 CEDU nei sensi innanzi puntualizzati non può
prescindere (come sempre, d’altronde, nella giurisprudenza della Corte di
Strasburgo) dalle caratteristiche specifiche del procedimento che si sta celebrando
e dal caso concreto.
Ed è innegabile che, proprio nel caso del Rodà, la rinnovazione delle prove
dichiarative assunte in primo grado sarebbe stata ininfluente, atteso che la sua
condanna si è basata su un diverso apprezzamento non di prove dichiarative, ma

norme di diritto interno, di guisa che il giudice nazionale deve applicare queste

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di prove documentali, tali essendo le conversazioni telefoniche oggetto di
intercettazione.
Per di più, tale diverso apprezzamento ha riguardato non l’attendibilità di uno o
più parlanti, ma l’uso e il significato di espressioni criptiche c/o fuori contesto.
E che appartengano al genus delle prove documentali anche le intercettazioni
telefoniche (intese sia come incisioni vocali di conversazioni su supporto
informatico o telematico sia come relativa trascrizione su supporto cartaceo) si
da significante, supporto materiale che lo riporta e significato), ma anche dalla
giurisprudenza di questa S.C. che, ad esempio, ammette che il giudice (anche
d’appello) proceda all’ascolto diretto delle registrazioni delle conversazioni
telefoniche intercettate, benché disponga della relativa trascrizione, senza che
questa modalità di apprezzamento della prova documentale debba svolgersi nel
contraddittorio, poiché non comporta l’uso di tecniche eccedenti la normalità
quotidiana e non costituisce attività diretta alla formazione della prova (cfr. Cass.
Sez. 11 n. 2409 del 19.12.08, dep. 20.1.09; cfr., altresì, Cass. Sez. VI n. 36701 del
16.7.08, dep. 24.9.08; Cass. Sez. H n. 22184 del 22.5.07, dep. 6.6.07).
1.5.- I motivi che precedono sub 17), 18), 19), 20), 21), 22), 23), 24), 25) e 26) —
da esaminarsi congiuntamente perché tutti inerenti alla motivazione adottata dalla
Corte territoriale nel condannare la Ribatti in riforma della pronuncia assolutoria
emessa in prime cure — sono infondati.
pur vero che, con le sentenze n. 45276 del 30.10.2003, dep. 24.11.03, e n.
33748 del 12.7.05, dep. 20.9.95 (seguite da conforme giurisprudenza), le S.U. di
questa S.C. hanno statuito che il giudice di appello che riformi totalmente la
decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio,
alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti
argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della
relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del
provvedimento impugnato.
Ma non risulta che la Corte milanese sia venuta meno a tale compito, avendo —
anzi — esaminato e confutato puntualmente le ragioni dedotte dalla Ribatti e
accolte dalla pronuncia di primo grado.

evince non solo dal tradizionale riferimento al concetto di documento (individuato

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Si premetta che il Tribunale, pur manifestando talune perplessità circa
l’esistenza dell’elemento oggettivo del delitto di riciclaggio addebitato alla
Ribatti, nondimeno l’ha mandata assolta per mancanza di prova dell’elemento
soggettivo, ossia per mancanza di prova della consapevolezza della provenienza
delittuosa del denaro versato sui c/c e della volontà di ostacolarne
l’identificazione.
Al contrario, la Corte territoriale è giunta a difforme conclusione in base alle
dell’istituto bancario (UNICREDIT) alle cui dipendenze lavorava la ricorrente.
In particolare, ha valorizzato i seguenti dati di fatto:
gli affidamenti a favore delle società riconducibili al Paolo erano stati
autorizzati dalla Ribatti oltre i limiti che le erano consentiti e ciò era
avvenuto in base a domande sprovviste della necessaria documentazione
(addirittura talvolta mancava la stessa domanda di affidamento, oppure i
bilanci presentati erano del tutto inconsistenti o la loro presentazione tout
court omessa);
un affidamento di ben 280.000 euro ad una di tali società era stato
concesso nonostante che il fatturato risultasse nullo e il patrimonio netto
negativo;
la Ribatti aveva consentito consistenti e anomali movimenti di contante
sui predetti c/c senza procedere alle dovute segnalazioni antiriciclaggio,
malgrado l’elevata entità delle somme;
in generale, tali affidamenti erano stati concessi a società di assoluta
inconsistenza aziendale;
in un caso l’affidamento era stato concesso addirittura ad una società in
liquidazione (che, in quanto tale, non poteva effettuare nuove operazioni
per rientrare dalla conseguente esposizione debitoria presso la banca);
gli affidamenti erano concessi senza le dovute garanzie e, anzi, quelle
poche esistenti venivano trasferite da un contratto a un altro delle società
per plurimi finanziamenti, a tutto vantaggio del Paolo;
un altro finanziamento per complessivi 330.000 euro era stato concesso
alla società ANGELICA, che a sua volta l’aveva girato alla società
SPAM, da poco costituita, che non produceva utili e il cui amministratore
era tale Amos Parisi (che si qualificava come mero operaio);

