Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29272 del 19/05/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29272 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: NOVIK ADET TONI

Data Udienza: 19/05/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MALANDRINO LIBORIO N. IL 02/05/1954
avverso la sentenza n. 25/2012 CORTE APPELLO di MESSINA, del
16/02/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 19/05/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. r/vi,-Gt3/4
che ha concluso per

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Udito, per la parte civile, l’Avv g ot,bak 1-t
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RILEVATO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 16 febbraio 2015, la Corte di appello di Messina
in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Mistretta ha assolto Liborio
Malandrino dai reati, rubricati rispettivamente ai capi c) e b), rispettivamente
danneggiamento del lucchetto di Cosimo Marulli per non aver commesso il fatto
e porto senza giustificato motivo di oggetti atti ad offendere (un manico di palo
sormontato da una falce, un’accetta con manico di legno, un coltello da cucina e
un coltello a serramanico) perché estinto per prescrizione. Ha confermato la

imputazione di tentato omicidio) e di minaccia ai danni di Cosimo Marulli e di
danneggiamento dell’autovettura del medesimo, rubricati rispettivamente ai capi
a), d) e c). Ha rideterminato la pena in anni due e mesi cinque di reclusione e
confermato le statuizioni civili. I reati erano stati commessi in Santo Stefano di
Camastra il 14/11/2009.

2. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, tra Malandrino e Marulli,
proprietari di fondi contigui, non correva buon sangue per, come si legge,
malanimo e odio del primo verso “il cittadino evaso in campagna”. Il 14
novembre, verso le 8:45, Marulli aveva trovato il lucchetto del cancello di
accesso alla sua proprietà chiuso con la colla. Ritenendo che fosse stata opera di
Malandrino si era portato verso la sua abitazione inveendo contro di lui.
Malandrino dapprima aveva reagito verbalmente dal balcone, poi era sceso
incontro a Marulli impugnando un manico di tavola, alla cui estremità aveva
applicato una falce, minacciandolo di morte. Marulli aveva tentato di scappare
girando intorno la propria macchina; l’imputato aveva colpito più volte
l’autovettura danneggiandola e aveva cagionato lesioni anche a Marulli. Questi,
accortosi che la falce si era staccata dal manico, dopo aver ricevuto altri colpi
aveva afferrato un bastone e intrapreso una colluttazione con l’avversario.
Malandrino aveva estratto un coltello. Marulli aveva avuto il sopravvento
sull’imputato, ma poi accedendo alle sue suppliche lo aveva lasciato andare.
Malandrino aveva afferrato di nuovo il bastone tentando di aggredire la vittima,
che era riuscito a impossessarsi dell’arnese e del coltello e a scappare.

3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Liborio
Malandrino e ne chiede l’annullamento sulla base di tre motivi.
3.1. Con il primo eccepisce violazione degli artt. 52 e 55 cod. pen.,
mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione,
travisamento dei fatti. In particolare, lamenta che i giudici di appello avevano
ricostruito in maniera errata la vicenda, trascurando che l’istruttoria
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condanna per i reati di lesione personale (così derubricata l’originaria

dibattimentale aveva dimostrato che al momento dell’arrivo del Marulli
Malandrino era intento a lavorare la terra utilizzando gli arnesi qualificati come
armi improprie. Non era vero, quindi, che egli in precedenza si trovasse sul
balcone e fosse sceso per aggredire la parte offesa. La sua reazione era stata
istintiva e determinata dalle accuse rivoltegli di aver danneggiato il lucchetto. Vi
era stata una colluttazione, confermata dalla parte offesa in dibattimento,
durante la quale l’imputato aveva utilizzato il bastone con cui stava lavorando e,
dopo aver colpito la macchina, aveva cercato di colpire Marulli.

allontanarsi agitato sia la documentazione medica che aveva escluso pericolo di
vita.
La corte quindi avrebbe dovuto riconoscere nella sequenza descritta
un’ipotesi di legittima difesa e valutare l’attenuante della provocazione.
Inoltre, preso atto che la corte stessa aveva riconosciuto una situazione di
provocazione, avrebbe dovuto applicare l’ipotesi dell’eccesso colposo.
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione di legge per
aver la corte d’appello omesso di spiegare le ragioni per cui aveva confermato la
decisione del primo grado anche sul punto delle minacce, nonostante che questo
capo non figurasse nella rubrica. Su questo punto la sentenza era contraddittoria
perché in altra parte aveva riconosciuto che l’imputato poteva limitarsi a reagire
solo in termini verbali con ingiuria e minacce.
3.3. Infine, contesta l’eccessività della pena, sia in relazione alla
determinazione della pena, sia in relazione alla mancata concessione
dell’attenuante della provocazione.

