Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29293 del 18/03/2016


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 1 Num. 29293 Anno 2016
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: CASA FILIPPO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DAVI’ GIUSEPPE ANTONIO N. IL 09/12/1943
avverso l’ordinanza n. 61/2014 CORTE ASSISE APPELLO di
PALERMO, del 30/03/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIPPO CASA;
lette/s4ite le conclusioni del PG Dott.
C-

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 18/03/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza resa in data 30.3.2015, la Corte di Assise di Appello di Palermo,
deliberando in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza avanzata nell’interesse di
DAVI’ Giuseppe Antonio, volta ad ottenere, anche alla luce della pronuncia della Corte
Costituzionale n. 210 del 18.7.2013, l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in

19.6.2000, parzialmente riformata in secondo grado il 18.10.2001 e divenuta irrevocabile il
19.3.2003.
La Corte palermitana rilevava, in via preliminare, che la difesa del DAVI’, da un lato,
lamentava che ingiustamente il suo assistito, nel processo che si concluse con la condanna
all’ergastolo, non era stato ammesso al rito abbreviato, pur avendone fatto richiesta; dall’altro,
sosteneva che, tenuto conto dei principi stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.
210/2013, dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza del 24.1.2014 e dalla Corte EDU
con la decisione del 17.9.2009 assunta nei caso Scoppola c. Italia (sostanzialmente attinenti: al
valore sostanziale dell’art. 442 c.p.p.; alla possibilità offerta al giudice dell’esecuzione dall’art. 30
L. n. 87/53 di intervenire per impedire che fosse eseguita, anche in parte, una condanna basata
su una norma dichiarata incostituzionale; all’obbligo di applicare, in caso di successione di leggi
penali nel tempo, la legge più favorevole all’imputato), egli avrebbe avuto certamente diritto alla
richiesta sostituzione della pena perpetua con quella di trent’anni di reclusione.
Ciò premesso, la Corte territoriale osservava che la vicenda del DAVI’ si poneva
decisamente al di fuori dei parametri indicati dalla giurisprudenza nazionale (di legittimità e
costituzionale), nonché da quella sovranazionale, con particolare riferimento alla decisione
assunta dalla Corte EDU nel noto caso SCOPPOLA c/Italia (sentenza del 17.9.2009).
L’istante, infatti, non era mai stato ammesso al rito abbreviato, né poteva, in sede di
esecuzione, sindacarsi la correttezza o meno della decisione del giudice di merito sulla legittimità
della mancata ammissione dell’interessato al rito speciale, decisione che avrebbe potuto, fra
l’altro, essere assoggettata agli ordinari mezzi d’impugnazione (ed eventualmente al ricorso alla
Corte EDU).
Da ultimo, la Corte siciliana evidenziava la diversità della posizione del coimputato ZANCA,
al quale era stata applicata la diminuente prevista per il rito abbreviato: da un lato, lo ZANCA
aveva avanzato la relativa richiesta di ammissione sin dall’udienza preliminare, previa esclusione
dell’aggravante della premeditazione; dall’altro, il primo Giudice, all’esito del giudizio, aveva
verosimilmente accertato, con l’eliminazione dell’aggravante della premeditazione, “l’erroneità
dell’originaria contestazione”, sicché aveva correttamente applicato la diminuente prevista per il
rito abbreviato.
2. Ha proposto ricorso per cassazione DAVI’ Giuseppe Antonio, per il tramite del difensore
di fiducia, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla mancata
2

sostituzione di quella dell’ergastolo, inflittagli dalla Corte di Assise di Palermo con sentenza del

concessione della diminuente previa applicazione della disciplina del rito abbreviato, con
particolare riguardo all’art. 4-ter, comma 2, L. n. 144/2000 ed alla L. n. 4/2001.
Posto che il ricorrente, nel corso del giudizio di primo grado davanti alla Corte di Assise di
Palermo, aveva avanzato la richiesta di essere ammesso al rito abbreviato all’udienza del
14.1.2000 (richiesta respinta, in quanto giudicata tardiva ai sensi del combinato disposto degli
artt. 27 L. n. 479/99 e 223 D.L.vo n. 51/98), quando l’istruzione dibattimentale non si era ancora