risultanze delle consulenze Bellavia e Mainieri e dell’ispezione interna

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la Ribatti era solita autorizzare il Paolo a prelievi di contanti anche oltre i
limiti degli affidamenti;

la Ribatti aveva consentito lo sconto di numerose fatture per operazioni
inesistenti di cui si erano avvalse le società del Paolo, al quale aveva
anticipato — sempre in contanti — somme cospicue destinate a finanziare il
traffico di sostanze stupefacenti.

L’assunto portante dell’assoluzione pronunciata in primo grado poggiava sul
era giustificabile perché le società capofila generavano comunque continui flussi
di cassa ed erano accompagnate da fatture emesse nei confronti di società di
primaria importanza; inoltre, presso la banca erano state scontate solo le fatture
per operazioni esistenti (e non anche per operazioni inesistenti) e non risultava
prova di un lucro personale conseguito dalla funzionaria.
Ma le prime due affermazioni sono state motivatamente smentite in punto di
fatto dai giudici d’appello, mentre la terza — ripresa anche nel motivo che precede
sub 24) – è irrilevante ai fini del dolo, atteso che per ritenerlo provato non è
necessaria la dimostrazione del vantaggio personale conseguito dal soggetto attivo
del reato p. e p. ex art. 648 bis c.p.
Quanto ai delitti presupposti di quello di cui all’art. 648 bis c.p., nel caso di
specie l’impugnata sentenza li ha ravvisati nell’emissione di fatture per operazioni
inesistenti; si obietta in ricorso – v. motivi che precedono sub 18) e sub 19) – che
le causali degli ordini di bonifico da parte del cliente non erano addebitabili alla
funzionaria (cioè alla Ribatti), che non vi sarebbe prova delle fatture per
operazioni inesistenti e della loro finalizzazione al conseguimento di contante e
che comunque gli utilizzi di tali fatture sarebbero stati modesti rispetto all’entità
dei prelievi: ma va osservato che si tratta di argomenti difensivi motivatamente
smentiti dalla Corte territoriale e il cui approfondimento supporrebbe un accesso
diretto agli atti non consentito in sede di legittimità.
Lo stesso dicasi per il motivo che precede sub 23).
Per quello che precede sub 21), in cui si coltiva l’ipotesi che le ingenti somme in
contanti ottenute dal Paolo potessero spiegarsi con la necessità di pagare gli
stipendi dei dipendenti delle società del gruppo, basti ricordare che ciò è stato
motivatamente escluso dall’impugnata sentenza nella parte in cui ha esaminato la
posizione del Paolo.

rilievo che l’assenza di garanzie per i plurimi finanziamenti concessi dalla Ribatti

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Ancora da disattendersi è il motivo che precede sub 24) perché la sentenza
impugnata è ben chiara nell’evidenziare le anomalie e le irregolarità dei
comportamenti della ricorrente (v. sopra) e i contegni che, invece, sarebbero stati
dovuti (non concedere fidi senza alcuna garanzia e giustificazione, segnalare
operazioni sospette come quelle per contanti di elevati importi etc.).
Quanto all’accertamento del dolo del delitto p. e p. ex art. 648 bis c.p. — e ciò
concerne, più in particolare, i motivi che precedono sub 20) e sub 22) e, in
correttamente motivato dalla Corte territoriale che, lungi dal desumere l’elemento
soggettivo del reato dalla mera frequenza dei prelievi di contante consentita al
Paolo dalla ricorrente, lo ha ricostruito in base ai seguenti indici sintomatici:
> pur trattandosi di società facenti parte di un unico gruppo economico (cosa
di cui il Tribunale aveva dubitato, ma che la Corte territoriale ha
motivatamente ravvisato), la Ribatti non aveva valutato complessivamente
— come, invece, avrebbe dovuto — affidamenti e garanzie e così facendo
aveva potuto trattenere presso di sé le relative pratiche che, altrimenti,
sarebbero state attribuite ai suoi superiori per ragioni di competenza per
valore;
> l’irregolare utilizzo, nelle pratiche di finanziamento, di poche garanzie per
plurimi finanziamenti in favore di società tutte riconducibili al gruppo del
Paolo dimostravano la consapevolezza, in capo alla Ribatti, dell’esistenza
di tale gruppo e dell’effettivo beneficiario dei finanziamenti;
> la Ribatti disponeva materialmente dei fascicoli degli affidamenti, erogati
pur a fronte di documentazione così scarna da non giustificarli;
> le relazioni con il Paolo e le società a lui riconducibili, dapprima presso la
filiale LTNICREDIT di Milano Mecenate, dove lavorava la Ribatti, erano
state quasi tutte trasferite dalla stessa Ribatti presso la filiale di Milano S.
Marco non appena la ricorrente stessa vi era stata trasferita e a ciò avevano
fatto seguito ulteriori affidamenti per un totale di 1.670.000 euro;
> la stessa ricorrente ha dichiarato di essere consapevole dei propri obblighi
di segnalazione delle anomalie derivanti dall’andamento complessivo dei
conti (come si legge nell’impugnata sentenza).
Per escludere la rilevanza in questa sede di eventuali ipotesi alternative riguardo
all’atteggiamento psicologico della Ribatti valga la già rarnmentata

