Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29397 del 20/04/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 29397 Anno 2016
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: GAI EMANUELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Cafarelli Giuseppe Carmelo, nato a Baragiano il 16/07/1961

avverso la sentenza del 16/10/2014 della Corte d’appello di Salerno

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Emanuela Gai;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Marilia
Di Nardo, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza
limitatamente alla sanzione accessoria di cui all’art. 12 lett. a) d.lgs 74 del 2000;
udito l’avv. Raffaella Sili sost. proc. avv. Antonio Ferrari per il ricorrente che ha
concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 ottobre 2014, la Corte d’appello di Salerno, in
accoglimento dell’impugnazione del Procuratore Generale, ha riformato la
sentenza del Tribunale di Salerno con la quale Carmelo Giuseppe Caffarelli era
stato condannato in relazione all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, ed ha
applicato le pene accessorie di cui all’art. 12 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 lett. a),

Data Udienza: 20/04/2016

iT)°1(

b) e c) per la durata di anni uno e quelle di cui alla lett. d) ed e) d.lgs cit.
omesse dal primo giudice.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso personalmente Caffarelli
Giuseppe Carmelo e ne ha chiesto l’annullamento deducendo;
-con il primo motivo la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. c)
cod.proc.pen. in relazione agli artt. 171 lett. d), 178 lett. c) e 179 in relazione
agli artt. 161 e 157 cod.proc.pen. Deduce, in particolare il ricorrente, la nullità
della sentenza risultando, dal fascicolo della Corte d’appello, che il decreto di

difensore di fiducia avv. Teresa Caffarelli, nonostante che il medesimo avesse
eletto domicilio presso il proprio studio commerciale. La nullità della notifica
integrerebbe una nullità assoluta per omessa citazione a giudizio, risultando
equiparabile all’omessa citazione;
– con il secondo motivo, il vizio di motivazione in relazione alla durata della
pena accessoria indicata in un anno, durata minima prevista per la pena
accessoria di cui alla lett. b) e c), ma non per la lett. a) che prevede una durata
non inferiore a mesi sei e non superiore a tre anni. La Corte d’appello non
avrebbe argomentato le ragioni per le quali ha ritenuto di determinare la pena
accessoria superiore al limite minimo.
– in data 1 aprile 2016, il ricorrente ha depositato memoria scritta con cui ha
dedotto la violazione dell’art. 129 cod.proc.pen. da parte della Corte d’appello.
La sentenza della Corte d’appello avrebbe dovuto rilevare e dichiarare
l’estinzione del reato commesso il 31/10/2014. La sentenza, emessa in data
16/10/2014 e dunque dopo il maturare della prescrizione, è stata pronunciata in
violazione dell’art. 129 cod.proc.pen. non essendosi formato il giudicato in
presenza della sola impugnazione del Procuratore Generale che, se fa sorgere
una preclusione sull’affermazione della responsabilità dell’imputato, ma non fa
acquisire alla sentenza l’autorità di cosa giudicata dovendosi trattare la questione
delle pene accessorie.

3. Il Procuratore Generale, in udienza, ha chiesto l’annullamento della sentenza
con rinvio limitatamente all’art. 12 lett. a) d.lgs cit.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile alla luce della consolidata

giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Deve ricordarsi che, da tempo, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito il
principio secondo il quale non ogni vizio della notificazione degli atti, ivi compresi

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citazione a giudizio in appello era stato notificato al domicilio eletto presso il

quelli che comportano la vocatio in iudicium, determina una nullità assoluta. A
partire dalla nota sentenza delle S.U. Palumbo, secondo cui la nullità assoluta e
insanabile prevista dall’art. 179 cod. proc. pen. ricorre soltanto nel caso in cui la
notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita
in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la
conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato, la medesima nullità non
ricorre, invece, nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle
regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della