norma di cui all’art. 442 c.p.p. andava considerata a tutti gli effetti come “una legge penale”,
ricadendo, pertanto, nel campo di applicazione dell’ultimo capoverso dell’art. 7, paragrafo 1, della
Convenzione EDU, sicché, non essendosi svolti i due gradi di merito prima dell’entrata in vigore
della legge n. 479/99, andava applicata dal giudice dell’impugnazione allora e dal giudice
dell’esecuzione poi la disposizione più favorevole sopraggiunta nelle more dell’istruzione
dibattimentale di primo grado (o nel frattempo sopraggiunta).
La Corte palermitana aveva omesso di motivare sugli approdi giurisprudenziali allegati
all’incidente di esecuzione e sul principio che la norma in esame sulla concessione o meno del rito
alternativo dovesse ritenersi norma di natura sostanziale applicabile retroattivamente in quanto
più favorevole al reo e in quanto richiesta prima della chiusura del dibattimento.
“Illogica e insoddisfacente” era la motivazione in merito alla dedotta disparità di
trattamento con ZANCA Salvatore.
In data 14.3.2016 è stata depositata nell’interesse del ricorrente “memoria difensiva di
replica”
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso

per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Premesso che della memoria difensiva depositata quattro giorni prima dell’odierna

udienza non può tenersi conto per mancato rispetto dei termini di legge (art. 611 c.p.p.), il
ricorso va dichiarato inammissibile, perché manifestamente infondato.
1.1. Ed invero, sui temi oggetto della presente decisione sono già intervenute in modo

approfondito due fondamentali decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte, entrambe
pronunciate in data 19.04.2012, la n. 34233, in proc. Giannone (dep. il 7.9.2012) e la n. 34472,
in proc. Ercolano (dep. il 10.9.2012), peraltro ribadite e completate dalla più recente decisione n.
18821 del 24.10.2013, dep. 7.5.2014, Ercolano, Rv. 258649, emessa, ancora dalle Sezioni Unite,
dopo l’intervento della Corte costituzionale (investita proprio dal Supremo consesso con la citata
ordinanza n. 34472/2012) che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 1, D.L.
24.11.2000, n. 341, convertito dalla L. 19.1.2001, n. 4, per contrasto con l’art. 117, comma
primo, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU (sent. n. 210 del 2013).
3

conclusa, il medesimo poteva e doveva essere ammesso al rito abbreviato. Questo perché la

Per quel che qui rileva, è sufficiente richiamare e ribadire i seguenti principi – che il
Collegio condivide e ribadisce – affermati con le menzionate pronunce, nel senso che:
– le decisioni della Corte EDU che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della
normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza – con le precisazioni
che seguono – anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la
pronuncia della predetta Corte (ordinanza Ercolano cit., Rv. n. 252933);

secondo il rito abbreviato, è norma di diritto sostanziale e, tenuto conto che la stessa – con
specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo – ha subìto, nel tempo, varie
modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve soggiacere al principio di
legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di
Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell’art.
25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della
previsione meno severa;
– in conseguenza, la pena dell’ergastolo inflitta all’esito del giudizio abbreviato, richiesto
dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel
vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1, D.L. n. 341 del 2000
e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest’ultima norma
ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui
all’art. 7, § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per
contrasto con l’art. 117, comma primo Cost. (cfr. Sez. U del 24.10.2013, dep. il 7.5.2014,
Ercolano, cit., con la quale si è affermato che il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale
contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore
che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87);
– lo strumento processuale di eventuale adeguamento interno, al fine di garantire concreta
applicazione al principio della legalità della pena, anche nella sua valenza convenzionale ex art. 7
della Carta dei Diritti dell’Uomo quale interpretato dalla Corte EDU, va individuato nell’incidente di
esecuzione ex art. 670 c.p.p., nell’ambito del quale superare – se del caso – il giudicato (il valore
della cui intangibilità viene considerato recessivo rispetto a quello, fondato sull’art. 30, quarto
comma della L. 11.3.1953, n. 30, che inerisce al divieto di dare esecuzione ad una sanzione
penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi: tale è il
principio affermato nella recente Sez. U, n. 18821/2014, cit.).
Ancora la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 235 del 2.7.2013 – con la quale ha
dichiarato manifestamente inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4-ter del d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno
2000, n. 144), sollevata dal Tribunale di Lecce, in veste di giudice dell’esecuzione, con riferimento
agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la
4

