Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29302 del 22/03/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29302 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SPADARO FRANCESCO N. IL 07/12/1958
avverso l’ordinanza n. 114/2015 TRIB. SORVEGLIANZA di
L’AQUILA, del 26/05/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE
SANDRINI;
lette/961+e le conclusioni del PG Dott. RA Nct

-s-c.,9 140_44.10

0-, b vviro

lvtt. Ap t

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 22/03/2016

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 26.05.2015 il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila ha
dichiarato inammissibili le istanze di semilibertà e liberazione anticipata
formulate da Spadaro Francesco, detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo
per reati di omicidio commessi nel corso del 1981.
Il Tribunale, premesso di aver già rigettato con ordinanza 17.06.2014 l’istanza
del condannato di essere ammesso alla misura alternativa della semilibertà
formulata sul presupposto dell’impossibilità di una collaborazione con la giustizia,

condanna per reati ostativi all’ammissione ai benefici richiesti ai sensi dell’art. 4bis ord.pen., norma che doveva trovare applicazione nel caso di specie essendo
soggetta al principio tempus regit actum, per il fatto che i delitti commessi dal
condannato (e in particolare gli omicidi di Giovanni Di Fazio e di Gioacchino
Tagliavía, entrambi correlati all’attività di “cosa nostra” siciliana) erano
obiettivamente connotati, sulla base delle risultanze di fatto accertate in
sentenza, dal metodo mafioso o dalla finalità mafiosa, a prescindere dalla loro
epoca di commissione in data anteriore all’introduzione nell’ordinamento della
fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis cod. pen. e dalla conseguente
contestazione dell’aggravante ex art. 7 legge n. 203 del 1991.
2. Ricorre per cassazione Spadaro Francesco, a mezzo del difensore, deducendo
tre motivi di doglianza.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 4-bis comma 1
ord.pen. e 416 bis cod. pen. in relazione alla ritenuta natura ostativa dei delitti
commessi antecedentemente al 1982 e all’entrata in vigore della legge (n. 646
del 1982) che aveva introdotto nell’ordinamento la fattispecie di cui all’art. 416
bis cod. pen.; deduce di essere ininterrottamente detenuto dal 1983 in
espiazione della pena dell’ergastolo inflitta per omicidi commessi nel 1981; rileva
che il richiamo contenuto nell’art. 4-bis, comma 1, ord.pen. ai reati ostativi
all’ammissione ai benefici penitenziari fa riferimento, per quanto riguarda i delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, a un criterio di
qualificazione formale, e non sostanziale, relativo al titolo del reato e non al suo
contenuto descrittivo; deduce la natura istantanea degli omicidi commessi, che
avevano esaurito il loro disvalore penale nel momento della consumazione
avvenuta prima del settembre 1982; critica il precedente di questa Corte di cui
alla sentenza n. 45137 del 2014, rilevando che l’ostatività dei delitti risalenti al
1981 poteva essere eventualmente valutata sotto il profilo del loro disvalore
intrinseco, ma non del loro inserimento nell’art. 4-bis (comma 1) ord.pen..
Col secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 4-bis comma 1 _
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riteneva operante nei confronti dello Spadaro la preclusione discendente dalla

ord.pen. e 416 bis cod. pen., nonché vizio di motivazione, in relazione alla
qualificazione ostativa attribuita all’omicidio Di Fazio; deduce che l’estraneità
dell’omicidio alla finalità di agevolare le attività di un’associazione mafiosa
emergeva dalla motivazione della sentenza di condanna, e in particolare dal
movente ivi ricostruito circa la diversa finalità di agevolare l’attività di
contrabbando dei tabacchi lavorati esteri, di cui lo Spadaro era storico
esponente; deduce, sul punto, il travisamento del giudicato di condanna da parte
dell’ordinanza impugnata.
Col terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 4-bis comma 1

