Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29316 del 29/04/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29316 Anno 2016
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BARCHETTA GIOVANNI N. IL 25/08/1986
avverso il decreto n. 14/2015 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 17/07/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;
lette/sentite le conclusioni del pq Dott. 90,9L-F,‘Qcf cf2L, gz,
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Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 29/04/2016

Ritenuto in fatto
1. Con decreto in data 17 luglio 2015 la Corte di appello di Reggio Calabria
confermava il provvedimento del 29 ottobre 2014, col quale il Tribunale di Reggio
Calabria, sezione misure di prevenzione, aveva applicato a Giovanni Barchetta la
misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per anni tre sul
presupposto della sua pericolosità qualificata, derivante dall’appartenenza ad

della pericolosità comune in quanto soggetto abitualmente dedito a traffici
delittuosi.
2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso il Barchetta a mezzo del
difensore, il quale ne ha chiesto l’annullamento per violazione della legge n.
1423/56 e per carente ed illogica motivazione. Secondo la difesa, la Corte d’Appello
ha sostanzialmente ripercorso il ragionamento condotto dal Tribunale che però già
in origine era privo di logicità e coerenza giuridica quanto alla considerazione della
pericolosità sociale del proposto, fondata sui soli precedenti penali e sulle condanne
riportate; benché nel decreto impugnato sia richiamato l’indirizzo giurisprudenziale
che impone una valutazione oggettiva che tenga conto del lungo stato di detenzione
del soggetto proposto e delle motivazioni successive che dovrebbero giustificare
l’applicazione della misura preventiva, in realtà la Corte ha valutato come decisivo il
paramento della sussistenza dei precedenti penali senza avere offerto concreta
giustificazione circa l’attualità della pericolosità sociale di qn soggetto da tempo

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lontano da ambienti criminali, detenuto cana a—ls,se+re—ritg14e

i altri partecipi

all’associazione che gli veniva contestata e che anche in detenzione domiciliare non
ha infranto la legge, mentre in precedenza aveva svolto attività lavorativa, il che
smentisce l’assunto secondo il quale egli aveva vissuto unicamente dei proventi
illeciti
3.

Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di

cassazione, dr.ssa Paola Filippi, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile perché basato su motivo, in parte con consentito nel
giudizio di legittimità, in parte manifestamente infondato.
1. Va premesso che, per effetto della disciplina stabilita dalla legge 27
dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 9, riprodotta nell’art. 10 del D.Lgs. n. 159
del 2011, comma 3, il decreto con il quale la Corte di Appello decida in ordine al

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organizzazione criminale radicata sul territorio e dedita al narcotraffico, nonché

gravame proposto dalle parti avverso il provvedimento del Tribunale applicativo
della misura di prevenzione è ricorribile per cassazione esclusivamente per
violazione di legge. Il vizio in questione comprende, per consolidata lezione
interpretativa di questa Corte, non soltanto l’assenza totale della motivazione
quando il provvedimento consti di solo dispositivo, integrante in sé un’ipotesi di
trasgressione, sia del disposto generale dall’art. 125 cod.proc.pen., sia della
prescrizione dell’art. 10, comma 2, del Digs. n. 159/2011, che riproduce quella dei
testi di legge precedenti, secondo la quale la Corte di Appello decide “con decreto

provvedimento sia privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità,
al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidoneo a rendere
comprensibile la “ratio decidendi”, ovvero ancora quando non affronti le tematiche
poste con l’impugnazione, nella sostanza eluse, tutte situazioni nelle quali le
argomentazioni giustificative, pur presenti, in realtà non assolvano alle funzioni cui
sono destinate. Pertanto, la verifica conducibile in sede di legittimità si deve
arrestare alla corrispondenza degli elementi valorizzati nel provvedimento
impugnato ai criteri dettati dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione
ed all’esistenza delle ragioni della decisione, mentre resta escluso che la violazione
di legge possa estendersi ai difetti motivazionali, consistenti nell’insufficienza,
contraddittorietà ed illogicità, che non possono trovare ingresso nel giudizio di
legittimità.
1.1 A siffatta circoscrizione del perimetro cognitivo, proprio dei procedimenti di
prevenzione, riconosciuto come coerente con i principi costituzionali e non
irragionevole anche nella recente pronuncia della Consulta (sentenza n. 106 del 16
aprile 2015), oltre che dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 33451 del
29/05/2014, Repaci, rv.260246), si sommano i limiti intrinseci del giudizio di
legittimità, che, com’è noto, non può occuparsi della revisione del giudizio di merito,
né della valutazione dei fatti, ma deve attenersi alla verifica della correttezza
giuridica e logica del provvedimento impugnato, rispetto alle cui statuizioni la Corte
di cassazione non dispone del potere di sostituire una propria alternativa decisione.
2. La considerazione del ricorso alla luce dei superiori principi induce in primo
luogo ad escludere che il decreto impugnato sia affetto da violazione di legge per
totale carenza o apparenza della motivazione. Al contrario, esso illustra in modo
adeguato, chiaro e comprensibile, oltre che aderente ai motivi d’appello proposti, le
ragioni di confutazione di tali censure.
2.1 Detto provvedimento non è incorso nemmeno nel denunciato vizio di
violazione di legge con riferimento alla valutazione dei requisiti per l’applicazione al
proposto della misura di prevenzione personale, mentre l’impugnazione si limita a
riproporre le medesime argomentazioni, già esaminate e disattese dai giudici di
merito, quali doglianze circa le omissioni e le illogicità giustificative nelle quali essi