– l’art. 442 c.p.p., disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – ha ribadito che alla suddetta
sentenza 17.9.2009 della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia si può fare riferimento soltanto
nell’ipotesi relativa ad un caso che sia “identico a quello deciso” e “non richieda la riapertura del
processo”.
Con riguardo al tema dell’adeguamento concreto a tali principi nel diritto interno, la citata
sentenza n. 34233, Giannone, ha precisato che l’individuazione della pena sostitutiva da applicare

isolamento diurno, è subordinata al verificarsi di una “fattispecie complessa” integrata dalla
commissione di reati per i quali sia prevista tale sanzione e dalla richiesta di accesso al rito
speciale avanzata dall’interessato, elementi questi che, in quanto inscindibilmente connessi tra
loro, devono concorrere entrambi, affinché possa trovare applicazione, in caso di condanna, la
comminatoria punitiva prevista dalla legge al momento della richiesta: è quest’ultima, infatti, che
cristallizza, in rapporto al reato o ai reati per i quali si procede, il trattamento sanzionatorio
vigente al momento di essa.

1.1.1. Tutto ciò premesso e ritenuto, va, ancora una volta, affermata la concreta
inapplicabilità del principio discendente dalla sentenza della CEDU in data 17. 9.2009 (nel caso
Scoppola c. Italia) a tutte quelle situazioni che non siano sovrapponibili, nei loro elementi
essenziali aventi rilievo nello schema sopra illustrato, alla situazione valutata dall’anzidetta Corte
sopra nazionale.
In particolare, facendo sempre riferimento a quanto è dato leggere nella citata sentenza
Giannone delle SS. UU., la conversione della pena dell’ergastolo in quella di anni trenta è
possibile, in sede esecutiva, solo ove il rito abbreviato sia stato chiesto e sia stato ammesso tra il
2 gennaio ed il 24 novembre 2000, e cioè nella vigenza della L. n. 479 del 1999, art. 30, comma
1, lett. b, (che prevedeva che, in esito al rito speciale, all’ergastolo si sostituisse la pena di anni
trenta di reclusione), mentre la decisione definitiva sia stata pronunciata dopo il 24.11.2000, con
applicazione del più severo trattamento sanzionatorio introdotto con l’art. 7 D.L. n. 341 del 2000
(che ripristinava l’ergastolo senza isolamento diurno: norma giudicata dalla Corte costituzionale,
nella citata decisione n. 210/2013, non di “interpretazione autentica” dell’art. 442, comma 2, ult.
periodo, c.p.p., come esplicitamente enunciato dal legislatore, ma norma sostanzialmente
innovativa, che andava a modificare

in malam partem

il contenuto sanzionatorio della

disposizione suddetta e non poteva, perciò, avere efficacia retroattiva).
Tutti i casi diversi da quello appena delineato, siccome strutturalmente non riconducibili a
quello per cui è stato espresso il principio, non possono, dunque, trovare soluzione positiva (vedi,
tra le più recenti, Sez. 1, n. 6004 del 10/1/2014, Papalia, Rv. 250026; Sez. 1, n. 4008 del
10/1/2014, Ganci, Rv. 258272; Sez. 1, n. 23931 del 17/5/2013, Lombardi, Rv. 256257; Rv.
255388, 254524, 254212, 254096, 251857, 253093, 252211 e altre).

1.2. E’ evidente, pertanto, in base alle risultanze già messe in rilievo nella superiore
esposizione in fatto, la non sovrapponibilità della situazione del DAVI’, mai ammesso al rito
5

in sede di giudizio abbreviato per i reati punibili in astratto con l’ergastolo, con o senza

abbreviato, a quella dello SCOPPOLA, sicché del tutto correttamente il giudice dell’esecuzione ha
rigettato la sua istanza ed ha, altrettanto correttamente, ritenuto assorbite dal giudicato le
ragioni sottese al diniego di accesso al rito opposte in sede di cognizione che avrebbero dovuto
formare oggetto di specifica censura in sede di legittimità.
2. Quanto alla questione circa la dedotta “retroattività” della norma prevista dall’art. 4ter, comma 3, lett. b), D.L. n. 82/2000, in quanto disposizione di carattere “sostanziale”, si