ord.pen. e 416 bis cod. pen., nonché vizio di motivazione, in relazione alla
ritenuta sussistenza dei presupposti per un’utile collaborazione con la giustizia
con riguardo all’omicidio Tagliavia; deduce l’impossibilità di desumere dalla
motivazione dell’ordinanza impugnata se gli spazi per un’utile collaborazione
dello Spadaro fossero stati valutati con riferimento alla posizione dei due
coimputati assolti, per i quali operava la preclusione sancita dall’art. 649 del
codice di rito, ovvero a quella degli altri correi rimasti ignoti.
3. Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali chiede il
rigetto del ricorso.
4. Con memoria in data 20.01.2016 il difensore del ricorrente ribadisce le
censure formulate nei motivi di ricorso, rilevando che la portata retroattiva
dell’art. 4-bis comma 1 ord.pen. deve necessariamente arrestarsi al 13.09.1982,
data di introduzione nell’ordinamento della fattispecie normativa di cui all’art.
416 bis cod. pen., prima giuridicamente inesistente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato e deve essere rigettato.
2. Quanto al primo motivo di doglianza, l’ordinanza impugnata ha fatto coerente
e corretta applicazione alla fattispecie del principio di diritto, già affermato da
questa Corte (Sez. 1 n. 45137 del 20/06/2014, Rv. 261130) e al quale deve
essere data continuità, secondo cui la disciplina relativo alle modalità del
trattamento penitenziario dei soggetti condannati per delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni in esso previste deve trovare applicazione,
con riguardo alle preclusioni stabilite nell’art. 4-bis (comma 1) ord.pen., anche
quando i fatti oggetto di condanna siano stati commessi prima dell’introduzione
nel codice penale del reato di associazione di tipo mafioso ad opera della legge
13 settembre 1982, n. 646, ove i reati siano comunque inquadrabili in un
contesto di criminalità mafiosa per metodo e finalità.
Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 24561 del 30/05/2006, Aloi) hanno
definitivamente chiarito che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene

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detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento
del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della
stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di
una specifica disciplina transitoria) soggiacciono alla regola tempus regit actum,
e non alla disciplina della successione delle norme penali nel tempo dettata
dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 Cost.
Il dato – pacifico – che all’epoca di commissione dei delitti per i quali il ricorrente
sta espiando la pena dell’ergastolo non fosse ancora stata introdotta

costituente il presupposto della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L.
n. 152 del 1991 (convertito nella legge n 203 del 1991), non assume perciò
rilevanza nel presente procedimento di sorveglianza, in cui non si tratta di
applicare al condannato il (più grave) trattamento sanzionatorio penale
conseguente al riconoscimento di una circostanza aggravante non prevista dalla
legge al momento del reato (ciò che sarebbe senz’altro precluso dal principio di
rango costituzionale dell’irretroattività della norma penale incriminatrice), ma
solo di verificare se sussistano, attualmente, le condizioni stabilite dalle norme di
ordinamento penitenziario per ammettere lo Spadaro alle misure alternative alla
detenzione da esse previste, in relazione ai fatti-reato oggetto delle condanne in
corso di espiazione.
Tale verifica deve necessariamente essere compiuta alla stregua del testo
vigente, in conformità alla regola tempus regit actum, dell’art. 4-bis, comma 1,
ord.pen., che vieta, in assenza di collaborazione con la giustizia, la concessione
delle misure alternative alla detenzione, ivi inclusa la liberazione condizionale, ai
soggetti condannati per i delitti (tra gli altri) commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività
delle associazioni in esso previste; sul punto, l’elaborazione giurisprudenziale di
questa Corte ha affermato, con orientamento costante, il principio che il catalogo
dei reati contemplato dal citato art. 4-bis non va individuato in maniera formale,
e non postula, pertanto, l’avvenuta contestazione della circostanza aggravante
prevista dall’art. 7 D.L. n. 152 del 1991 (convertito nella legge n 203 del 1991),
ma deve essere identificato in modo sostanziale, con riferimento alla natura e
alle finalità del reato, quale emergente dalla sentenza di condanna, nonché al
contesto in cui fu commesso (Sez. 1 n. 50922 del 27/11/201.3, Rv. 258755; Sez.
1 n. 374 del 23/11/2004, Rv. 230539).
Non vi è ragione di differenziare, come prospettato nel ricorso, l’operatività dei
principi così affermati a seconda che il reato rientrante tra quelli indicati nell’art.
4-bis comma 1 ord.pen. sia stato commesso prima o dopo l’introduzione
nell’ordinamento (nel settembre 1982) dell’art. 416-bis cod. pen., nel senso che r

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nell’ordinamento la norma incriminatrice di cui all’art. 416 bis cod. pen.,

per i reati commessi (e la cui condotta si sia esaurita) in epoca antecedente non
potrebbe trovare applicazione il criterio ostativo legale previsto dalla norma di
ordinamento penitenziario, sulla (sola) base del dato formale rappresentato dal
richiamo, contenuto nella norma stessa, al nomen iuris dell’associazione di tipo
mafioso, anziché al contenuto descrittivo della relativa fattispecie associativa
declinato nel terzo comma della norma incriminatrice.
Il riferimento testuale operato dall’art. 4-bis comma 1 ord.pen. ai delitti
commessi “avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo [e cioè l’art.

