Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29346 del 11/05/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29346 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: MINCHELLA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ASCIUTTO MARIA MONTAGNA N. IL 03/08/1962
avverso l’ordinanza n. 2092/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di
REGGIO CALABRIA, del 21/11/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO
MINCHELLA;
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Data Udienza: 11/05/2016

RILEVATO IN FATTO

Con sentenza in data 05.03.2002 della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria veniva
condannata Asciutto Maria Montagna: in conseguenza di detta condanna venivano iscritti,
a suo carico, tre campioni penali e cioè l’art. 1535/05 Mod 3/SG per C 122.906,52; l’art.
1536/05 Mod 3/SG per C 920,00; l’art. 1538/05 Mod 3/Sg per C 160,00.
La condannata avanzava istanza per ottenere la remissione del debito.
Con ordinanza in data 21.11.2013 il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria

(poiché già oggetto di precedente decisione reiettiva resa in data 19.06.2008) e rigettava
la richiesta per gli altri articoli di campione penale, rilevando che la condannata viveva con
il marito e la figlia e che tutti i componenti del nucleo familiare avevano avuto redditi
dichiarati sino all’anno 2006 ed erano proprietari o comproprietari di immobili, terreni e
fabbricati, per cui non versavano in condizioni economiche disagiate.
Avverso detta ordinanza propone ricorso l’interessata a mezzo del suo difensore,
deducendo ex art. 606, comma 1 lett. b), cod.proc.pen. erronea applicazione di legge,
evidenziando che il provvedimento impugnato non dava alcun conto dei redditi della
ricorrente né del sequestro dei beni della medesima e si basava su dati non recenti, senza
considerare la situazione attuale economica pur avendo dato atto della condotta regolare
dopo il reato.
Il P.G. chiede il rigetto del ricorso, ritenendo congrua la motivazione e modesto il debito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso deve essere rigettato perché infondato.
Va premesso che il ricorso è ammissibile: il Magistrato di Sorveglianza ha deciso nella
vigenza della normativa antecedente all’introduzione del comma 1 bis dell’art. 678
cod.proc.pen ad opera del D.L. n° 146/2013, convertito nella Legge n° 10/2014 e così ha
provveduto a norma dell’art. 666 cod.proc.pen. a seguito di contraddittorio rituale. Ne
consegue che, benché all’epoca dell’impugnazione fosse vigente la nuova disciplina (che
prevede l’opposizione allo stesso giudice, ex art. 667, comma 4, cod.proc.pen.),
correttamente è stato proposto ricorso alla Corte Suprema, in considerazione della data
del provvedimento impugnato.
Per come detto in precedenza, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria non ha
concesso ad Asciutto Maria Montagna la remissione del debito relativo a spese di giustizia
conseguenti alla sentenza di condanna citata in precedenza: le ragioni sono state esposte
e consistono in considerazioni oggettive, basate sulla condizione di proprietaria della
ricorrente e sulle condizioni generali dì reddito della sua famiglia

1

dichiarava inammissibile l’istanza relativa all’art. 1535/05 Mod 3/SG per C 122.906,52

La ricorrente si duole della decisione, affermando la difficoltà della condizione economica
personale e la incongruità delle valutazioni effettuate dal giudice.
Ma si tratta di doglianze che non possono trovare accoglimento.
La nuova normativa in tema di remissione del debito è ora prevista dall’art. 6 del DPR n°
115/2002; sostanzialmente, non vi sono mutamenti di rilievo rispetto alla disciplina
previgente prevista dall’art. 56 O.P.
Anche oggi, il beneficio della remissione del debito deve essere concesso quando il
condannato versi in disagiate condizioni economiche e abbia tenuto regolare condotta.