2.1. La norma transitoria di cui all’art. 4-ter, comma 3, L. 5 giugno 2000 n. 144 di
conversione del D.L. 7 aprile 2000 n. 82 – recante modificazioni alla disciplina del giudizio
abbreviato e concernente specificamente i processi penali in corso per delitti puniti con la pena
dell’ergastolo per i quali il soggetto non aveva potuto prima avvalersi della più favorevole
disposizione del novellato art. 442, comma 2, c.p.p. – limitava la possibilità dell’imputato di
proporre la richiesta di giudizio abbreviato “prima della conclusione dell’istruzione dibattimentale”
alle sole fasi di merito, di primo grado, d’appello o di rinvio, mentre un analogo meccanismo
recuperatorio dell’attenuazione di pena non era previsto per i processi ormai pervenuti alla fase
del giudizio di cassazione.
Le lettere a) e b) dell’art. 4-ter, comma 3, prevedevano, rispettivamente, l’ammissione
della richiesta di accesso all’abbreviato nel giudizio di primo grado “prima della conclusione
dell’istruzione dibattimentale” e, nel giudizio di appello, qualora fosse stata “disposta la
rinnovazione dell’istruzione ai sensi dell’art. 603 c.p.p.”, e la richiesta fosse stata presentata
“prima della conclusione dell’istruzione stessa”.
Il chiaro tenore della norma implica, diversamente da quanto sostenuto dal difensore del
ricorrente, che il legislatore, in presenza del mutato quadro ordinamentale e delle profonde
innovazioni che hanno contrassegnato l’intero scenario, sul piano dei presupposti e delle cadenze,
del rito alternativo che viene qui in discorso – presupposti e cadenze che denotano la evidente
natura processuale della norma – ha consentito in via transitoria la proposizione di richieste,
ormai precluse, ancorandone temporalmente l’ammissibilità ad uno stadio antecedente l’inizio
dell’istruttoria dibattimentale.
Tale scelta è del tutto ragionevole e si salda appieno con la funzione deflattiva che anche in regime transitorio – ha continuato a caratterizzare il giudizio abbreviato rispetto
all’ordinario epilogo dibattimentale e in sé giustifica la speciale diminuzione di pena in ipotesi di
condanna.
Da tali premesse derivano due evidenti corollari.
Per un verso, infatti, risolvendosi la diminuente di pena in un trattamento premiale
accessorio che scaturisce dalla scelta, ormai unilaterale, di un rito che si configura a struttura
probatoria eventuale e contratta, è evidente che un siffatto trattamento sanzionatorio vive e trae
la propria ragione d’essere esclusivamente nell’alveo del rito cui accede, senza pertanto assumere

6

osserva quanto segue.

- come pure il ricorrente pretenderebbe – l’autonomia tipica di una disciplina di natura
sostanziale.
Sotto altro profilo, correlandosi il regime transitorio alla opzione per un modello
ontologicamente alternativo alla istruzione dibattimentale, è del tutto evidente che la sede del
giudizio di primo grado in cui l’istruttoria si è conclusa o del giudizio di appello in cui o non è stata
mai disposta o, se disposta, si è esaurita l’istruttoria dibattimentale, si presenterebbe del tutto

perché ad esso non conseguirebbe alcuna rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di
merito, essendo stato tale diritto per definizione già integralmente esercitato. Considerazioni
analoghe valgono, a maggior ragione, per il giudizio di legittimità.
Accedendo a un ragionamento come quello prospettato dalla difesa, si determinerebbe,
oltretutto, un incoerente “privilegio” riconosciuto in via esclusiva proprio nei confronti di quanti
versassero nelle condizioni dell’odierno ricorrente, giacché solo per esso, e senza alcuna
giustificazione, si dovrebbe applicare una diminuente di pena totalmente disancorata da qualsiasi
riconducibilità al rito speciale ed alle “limitazioni” probatorie che da esso conseguono (vedi Sez.
1, n. 43527 del 24.9.2013, Morabito).
In numerose pronunce questa Corte ha, del resto, sempre affermato la coerenza
costituzionale di siffatta disciplina transitoria, rilevando che “la disciplina processuale del rito
abbreviato è certamente caratterizzata da innegabili riflessi di natura sostanziale, visto l’effetto
premiale, sul piano sanzionatorio, per l’imputato, il che induce istintivamente a pensare a
situazioni che, pur simili nella loro struttura sostanziale, finiscono per soggiacere a regole
processuali diverse, in dipendenza di eventi meramente casuali. In realtà, però, il riverbero che
l’operatività di un istituto processuale può avere su di una situazione sostanziale non è idoneo ad
annullare o a svilire la connotazione tipicamente processuale dello stesso istituto, nella specie il
giudizio abbreviato. Non va sottaciuto che l’effetto sostanziale della riduzione di pena che a tale
giudizio consegue è in stretto ed ineludibile rapporto di dipendenza con una precisa scelta
processuale, praticabile solo nel rispetto delle modalità e dei tempi fissati, con rigida scansione,
nel codice di rito. Se, quindi, si è di fronte a norme processuali, le stesse non possono che essere
soggette al principio “tempus regit actum”, senza che ciò significhi lesione alcuna dei principi
costituzionali e, segnatamente, del principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost. Né è legittimo
fare leva sulla norma dell’art. 2, comma 3, c.p. in materia di successione di leggi penali nel
tempo, per sostenere le retroattività della sopravvenuta più favorevole normativa in materia di
giudizio abbreviato, e ciò per la semplice ragione che tale normativa non integra il concetto di
“legge”, dovendosi per tale intendere solo quella il cui contenuto incide direttamente sul precetto
o sulla sanzione. Conclusivamente, il principio cui soggiace la normativa in esame altro non è che
l’applicazione alla materia processuale della regola generale della irretroattività di ogni legge,
stabilità dell’art. 11, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale” (Sez. 6, Sentenza n.
10621 del 4/7/2000, Calafato ed altri, Rv. 217098; ma anche, Sez. 5, n. 33718 del 13.6.2001,
7