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motivato”, ma anche i casi, ben più frequenti, nei quali l’apparato esplicativo del

sarebbero incorsi, motivi questi che, per quanto già osservato, sono inammissibili e
non possono essere valutati.
2.2 In particolare, la Corte di appello ha correttamente valorizzato le tappe
cronologiche e le caratteristiche qualitative della carriera criminale del Barchetta,
contrassegnata da plurime condanne irrevocabili per evasione, ricettazione, vari
episodi di spaccio di stupefacenti e poi per partecipazione ad associazione finalizzata
al traffico di droga, nonchè da ulteriori pendenze per furto aggravato per fatti
commessi sino al dicembre 2008; senza limitarsi ad automatica ed asettica

quindi analizzato la natura e le caratteristiche fattuali delle vicende criminose,
specie quelle associative, di cui ha segnalato la gravità oggettiva e soggettiva in
relazione alle peculiari condizioni ambientali di contesto in cui la condotta ha avuto
attuazione. A tal proposito ha segnalato la dimensione familiare del sodalizio,
costituito col padre ed altri stretti congiunti, la conduzione dell’attività di smercio di
stupefacenti sotto la copertura offerta dalla gestione di un esercizio pubblico di
ristorazione, i cui locali erano stati adibiti a centrale di spaccio di varie sostanze
psicotrope ed a luogo di ritrovo di consumatori ed acquirenti con modalità insidiose
perché avvalsesi dell’apparente innocuità dell’attività imprenditoriale svolta, la
posizione di spicco occupata dal proposto in tale contesto associato, il ricorso alla
collaborazione di congiunti ed altri soggetti di stretta fiducia, la ramificazione di
rapporti con ambienti criminosi dediti al narcotraffico che ha dato luogo a legami
duraturi con fornitori e clienti, agevolmente riallacciabili, se non ostacolati da
adeguate forme di controllo e da rigide prescrizioni limitative della libertà personale.
Da tali premesse e dagli elementi di fatto apprezzati è stato inferito il giudizio di
pericolosità sociale, qualificata e comune, poiché dalla dedizione al crimine,
continuativa e variamente attuata in lungo arco temporale e con forme organizzate,
il Barchetta ha tratto, anche se non in via esclusiva, i mezzi di sostentamento.
Così operando, i giudici di appello si sono avvalsi del potere di autonoma
valutazione degli elementi posti a fondamento dell’accertamento di responsabilità,
raggiunto in sede di cognizione, non contraddetti nel caso da alcuna obiezione
difensiva, secondo un ragionamento privo di qualsiasi profilo di illegalità, ma in
perfetta aderenza all’insegnamento di questa Corte, secondo il quale il giudizio di
pericolosità sociale ha natura prognostica e riguarda la probabilità della futura
commissione di reati, che, per dar luogo alla sottoposizione alla misura, deve essere
concreta ed attuale, desumibile da specifici comportamenti e da fatti certi nella loro
verificazione, la cui reiterazione l’imposizione della misura mira a prevenire (Corte
Cost., n.177 del 22/12/1980; Cass., sez. 5, n. 34150 del 22/09/2006, Comnnisso,
rv. 235203; S.U., n. 6 del 25/03/1996, Tumnninelli, rv. 194063; sez. 6 n. 38471 del
13/10/2010 Barone, 248797). Per l’affermazione della pericolosità del soggetto in
riferimento alle condotte illecite e devianti del passato, che si teme possa ripetere in

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trasposizione nel giudizio di prevenzione dei relativi accertamenti giudiziali, ha

futuro, secondo le diverse categorie di pericolosità delineate dal legislatore, il
giudice di merito è abilitato a fare ricorso ad elementi di prova e/o indiziari tratti da
procedimenti penali, anche se non ancora conclusi, e, nel caso di processi definiti
con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente dalla natura delle statuizioni
conclusive in ordine all’accertamento della penale responsabilità dell’imputato. Tale
potestà incontra due limiti: a) il giudizio deve essere fondato su elementi certi,
sottoposti a puntuale disamina critica per affermarne la refluenza sul giudizio di
prognosi; b) gli indizi dai quali desumere la pericolosità sociale non debbono avere i