4. La parte civile all’odierna udienza ha depositato note difensive.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo del ricorso formulato nell’interesse del Malandrino è in
parte inammissibile, perché presentato per fare valere ragioni diverse da quelle
consentite dalla legge, e in parte infondato.
Al di là del formale dato enunciativo, avendo il ricorrente fatto riferimento a
tutti i vizi di motivazione, il predetto non ha prospettato alcuna reale
contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse
dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed
insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; ne’ è stata
propriamente lamentata un’incompleta descrizione degli elementi di prova
rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi
desumibili dalle carte del procedimento.
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Era stata trascurata sia la deposizione del teste che aveva visto Marulli

Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di
appello di Messina aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante le
indagini. Tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un reale
travisamento delle prove, vale a dire un’incompatibilità tra l’apparato
motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del
procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è
stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di travisamento dei fatti
oggetto di analisi (come peraltro riconosciuto nello stesso ricorso, a pag. 4, 19

rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla
semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema
motivazionale logicamente completo ed esauriente. Questa Corte, pertanto, non
ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a
seguito delle modifiche dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L.
20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 mentre è consentito dedurre con il ricorso per
cassazione il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il
giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da
quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del travisamento del fatto,
stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di
merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il
compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di
reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della
decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv.
244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215). Quanto alle
allegazioni in cui si fa riferimento a dichiarazioni rese nel corso del processo,
nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il
requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l’onere di dedurre le
censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati
della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli
elementi che sono alla base delle censure medesime, dando la prova della verità
dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché dell’effettiva
esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori
ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento al fine di consentire al giudice
dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.
Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di
legittimità, questa Corte Suprema ha già ritenuto che “la teoria
dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e
3

rigo), sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine,

applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza
abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume
essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del
suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti
specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in
precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del principio di
autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato – deve ritenersi
precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il

ricorso” (Sez. 1, sentenza n. 16706 del 18 marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n.
240123; Sez. 1, sentenza n. 6112 del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass.
n. 243225; Sez. 5, sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED
Cass. n. 246552, per la quale è inammissibile il ricorso per cassazione che
deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur richiamando atti
specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione
e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso
autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. 6, sentenza n. 29263
dell’ 8-26 luglio 2010, CED Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per
cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di
inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni
logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi
probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il
cui esame diretto è alla stessa precluso; Sez. 2, sentenza n. 25315 del 20 marzo
– 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema di ricorso per
cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione
dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto
dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo
trasmesso al giudice di legittimità o anche provvedendo a produrlo in copia nel
giudizio di cassazione).
Nel caso di specie il ricorrente si è limitato ad enunciare, in forma molto
indeterminata, proponendo una alternativa ricostruzione rispetto al dato
accertato dalla Corte territoriale, senza allegare il verbale in cui le richiamate
dichiarazioni del Marulli erano trascritte.
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata, nel riportare che
Malandrino era affacciato al balcone e ne discese per affrontare ed aggredire
Marulli, nei termini già riportati al punto sub 2 del “fatto”, Marulli, delinea un
percorso logico e convincente nel quale non sono riconoscibili vizi di mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità.

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fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del

Da quanto esposto, individuato in Marulli l’aggressore, consegue la
manifesta infondatezza del ricorso laddove lamenta il mancato riconoscimento
della legittima difesa o dell’eccesso colposo, non senza rilevare che
incongruamente la doglianza viene elevata postulando ancora in essere la
contestazione di tentato omicidio.

2. Il secondo motivo è inammissibile. Il reato di minaccia è stato contestato
a Malandrino nel corso del giudizio di primo grado. Le questioni relative a questo

cognizione di secondo grado, il che ne preclude l’esame in questa sede secondo
quanto previsto dall’art. 606 comma 3 cod. proc. pen.

3.

Anche il terzo motivo è manifestamente infondato, avendo la corte

ancorato la pena inflitta ai precedenti dell’imputato e all’assenza di un positivo
comportamento processuale; anche sul punto dell’esclusione della provocazione
per il reato di lesioni la motivazione è coerente e non è censurabile in questa
sede essendosi in sentenza rilevato come la selvaggia aggressione del Marulli
non fu conseguenza dello stato d’ira insorto, ma si ricollegava all’odio verso
costui ed alla precisa volontà di infliggergli una sonora lezione.

4.

Relativamente alla censura con cui il ricorrente lamenta la mancata

applicazione della diminuente della provocazione al reato di minaccia, osserva il
Collegio che, a tal riguardo, deve considerarsi che detto reato è stato unificato
in continuazione con gli altri reati e l’aumento è stato contenuto in un mese di
reclusione: la considerazione unitaria del reato continuato agli effetti della
determinazione della pena comporta che, una volta ritenuta la continuazione tra
più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati
“satelliti” non esplica più alcuna efficacia, per la ragione che, individuata la
violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e
sanzionata diversamente mediante un aumento della sanzione del reato
principale calcolato secondo il concreto atteggiarsi del fatto. Il più recente ed
autorevole arresto in materia di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 25939 del
2013) ha ribadito, in linea con tale assunto, che una volta individuata la
“violazione più grave”, i reati meno gravi perdono la loro autonomia
sanzionatoria e il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica
irrogata per tutti i reati concorrenti. Costituisce, infatti, una pena legale non solo
quella stabilita dalle singole fattispecie incriminatrici, ma anche quella risultante
dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, quali sono,
appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato (Sez. U, n. 4901 del
5

addebito non venivano infatti proposte con i motivi di appello e devolute alla

26/11/1997, Varnelli, cit.; Sez. U., n. 748 del 12/10/1993, Cassata, cit; Sez. U,
n. 4901 del 27/03/1992, Cardarilli, cit.; Sez. U, n. 5690 del 07/02/1981, Viola,
Rv. 149259- 149263).

5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art.
616, comma 1, cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sent. n. 186 del

pecuniaria, che si stima equo determinare in euro 1.000.
Le spese sostenute dalla parte civile costituita vanno liquidate come da
dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e al versamento di euro 1000 alla cassa delle
ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che
liquida in complessive € 2304, oltre spese generali, IVA e CPA.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2016

Il Consigliere estensore

Il Pre idente

2000), anche al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione

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