generale, i motivi aggiunti proposti dalla difesa della Ribatti — esso è stato

24

giurisprudenza (v. punto 1.1. che precede) secondo cui, affinché sia ravvisabile
una manifesta illogicità argomentativa denunciabile per cassazione, non è
sufficiente rappresentare la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a
quella ritenuta in sentenza.
Come sopra si è anticipato, ancora infondati sono i motivi che precedono sub
25) e sub 26).
Premesso che la gravata sentenza si limita ad individuare nei reati fiscali
dell’ipotesi delittuosa p. e p. ex art. 648 bis c.p. addebitata alla Ribatti, si noti che
non è esatto sostenere che la Corte territoriale abbia qualificato il denaro in
contanti – ricevuto dal Paolo grazie alla suddetta funzionaria di banca – come
provento di reato e come risultato della trasformazione del provento medesimo.
In realtà, l’assunto della ricorrente nasce da un errore di prospettiva
nell’individuare il delitto presupposto di quello di riciclaggio.
A tale riguardo il discorso può meglio essere chiarito, ai sensi dell’art. 619 co.
l c.p.p., muovendo dal rilievo che il riferimento a qualsiasi delitto non colposo
che si legge nell’attuale testo dell’art. 648 bis c.p. rimanda a delitti produttivi di
ricchezza lato sensu intesa, come si evince dal fatto che possono formarne oggetto
materiale “denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo” (art.
648 bis co. 1° c.p.).
Dunque, il delitto presupposto di quello di riciclaggio deve essere produttivo di
una qualche forma di valore od utilità.
Orbene, la fattura ha un proprio intrinseco valore inteso come utilità economica
(di vario genere, a seconda dell’uso che se ne faccia) poiché, pur non potendosi
qualificare come moneta (nemmeno di tipo cd. scritturale), nondimeno può
sostituirsi con moneta corrente mediante sconto bancario ex art. 1858 c.c.
La situazione è concettualmente analoga a quella del riciclaggio commesso dal
funzionario di istituto di credito che consapevolmente cambi con denaro corrente
monete (metalliche, cartacce o cartolari) false (cfr. Cass. Sez. H n. 25773 del
12.6.08, dep. 25.6.08).
A sua volta, perché sussista il delitto di riciclaggio non è necessario che il
denaro, i beni o le altre utilità provengano direttamente o immediatamente dal
delitto presupposto, bastandone anche una provenienza mediata. In proposito la
giurisprudenza di questa Corte Suprema è costante (cfr., da ultimo, Cass. Sez. VI

inerenti alle fatture per operazioni inesistenti i delitti che fungono da presupposto