soltanto per il giudizio di responsabilità nel procedimento di cognizione (Cass., sez.
6, n. 4668 dell’08/01/2013, Parmigiano, rv. 254417; sez. 2, n. 26774 del
30/04/2013, Chianese, rv. 256819; sez. 1 n. 20160 del 29/04/2011, Bagalà, rv.
250278). Resta dunque confermata la piena autonomia per struttura e finalità dei
due procedimenti, quello penale funzionale all’accertamento della responsabilità in
ordine ad una fattispecie di reato, e quello di prevenzione, ancorato ad una
valutazione di pericolosità attuale, espressa mediante condotte che non
necessariamente costituiscono reato, con la conseguente esclusione di un rapporto
di pregiudizialità del primo rispetto al secondo ed affermazione della reciproca
indipendenza nell’apprezzamento del materiale dimostrativo, fermo restando
l’obbligo di indicare nella motivazione del decreto applicativo della misura le ragioni
delle valutazioni condotte rapportate alla specifica tipologia di pericolosità ipotizzata
a fini prevenzionali.
2.3 In tale operazione valutativa non è sfuggita alla Corte distrettuale
nemmeno la considerazione del profilo dell’attualità della pericolosità, che ha
stimato immanente, nonostante il periodo di detenzione sofferto dal proposto in
esecuzione della lunga pena detentiva inflittagli, offrendo corretta e giustificata
applicazione dei criteri interpretativi, dettati dalla giurisprudenza di questa Corte.
In particolare, circa il requisito della attualità della suddetta pericolosità, da
rapportarsi al momento della decisione di primo grado, sia per la natura di
impugnazione dell’appello, che per la immediata esecutività del provvedimento
applicativo della misura personale, il relativo accertamento deve fondarsi sulla
gravità dei pregressi sintomi di deviazione riscontrati nel passato e sulla loro
vicinanza temporale al momento della decisione. Secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza di legittimità – cui si è richiamato anche il
provvedimento impugnato -(Cass. sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, rv.
260104; sez. 1, n. 7585 del 22/01/2014, Bonavota, rv. 259672; sez. 5, n. 2922 del
06/11/2013 Belcastro, rv. 257938; sez. 1, n. 5838 del 17/01/2011, Pardo, rv.
249392), formatosi anche per effetto delle soluzioni esegetiche fornite dal giudice
costituzionale nella sentenza n. 391 del 2/12/2013, il giudizio di attuale pericolosità
sociale non può fondarsi su presunzioni, ma deve incentrarsi sulla gravità della
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caratteri di gravità, precisione e concordanza, richiesti dall’art. 192 cod.proc.pen.

condotta accertata in sede penale anche in riferimento al pregresso inserimento in
contesti operativi di tipo associativo e deve essere tanto più rigoroso quanto
l’accertamento di tale condotta sia risalente nel tempo rispetto alla proposta. A tal
fine, seguendo le indicazioni metodologiche suggerite da questa Corte nella
sentenza sez. 1, n. 23641/14 citata, deve farsi ricorso a tre indici sintomatici: a) il
livello di coinvolgimento del proposto nelle attività del gruppo criminoso, che
saranno tanto più significative in relazione al ruolo di vertice o di organizzatore
ricoperto in quel contesto; b) la tendenza del gruppo di riferimento a mantenere

forze dell’ordine; c) l’avvenuta o meno manifestazione, in tale intervallo temporale,
da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche
criminali in precedenza condivise.
Ebbene, il decreto impugnato ha riscontrato sul piano fattuale il ruolo di spicco
svolto dal Barchetta nel sodalizio a base familiare, l’agevole ricomposizione delle
complicità già godute con fornitori e clienti, l’assenza di alcuna forma di
dissociazione dalle logiche pregresse e di dati sicuri sugli effetti risocializzanti
esplicati dall’espiazione della pena detentiva, peraltro in regime di detenzione
domiciliare, tali da non comportare la cessazione della riscontrata pericolosità, che
potrà al più essere oggetto di una rinnovata considerazione al termine
dell’esecuzione in corso.
2.4 Per contro, l’impugnazione oppone le medesime argomentazioni circa la
lunga detenzione in atto, che non si precisa da quando abbia avuto inizio, l’eguale
detenzione dei correi, la pregressa dedizione ad attività lavorativa lecita, l’assenza
di violazioni nel periodo di espiazione in regime domiciliare: si tratta di elementi già
considerati dalla Corte distrettuale, non del tutto dimostrati e comunque
inconferenti se si considera che proprio la gestione di impresa di ristorazione era
stata strumentalizzata per condurre dei paralleli e lucrosi affari di smercio di droga
in un contesto organizzato, ritenuto dai giudici di merito contraddistinto da
pervasività e significativa pericolosità sociale.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile con conseguente condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità, anche al versamento di una
somma in favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo liquidare in euro
1.000,00.

intatta la sua capacità operativa nel tempo nonostante l’azione di contrasto delle

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2016.

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