27/10/2004, Palumbo, Rv. 229539). Ed ancora, in tema, è, anche, consolidato il
principio secondo cui la nullità conseguente alla notificazione all’imputato del
decreto di citazione a giudizio presso lo studio del difensore, invece che presso il
domicilio eletto, è di ordine generale e a regime intermedio in quanto la
notificazione, pur eseguita in forme diverse da quelle prescritte, è da ritenere in
concreto idonea a determinare una conoscenza effettiva dell’atto, sicchè deve
essere eccepita nei termini di cui all’art. 491 cod.proc.pen., e non può, quindi,
essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Sez. n. 6, n. 42755 del
24/09/2014, Zemzami, Rv. 260434; Sez. 6, n. 1742 del 22/10/2013, dep.
16/01/2014, Rv. 258131). Orbene, nel caso si cui ci si occupa, non solo non è
stata dedotta entro il termine di cui all’art. 491 cod.proc.pen. ( Sez. 2, n. 11277
del 06/12/2012, Simionato, Rv. 254873), con evidente tardività della
proposizione nel ricorso per cassazione, ma è lo stesso difensore che non
lamenta la mancata citazione e dunque conoscenza dell’atto con conseguente
sanatoria per raggiungimento dello scopo.

5. Neppure è fondato il rilievo, dedotto nella memoria difensiva, con cui il
ricorrente sostiene l’estinzione del reato per prescrizione non essendosi formata
l’autorità di cosa giudicata della sentenza a seguito di impugnazione del
Procuratore Generale.
Come hanno chiarito le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, n. 1 del
19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239), la cosa giudicata si forma sui capi della
sentenza e non sui punti di essa, che possono essere unicamente oggetto della
preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della
disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni. In caso di condanna la
mancata impugnazione della ritenuta responsabilità dell’imputato, – prosegue la
Corte – fa sorgere la preclusione su tale punto, ma non basta a far acquistare
alla relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata, quando per quello stesso
capo l’impugnante abbia devoluto al giudice l’indagine riguardante la sussistenza
di circostanze e la quantificazione della pena. Ne consegue che l’autorità di cosa
giudicata si forma solo quando tali punti siano stati definiti e le relative decisioni

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sanatoria di cui all’art. 184 cod. proc. pen. (Sez. U, Sentenza n. 119 del

non siano censurate con ulteriori mezzi di gravame. In particolare, “soltanto in
presenza di tali inderogabili condizioni deve considerarsi realizzata la
consunzione del potere di decisione del giudice dell’impugnazione, anche con
riguardo alle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e la
pronuncia sul capo, divenuta ormai completa, assume il carattere della
immutabilità, ostacolando, perciò, l’applicazione delle cause estintive del reato”.
Applicando il principio di diritto indicato al caso di specie, deve rilevarsi,
primis,

in

l’assenza di impugnazione dell’imputato, mentre l’impugnazione del

ovvero sull’omessa applicazione di una ossia di un conseguenza
sanzionatoria del reato ritenuto in sentenza e attribuito all’imputato, capo della
sentenza rispetto al quale si è esaurito il potere di impugnazione, non avendo il
ricorrente proposto l’appello e, pertanto, ha acquisito autorità di cosa giudicata,
con conseguente preclusione di dichiarazione della causa estintiva del reato.

6. Fondato è il secondo motivo di ricorso per le ragioni qui esposte.
Il ricorrente deduce la violazione della legge penale in relazione all’applicazione
dell’art. 12 lett. a) del d.lgs 74 del 2000 determinata dal giudice in misura
superiore al minimo edittale senza motivazione.
L’art. 12 cit. prevede la durata dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persona
giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a mesi sei e non superiore
a tre anni (lett. a), l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione
per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni ( lett. b) e
l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria
per un per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni ( lett.
c).
L’esame del motivo deve muovere dall’interrogativo sulla riconducibilità della
disciplina delle pene accessorie temporanee, di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del
2000, nella sfera applicativa dell’art. 37 cod. pen.: si tratta, in termini più
generali, di stabilire se nella nozione di pena accessoria di durata non
espressamente determinata rientrino o meno le ipotesi in cui la pena accessoria
è comminata attraverso la previsione di un limite minimo e un massimo.