25

n. 36759 del 20.6.12, dep. 24.9.12; Cass. Sez. II n. 47375 del 6.11.09, dep.
14.12.09), il che smentisce l’affermazione della ricorrente secondo cui sarebbe
indispensabile un rapporto di causalità diretta.
Ora, a monte del delitto di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti esiste
necessariamente quello di emissione delle fatture medesime (evidentemente il
secondo non è neppure astrattamente concepibile se non preceduto dal primo).
operazione inesistente è, al contempo, prodotto e provento del reato: anche a tale
riguardo la situazione non è concettualmente dissimile, ad esempio, da quella che
si verifica nel delitto di cui all’art. 473 c.p., in cui la cosa nella quale il falso
segno è impresso – e che con questo viene a costituire un’unica entità – è prodotto
(cfr., da ultimo, Cass. Sez. II n. 42934 del 3.10.12, dep. 7.11.12) e provento della
condotta delittuosa.
D’altronde, la locuzione “provento del reato” ha un carattere onnicomprensivo
di tutto ciò che ne deriva e, quindi, è riferibile al prodotto, al profitto e al prezzo
del reato stesso (cfr., in motivazione, Cass. S.U. n. 26654 del 27.3.08, dep. 2.7.08;
sempre in motivazione v. altresì Cass. S.U. n. 9 del 28.4.99, dep. 8.6.99).
In conclusione, contrariamente a quanto ventilato nel motivo che precede sub
26), il delitto di riciclaggio ravvisato dalla Corte territoriale nella ripetuta azione
della Ribatti non è consistito nel sostituire con altro denaro quello proveniente da
reati fiscali e, in particolare, dal delitto p. e p. ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000, bensì nel
sostituire, con denaro, documenti fiscali (fatture) provenienti dal delitto p. e p. ex
art. 8 d.lgs. n. 74/2000.
1.6.- I motivi che precedono sub 2), 5) e 11) — da trattarsi congiuntamente
perché tutti relativi al trattamento sanzionatorio — sono infondati, noto essendo in
giurisprudenza che ai fini della determinazione della pena e dell’ applicabilità
delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. (con criterio di prevalenza,
equivalenza o minusvalenza) non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai
parametri di cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che
specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento.
Ne consegue che con il rinvio al comportamento processuale del Bruno e ai
motivi a delinquere del Marchi e del Veneruso (che non erano stati mossi alla

collaborazione criminale con il Morabito da impellenze economiche o di altra

Il documento fiscale che sortisce dal delitto di emissione di fattura per

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natura), l’impugnata sentenza ha adempiuto l’obbligo di motivare sul punto (cfr.,
ad esempio, Cass. Sez. I n. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. I n. 8677
del 6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre).
Né l’incensuratezza dedotta dal Veneruso e dal Bruno — che già in primo grado
era valsa loro la concessione delle attenuanti generiche equivalenti — implica
necessariamente che dette attenuanti debbano applicarsi con criterio di
sollecitazione di un nuovo apprezzamento sul merito della pena, il che non è
consentito in sede di legittimità.
1.7.- Il motivo che precede sub 9) è infondato, essendo in contrasto con antico,
nutrito e costante insegnamento giurisprudenziale delle sezioni civili di questa
S.C. (da Cass. 4.7.06 n. 15274 risalendo nel tempo fino a Cass. 24.2.70 n. 432),
per il cui eventuale superamento il ricorso del Paolo non suggerisce spunto
alcuno.
Si ricordi, infatti, che in tema di responsabilità da illecito extracontrattuale il
risarcimento va esteso anche ai danni mediati e indiretti purché costituiscano
effetti normali del fatto illecito ovvero rientrino nella serie delle conseguenze
normali cui esso dà origine, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale.
Nel caso di specie l’impugnata sentenza ha fatto buon governo di tale principio,
essendo indubbio che nell’odierno mondo caratterizzato dalla pervasività dei
media, nel quale la risonanza dei delitti scoperti dalle forze dell’ordine è
direttamente proporzionale alla loro gravità, appartiene ad un’unica e regolare
serie causale anche la diffusione nel pubblico di tutte le notizie concernenti reati
di grande allarme sociale come quello di associazione per delinquere finalizzata al
traffico internazionale di sostanze stupefacenti e altri satelliti ad esso.
Per l’effetto, persone e imprese che, pur senza loro colpa e senza essere oggetto
di indagine, vi risultino lato sensu coinvolte (anche solo perché i locali di loro
proprietà siano stati teatro di gravi condotte illecite) normalmente finiscono, nella
percezione del pubblico e secondo l’id quod plerurnque accidit, per essere
mentalmente abbinate a tali eventi delittuosi attraverso insopprimibili meccanismi
inconsci o subliminali, con conseguente pregiudizio in termini di immagine,
anche commerciale, risentendone una sorta di pubblicità negativa.

prevalenza: le considerazioni in proposito svolte dai ricorrenti si risolvono nella

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Tale pubblicità negativa, proprio perché basata essenzialmente su meccanismi
inconsci o subliminali (come ogni forma di pubblicità), può danneggiare anche
chi, come Roberto Predolin, presidente della SOGEMI, eventualmente sia entrato
in carica anche soltanto poco prima della deflagrazione giudiziaria del caso.
La ridotta sovrapposizione temporale fra la durata dell’attenzione dei media sui
delitti scoperti e la permanenza in una determinata carica sociale può rilevare,
appartiene ad altra sede giudiziaria), non in quello dell’accertamento dell’an
debeatur.
1.8.- In conclusione, tutti i ricorsi vanno rigettati. Ex art. 616 c.p.p. consegue la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale,
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, in data 17.5.13.

semmai, nel momento della concreta verifica del quantum del risarcimento (che

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