delle associazioni in esso previste”, come condizione ostativa dell’ammissione del
condannato ai benefici penitenziari, evoca infatti, in modo immediato, i contenuti
che sostanziano le condizioni, le finalità e le attività delle associazioni mafiose,
recependone la nozione di fatto delineata e descritta nel terzo comma dell’art.
416 bis, alla cui stregua deve perciò essere verificata la ricorrenza, nel delitto
concretamente accertato nella sentenza di condanna, del metodo o della finalità
(mafiosa) che lo inserisce nel catalogo dei reati ostativi, a prescindere dall’epoca
di commissione; non si dubita, del resto, dell’inidoneità della mancanza di una
formale contestazione dell’aggravante ex art. 7 legge n. 203 del 1991 a
precludere l’operatività dell’effetto ostativo della misura alternativa, con riguardo
ai delitti – connotati dalle modalità esecutive o dalle finalità agevolative che
concorrono in via di fatto a integrarla – che siano stati commessi prima della sua
introduzione nel sistema penale nel maggio del 1991.
Nessuna violazione dei principi in tema di legalità della fattispecie incriminatrice
e di divieto di efficacia retroattiva della norma penale sostanziale è, dunque,
ravvisabile, o anche solo ipotizzabile, posto che, anche in questo caso, non si
tratta di sanzionare in modo deteriore il fatto sulla base di una circostanza
ancorata agli elementi tipici di un reato non ancora introdotto nell’ordinamento
giuridico all’epoca della sua commissione, ma soltanto di accertare se quel fatto
sia caratterizzato da una natura, un metodo o una finalità, individuati attraverso
il richiamo degli elementi tipici di una fattispecie penale oggi esistente (quella di
cui all’art. 416 bis cod. pen.), che la norma di ordinamento penitenziario ritiene
ostativi della fruizione di un beneficio, la ricorrenza dei cui presupposti applicativi
deve essere vagliata sulla scorta della normativa attualmente vigente.
Il primo motivo di ricorso è dunque infondato.
3. Il secondo e terzo motivo di ricorso non superano la soglia dell’ammissibilità,
in quanto non denunciano alcun reale vizio di motivazione del provvedimento
impugnato o travisamento del giudicato delle sentenze di condanna, ma si
risolvono nel sollecitare – secondo lo schema tipico di un gravame di merito, non
deducibile dinanzi alla Corte di cassazione – una diversa lettura in fatto, r
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416 bis cod. pen. appena prima menzionato] ovvero al fine di agevolare l’attività

alternativa a quella dell’ordinanza gravata, della causale e del contesto
dell’omicidio di Giovanni Di Fazio (secondo motivo), e della possibilità per il
ricorrente di apportare un utile contributo collaborativo alla ricostruzione
dell’omicidio di Gioacchino Tagliavia (terzo motivo).
3.1. Quanto all’omicidio Di Fazio, il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato che
dalla lettura della sentenza di condanna risulta che il delitto era stato ordinato
dai vertici di “cosa nostra” per punire la vittima di uno sgarro commesso
nell’esercizio della sua attività di contrabbandiere, e che allo scopo era stato

compiti di copertura, finalizzato a sorprendere il Di Fazio mentre a bordo di una
barca stava facendo ritorno dal mare; l’esecuzione materiale del delitto era stata
affidata a un killer che era stato accompagnato in loco dallo Spadaro (che faceva
parte del commando omicida) e che aveva sparato alla vittima, uccidendola,
dopo essersi appostato sulla spiaggia.
La motivazione con cui l’ordinanza impugnata ha ritenuto la causale e il
complessivo contesto dell’omicidio riconducibili ai metodi e alle finalità tipiche
delle organizzazioni mafiose (e in specie di “cosa nostra” siciliana), ostative
perciò delle misure alternative richieste dallo Spadaro ex art. 4-bis ord.pen., è
dunque incensurabile, e non è scalfita dalle argomentazioni di merito del
ricorrente sull’esistenza di un movente legato alla qualità di contrabbandiere
della vittima, che tra l’altro non si pone in contraddizione con la ricostruzione
della genesi delittuosa riportata dal Tribunale.
3.2. Quanto all’omicidio Tagliavia, le argomentazioni generiche e congetturali del
ricorrente, intese ad escludere la spendibilità di un’utile collaborazione
investigativa da parte dello Spadaro, omettono sostanzialmente di confrontarsi
col dato – emergente dalla sentenza di condanna – dell’omesso chiarimento del
punto relativo alla partecipazione al delitto di altri soggetti rimasti ignoti (diversi
da quelli indicati dal collaboratore Marchese Giuseppe

e assolti in sede di

cognizione), sul quale il ricorrente, esecutore materiale del sequestro della
vittima, non ha offerto alcun contributo, così validando il giudizio del Tribunale
sull’inesistenza del presupposto collaborativo necessario a superare la natura
ostativa del reato commesso.
4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M .
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 22/03/2016

organizzato un agguato, con la partecipazione di una pluralità di sodali anche con

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