essere stata regolare durante la libertà qualora l’interessato non sia stato detenuto;
diversamente la stessa condotta deve essere stata regolare in Istituto qualora l’interessato
sia stato detenuto.
In definitiva, dunque, ai fini della remissione del debito, si richiedono tre requisiti: a) che il
debito si riferisca a spese di procedimento; b) che si tratti di condannato che venga a
trovarsi in disagiate condizioni economiche; c) che detto condannato abbia tenuto una
regolare condotta, nei termini prima precisati.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che le spese in oggetto riguardino spese di giustizia e
cioè di procedimento.
Ma la consolidata giurisprudenza di questa Corte afferma che le disagiate condizioni
economiche vanno riconosciute quanto meno nel caso in cui l’adempimento
dell’obbligazione comporti un serio e considerevole squilibrio del bilancio domestico del
condannato, tale da compromettere il recupero e il reinserimento sociale del soggetto.
Va notato che in questa valutazione non rientra soltanto la situazione economica del
singolo condannato, ma si richiede un esame delle condizioni economiche e di vita
complessive del medesimo, considerando perciò anche i redditi di congiunti conviventi e lo
stile di vita e le spese affrontate. Del resto, questo principio è comunemente applicato
nella “contigua” materia del patrocinio a spese dello Stato, dove si richiede appunto di
valutare il reddito familiare complessivo.
Ma, proprio perché la giurisprudenza fa cenno ad uno squilibrio conseguente al
pagamento, occorre ragionevolmente dedurre che l’interpretazione più adeguata del
dettato normativo non possa prescindere da un sereno raffronto tra la condizione del
condannato instante e l’entità pecuniaria dell’esborso richiesto.
In effetti, la remissione del debito è un beneficio di natura economica, strutturato come
una forma di rinunzia abdicativa da parte dello Stato ad un proprio credito per ragioni di
carattere sociale e pedagogico; è evidente la natura premiale dell’istituto, e tuttavia
questa natura – oltre ad essere condizionata alla regolarità della condotta dell’interessato
– postula anche la sussistenza di un altro elemento di natura oggettiva, e cioè delle
disagiate condizioni economiche. Sicuramente questo elemento è espresso con formula

2

L’art. 6 del Testo Unico citato precisa, al comma 1, che la condotta da considerare deve

normativa molto aperta, e tuttavia si tratta di una valutazione che deve dedursi da fatti
certi.
Non occorre che vi sia la totale indigenza: questo è un elemento pacifico e consolidato;
nondimeno, occorre che l’interessato versi in una situazione caratterizzata da ristrettezze
economiche tali da non consentire di far fronte a fondamentali esigenze di vita, o quanto
meno, tali da essere compromesse dal pagamento del debito.
Nella fattispecie, la motivazione della decisione impugnata, per quanto sintetica, non può
ritenersi né astratta né apparente né illogica né erronea.

relativa all’art. 1535/05 Mod 3/SG, riguardante un debito pari ad C 122.906,52 (già
oggetto di precedente decisione reiettiva resa in data 19.06.2008): di conseguenza, la
doglianza attiene al debito residuo, pari a due campioni l’uno di C 920,00 e l’altro di C
160,00.
In definitiva, il debito residuo risulta di modesta entità: a fronte di esso, l’ordinanza
impugnata ha sottolineato che la ricorrente fruisce di una pensione di invalidità e vive in
famiglia; inoltre, il nucleo familiare ha percepito redditi da lavoro e redditi da fabbricato e i
componenti del medesimo risultano proprietari o comproprietari di beni immobili (terreni e
fabbricati). Sulla scorta dei dati, il giudice ha concluso che la ricorrente non versa in
condizioni di tale disagio da con consentirle di adempiere il debito senza che ciò comporti
uno squilibrio intollerabile nel bilancio familiare e senza poi ricadere nella indigenza.
Questo elemento elimina ogni considerazione relativa alla valutazione della condotta
tenuta dalla ricorrente, poiché l’ordinanza impugnata bene evidenzia come comunque
difetti un presupposto ineliminabile per la concessione del beneficio.
Al contrario, in molti punti i motivi di doglianza si limitano genericamente a lamentare
l’omessa valutazione dì una tesi alternativa a quella accolta dalla ordinanza impugnata,
senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della
motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del
compendio posto a fondamento della decisione di merito.
Infine, altre doglianze della ricorrente sconfinano indubbiamente nel merito, forse
immaginando l’esercizio di poteri cognitivi da parte del giudice di legittimità, richiedendo
impropriamente da questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto
al congruo e logico argomentare del giudice di merito.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato e che la ricorrente va condannata al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

3

Il ricorso non contesta la parte della motivazione relativa dichiarazione di inammissibilità

Così deciso in Roma, il dì 11 maggio 2016.

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