6.1. Come è noto, nel risolvere un contrasto interpretativo, sono intervenute le
Sezioni Unite con cui è stato affermato il principio secondo cui le pene accessorie
per le quali è previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei
suddetti limiti, sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata
non è espressamente determinata dalla legge penale, con la conseguenza che la
loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a
quella della pena principale inflitta (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, B, Rv.
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Procuratore generale è limitata all’omessa pronuncia sulle pene accessorie,

262328).
6.2. Nell’ambito specifico della disciplina delle pene accessorie di cui all’art. 12
cit, si erano contrapposti nella giurisprudenza di legittimità orientamenti diversi.
Secondo un primo orientamento si era sostenuto, proprio con riferimento alle
pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000, che agli
effetti dell’art. 37 cod. pen., pena accessoria di durata espressamente
determinata dalla legge è anche quella per la quale la legge contempli un minimo
ed un massimo spettando in tali casi al giudice, nell’ambito di tale intervallo

cod. pen. (Sez. 3, n. 25229 del 17/04/2008 – dep. 20/06/2008, Ravara, Rv.
240256; in senso conforme: Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008 – dep.
18/11/2008, P.G. in proc. Di Vincenzo, Rv. 241538). A questo si contrappone un
secondo, e più recente, orientamento secondo cui secondo cui nel novero delle
pene accessorie la cui durata non è espressamente prevista dalla legge, con
conseguente applicazione dell’art. 37 cod.pen., devono essere ricomprese le
pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 sul rilievo
che l’ampia formulazione dell’art. 27 cod.pen. e l’espresso riferimento della
regola sussidiaria delineata dal secondo periodo dell’art. 37 cod. pen. al limite
minimo “e” al limite massimo consentono di rinvenire nel dato normativo una
conferma alla tesi dell’applicabilità del criterio generale dell’equiparazione
cronologica tra la durata della pena principale e quella della pena accessoria
anche all’ipotesi qui in esame (Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani e altro,
Rv. 241410; Sez. 5, n. 2925 del 03/12/2013, Monteleone, Rv. 257940).
6.3. Condivide il Collegio quest’ultimo indirizzo secondo cui rientra nella nozione
di pena accessoria non espressamente determinata dalla legge quella per la
quale è previsto un minimo ed un massimo, sicché, in tali casi, la durata della
pena accessoria va parametrata dal giudice a quella della pena principale inflitta.
Alle argomentazioni sopra riportate si deve aggiungere che la collocazione
sistematica e il tenore testuale della stessa, da un lato, e la comminatoria della
pena principale dall’altro dei reati a cui accede la pena accessoria non pongono
profili di incompatibilità con la regola generale.
Pertanto, nel ribadire, e dare continuità, all’indirizzo giurisprudenziale secondo
cui nel novero delle pene accessorie, la cui durata non è espressamente prevista
dalla legge, con conseguente applicazione dell’art. 37 cod.pen., devono essere
ricornprese le pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74, con
riguardo al caso in esame, rileva il Collegio che la Corte d’appello le aveva
determinate in misura diversa dalla durata della pena principale (e senza,

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temporale, stabilirne la concreta durata ricorrendo ai criteri di cui all’art. 133

peraltro, congrua motivazione alla luce del principio giurisprudenziale invocato
dal ricorrente, ma non condiviso dal Collegio). Ciò posto, e ribadito che l’art. 12
cit. appartiene al novero delle pene la cui durata, ai sensi dell’art. 37 cod.pen.,
deve essere parannetrata alla durata della pena principale irrogata, quelle
applicate al ricorrente devono essere determinate nella misura di mesi otto pari
alla pena principale inflitta. Conseguentemente la sentenza impugnata deve
essere annullata, senza rinvio, limitatamente alla durata della pena accessoria

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata della pena accessoria di
cui all’art. 12 lett. a), b) e c) del d.lgs 74/2000, durata che determina nella
misura di mesi otto, rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 20/04/2016

che viene fissata in misura pari a quella irrogata.

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