eccentrica rispetto ad un ipotetico “recupero” di facoltà ormai naturalmente precluse, proprio

Barreca e altri; Sez. 1, n. 468 del 18.12.2000, Orofino ed altri; Sez. I, 8.11.2000, Cannella ed
altri; Sez. I, 7.7.2000, Crisafulli; Sez. I, 26.6.2000, Sangiorgi; Sez. VI, 20.6.2000, Occhipinti;
Sez. H, 13.6.2000, Genco ed altri; Sez. 1, n. 8857 del 13.6.2000, Mercurio; Sez. I, 5.6.2000,
Flasani).

2.2. Va, infine, ricordato che, con la recente decisione n. 235 del 2.7.2013, la Corte
costituzionale, investita di un caso assimilabile a quello oggetto di ricorso, ha dichiarato

4-ter del D.L. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n.
144), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal
Tribunale di Lecce, in veste di giudice dell’esecuzione.
Ha affermato la Corte costituzionale che il Giudice

a quo non era chiamato a fare

applicazione della norma censurata, perché colui che aveva proposto l’incidente di esecuzione benché, come il DAVI’, assumesse di avere diritto alla sostituzione di detta pena con quella di
trenta anni di reclusione sulla base dei principi affermati dalla Grande Camera della Corte
europea dei diritti dell’uomo nella più volte citata sentenza 17.9.2009, Scoppola contro Italia – in
realtà non versava affatto in una situazione identica o similare a quella presa in esame dalla
richiamata sentenza della Corte di Strasburgo.
Nel richiamare la propria precedente sentenza n. 210 del 2013, il Giudice delle Leggi ha, a
tal proposito, ribadito che alla suddetta sentenza della Corte europea si può fare riferimento
soltanto nell’ipotesi relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e “non richieda la
riapertura del processo”, essendo questa l’unica ipotesi nella quale può giustificarsi “un incidente
di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma
applicata nel giudizio di cognizione”.
Tale situazione non ricorreva nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice a quo per
varie ragioni:
1)

l’imputato, come il DAVI’, non era mai stato ammesso al giudizio abbreviato

(diversamente dalla situazione avuta di mira dalla sentenza Scoppola);
2) la norma censurata non aveva natura sostanziale, ma processuale (vedi: Corte europea
27 aprile 2010, Morabito contro Italia).
Da ciò conseguiva che il Tribunale rimettente non aveva alcun titolo per procedere alla
ipotizzata sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con la pena detentiva
temporanea, né, tanto meno, per porre in discussione, in sede di incidente di esecuzione, la
legittimità costituzionale dì una norma che, quale quella sottoposta a scrutinio, atteneva al
processo di cognizione.

3. In definitiva, il ricorso, manifestamente infondato, e dimentico di principi affermati
anche dalle sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte, deve essere dichiarato inammissibile ex
artt. 591 e 606, comma 3, c.p.p..
8

manifestamente inammissibile – per irrilevanza – la questione di legittimità costituzionale dell’art.

Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del
disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in
favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente
infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 marzo 2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA