Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29258 del 03/05/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29258 Anno 2016
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: CENTONZE ALESSANDRO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

1)Di Fiore Paolo, nato 1’11/12/1972 (rinunciante);
2)Di Fiore Pasquale, nato il 22/07/1982;
3) Montanino Giorgio, nato il 30/11/1970;

Avverso la sentenza n. 78/2013 emessa il 16/01/2015 dalla Corte di assise
di appello di Napoli;

Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Alessandro Centonze;

Udito il Procuratore generale, in persona della dott.ssa Marilia Di Nardo, che
ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;

Udito per il ricorrente Giorgio Montanino l’avv. Giuseppe De Gregorio;

Data Udienza: 03/05/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa l’11/03/2013 il G.U.P. del Tribunale di Napoli,
procedendo con rito abbreviato, dichiarava, tra gli altri, Paolo Di Fiore, Pasquale
Di Fiore e Giorgio Montanino colpevoli dei reati loro rispettivamente ascrittigli concesse a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche ritenute
equivalenti alle contestate aggravanti e ai soli imputati Paolo Di Fiore e Pasquale
Di Fiore l’ulteriore circostanza attenuante speciale di cui all’art. 8 del decreto-

legge 12 luglio 1991, n. 203 – e, operata la riduzione prevista per il rito,
condannava Paolo Di Fiore alla pena di anni quindici di reclusione, Pasquale Di
Fiore alla pena di anni dodici di reclusione e Giorgio Montanino alla pena di anni
venti di reclusione.
In particolare, all’imputato Paolo Di Fiore venivano contestate le ipotesi di
reato di cui ai capi B), C), C1), C2) e C3) della rubrica; all’imputato Pasquale Di
Fiore venivano contestate le ipotesi di reato di cui ai capi C), C1), C2) e C3);
all’imputato Giorgio Montanino venivano contestate le ipotesi di reato di cui ai
capi B) e B1).
Gli imputati Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e Giorgio Montagnino, inoltre,
venivano condannati alle pene accessorie di legge e al pagamento delle spese
processuali.

2. Con sentenza emessa il 16/01/2015 la Corte di assise di appello di Napoli
– decidendo sull’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale di Napoli e dagli imputati Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e Giorgio
Montanino – riformava la sentenza di primo grado nei seguenti termini
processuali. Sull’impugnazione del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Napoli, originariamente proposta come ricorso per Cassazione, la
Corte territoriale decideva dopo la sua conversione, effettuata ai sensi dell’art.
580 cod. proc. pen.
La Corte territoriale, innanzitutto, dichiarava non doversi procedere nei
confronti degli imputati Paolo Di Fiore e Pasquale Di Fiore in ordine al reato di cui
al capo C3) della rubrica,perché estinto per prescrizione.
Veniva, inoltre, esclusa per tutti gli imputati l’aggravante di cui all’art. 61, n.
1, cod. pen. contestata ai capi B), C) e C1) e, per il solo imputato Giorgio
Montanino, venivano escluse le attenuanti generiche.
Per effetto di tali statuizioni processuali, l’imputato Paolo Di Fiore veniva
condannato alla pena di anni quattordici e mesi otto di reclusione; l’imputato
Pasquale Di Fiore veniva condannato alla pena di anni undici e mesi quattro di
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legge 13 maggio 1991, n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, dalla

reclusione; l’imputato Giorgio Montantino veniva condannato alla pena di anni
trenta di reclusione.
Si dichiarava, infine, la sospensione della potestà genitoriale nei confronti di
tutti gli imputati per tutta la durata della pena.
La sentenza di primo grado, nel resto, veniva confermata.

3. Da entrambe le sentenze di merito – convergenti sotto il profilo della
responsabilità degli imputati e divergenti sotto il profilo del trattamento

penale di Paolo Di Fiore e Giorgio Montanino per l’omicidio di Pasquale Tufano e i
connessi reati in materia di armi, così come contestati ai capi B) e B1) della
rubrica.
Dagli stessi provvedimenti decisori, inoltre, emergeva la responsabilità degli
imputati Pasquale Di Fiore e Paolo Di Fiore per l’omicidio di Francesco Tufano,
contestato al capo C); il tentato omicidio di Vincenzo Romanelli, contestato al
capo C1); per questi episodi criminosi venivano contestati al capo C2) anche i
connessi reati di detenzione e porto di armi da fuoco.
3.1. In questo contesto processuale, prendendo le mosse dall’omicidio di
Pasquale Tufano, noto nell’ambiente camorristico con il soprannome di “o’
cafone”, eseguito ad Afragola il 07/11/2005, deve rilevarsi che l’agguato mortale
veniva eseguito intorno alle ore 19, in via Principe di Napoli, da due sicari che,
dopo essere giunti sul luogo del delitto a bordo di un motoveicolo, esplodevano
all’indirizzo della vittima numerosi colpi di una pistola calibro 7,65; dopo
l’agguato i due sicari si allontanavano a bordo dello stesso mezzo attraverso la
Piazza Ciampa.
In questa cornice, i fatti di reato, contestati ai capi B) e B1) della rubrica, si
ritenevano provati sulla base degli esiti degli accertamenti eseguiti dalla polizia
giudiziaria nell’immediatezza del fatto; delle deposizioni dei testimoni oculari
presenti sul luogo dell’agguato; degli esiti delle intercettazioni ambientali attivate
nel corso delle indagini preliminari.
Tale compendio probatorio consentiva di individuare il movente dell’omicidio
e il contesto criminale nel quale maturava, che venivano ricondotti dagli
investigatori ai contrasti interni all’area camorristica di Casalnuovo, insorti tra la
vittima e la famiglia Gallucci – con particolare riferimento a Maria Mosti e al figlio
Gennaro Gallucci che reggeva l’omonima consorteria dopo l’uccisione del padre conseguenti alla scarcerazione del Tufano avvenuta nel maggio del 2005 e al suo
rinnovato interesse per la gestione delle attività estorsive in danno delle imprese
operanti nel settore edilizio.

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sanzionatorio irrogato – emergeva, per quanto di interesse, la responsabilità

L’assassinio era stato eseguito, in concorso tra loro, da Pasquale Zito, Paolo
Di Fiore, Giorgio Montanino, Maria Mosti e Salvatore Nolano, come riferivano, a
distanza di quasi due anni dal fatto, i collaboratori di giustizia Giovanni Messina,
Alberto Messina e Roberto Vicale, provenienti da ambienti camorristici contigui a
quello della vittima. Tali collaboranti, pur non avendo preso personalmente parte
all’agguato in danno del Tufano, effettuavano convergenti chiamate in reità nei
confronti del Di Fiore, del Montanino e dello Zito, sulla base delle fonti di
conoscenza acquisite nel loro ambito associativo.

imputati Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e Pasquale Zito, i quali ammettevano
le loro responsabilità per i fatti in contestazione, consentendo di integrare il già
convergente compendio probatorio, grazie alla confessione resa da Paolo Di Fiore
e Pasquale Zito.
Grazie alle confessioni rese da Paolo Di Fiore e Pasquale Zito, si accertavano
il movente e la dinamica dell’omicidio del Tufano, che era stato materialmente
eseguito dallo Zito, condotto sul luogo del delitto a bordo di un motoveicolo
condotto dal Fiore; giunto sul posto, lo Zito esplodeva all’indirizzo della vittima
numerosi colpi di una pistola calibro 7,65; infine, i due sicari, dopo l’assassinio,
venivano recuperati dal Montanino che provvedeva ad accompagnarli nelle
rispettive abitazioni.
3.2. Passando a considerare la vicenda criminosa relativa all’omicidio di
Francesco Tufano e al tentato omicidio di Vincenzo Romanelli, contestati ai capi
C), C1) e C2) della rubrica, eseguiti a Marigliano il 24/01/2006, deve rilevarsi
che l’agguato si verificava intorno alle ore 19.40, in via Ponte dei Cani, dove il
Tufano venivo ucciso, mentre si trovava nei pressi di una fontanella pubblica; in
quella occasione, il Romanelli, che si trovava in compagnia del Tufano, pur
essendo stato ferito, riusciva a scampare all’attentato, riparandosi all’interno di
un’autovettura Fiat Panda, targata VA949579, parcheggiata nelle adiacenze del
luogo dell’agguato.
Il Romanelli, nell’immediatezza dei fatti, riferiva alle forze dell’ordine
intervenute sul posto che, poco prima, mentre si trovava in compagnia del suo
amico Francesco Tufano, nei pressi di una fontanella pubblica, era stato oggetto
di un’aggressione armata. La vittima, quindi, veniva trasportato presso
l’Ospedale “Santa Maria della Pietà” di Noia, dove gli venivano riscontrate “ferite
di arma da fuoco localizzate in fossa iliaca dx, due in regione paraornbellicale sx,
ferite d’arma da fuoco al ginocchio dx con fori di ingresso e/o uscita, una in
regione anteromediale e due in regione posteriore dx”.
In questo ambito, i fatti di reato si ritenevano provati sulla base degli esiti
degli accertamenti eseguiti nell’immediatezza del fatto dai Carabinieri della
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Successivamente, si aprivano alla collaborazione con la giustizia anche gli

Compagnia di Castello di Cisterna; delle deposizioni rese dai testimoni oculari
presenti sul luogo dell’agguato; delle deposizioni rese dai soggetti vicini alle due
vittime.
Nelle ore immediatamente successive all’attentato, in particolare, venivano
esaminati i testi Antonio Marinelli, Maria Grazia Garzone, Anna Frezza e Maria
Tufano, i quali, pur non consentendo l’identificazioni degli autori dell’attentato,
fornivano indicazioni utili alla prosecuzione delle indagini.
Sulla scorta di tali elementi probatori, nella prima fase delle indagini
preliminari, gli investigatori ritenevano di individuare il movente del delitto nei

contrasti interni all’area camorristica nella quale gravitavano le vittime, con
specifico riferimento al settore dello spaccio di sostanze stupefacenti, nel quale
risultavano coinvolte.
Su tale assassinio, a distanza di due anni dall’accaduto, riferivano i
collaboratori di giustizia Roberto Vicale e Giovanni Messina, provenienti da
ambienti camorristici contigui a quello delle vittime, i quali, pur non avendo
preso parte all’agguato in danno del Tufano e del Romanelli, effettuavano
convergenti chiamate in reità nei confronti degli imputati, sulla base delle fonti di
conoscenza acquisite nel loro ambito associativo.
Successivamente, si aprivano alla collaborazione con la giustizia anche gli
imputati Paolo Di Fiore: Pasquale Di Fiore e Pasquale Zito, i quali ammettevano
le loro responsabilità in ordine alla vicenda criminosa in esame, consentendo di
avvalorare ulteriormente il compendio probatorio acquisito con le loro
confessioni. Si accertava, in tal modo, il coinvolgimento nell’agguato – oltre che
degli imputati – quali mandanti di Salvatore Nolano e Ciro De Falco e, quale
esecutore materiale, di Vincenzo Cigliano.
Grazie alle confessioni di Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e Pasquale Zito,
dunque, si chiarivano il movente e la dinamica dell’agguato in danno del Tufano
e del Romanelli, che veniva materialmente eseguito da Paolo Di Fiore e Pasquale
Zito, i quali dopo essere giunti sul luogo dell’agguato, esplodevano all’indirizzo
delle vittime numerosi colpi di una pistola calibro 9 Luger; infine, dopo l’agguato,
i due sicari venivano recuperati dal Cigliano.
3.3. Sulla scorta di tale compendio probatorio, gli imputati Paolo Di Fiore,
Pasquale Di Fiore e Giorgio Montanino venivano condannati alle pene di cui in
premessa, rispetto alle quali, come detto, le sanzioni penali irrogate nei due
gradi di giudizio divergevano.

4. Avverso tale sentenza gli imputati Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e
Giorgio Montanino, a mezzo dei rispettivi difensori, ricorrevano per cassazione,
proponendo distinti atti di impugnazione.
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t

4.1. L’imputato Paolo Di Fiore ricorreva per cassazione, a mezzo
dell’avvocato Giovanni Caiazzo, deducendo violazione di legge e vizio di
motivazione della sentenza impugnata, di cui si omette la compiuta disamina,
essendo intervenuta rinuncia al ricorso da parte dello stesso ricorrente, con atto
ritualmente depositato in data 12/11/2015.
4.2. L’imputato Pasquale Di Fiore ricorreva per cassazione, a mezzo
dell’avvocato Patrizia Sebastianelli, deducendo il vizio di motivazione della
sentenza impugnata.

Corte di assise di appello di Napoli, a fronte della decisività del contributo
collaborativo fornito dall’odierno ricorrente, gli applicava una trattamento
sanzionatorio eccessivamente severo e certamente inadeguato rispetto
all’importanza delle sue propalazioni. L’eccessività del trattamento sanzionatorio
irrogato all’imputato Pasquale Di Fiore assumeva rilievo sotto tre distinti profili
valutativi.
Si deduceva, innanzitutto, che la Corte territoriale, pur concedendo
all’imputato Pasquale Di Fiore l’attenuante speciale dell’art. 8 del decreto-legge
n. 152 del 1991, gli applicava una riduzione di pena inferiore alla massima
estensione edittale di tale circostanza, senza tenere conto del contributo
processuale decisivo fornito dal ricorrente con le sue propalazioni, indispensabili
per chiarire il movente e gli autori dei delitti contestati in rubrica. Ne era
conseguita l’irrogazione all’imputato di una pena incongrua, notevolmente
superiore al minimo edittale, quantificabile per il più grave reato di cui al capo C)
in anni dodici di reclusione.
Si deduceva, inoltre, l’incongruità del giudizio di equivalenza tra le
attenuanti generiche e le contestate aggravanti, posto a fondamento del
trattamento sanzionatorio applicato dalla sentenza impugnata, nel censurare il
quale venivano ribadite le argomentazioni difensive esplicitate in relazione
all’applicazione dell’attenuante dell’art. 8 del decreto-legge n. 152 del 1991, ai
fini della riduzione di pena che si imponeva in conseguenza del riconoscimento di
tale circostanza dissociativa.
Si deduceva, infine, l’applicazione di un aumento di pena eccessivamente
elevato per la continuazione tra il reato più grave, individuato nell’ipotesi
delittuosa ascritta all’imputato Pasquale Di Fiore al capo C) – relativa all’omicidio
di Francesco Tufano, per la quale si stabiliva una pena di anni quattordici di
reclusione, già ridotta per l’attenuante di cui all’art. 8 del decreto-legge n. 152
del 1991 – e i reati posti in continuazione, contestati ai capi C1) e C2), rispetto
ai quali si stabiliva un aumento di pena complessivo quantificato in anni tre di
reclusione.
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Con il ricorso in esame, in particolare, la difesa del Di Fiore deduceva che la

Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza
impugnata.
4.3. L’imputato Giorgio Montanino ricorreva per cassazione, a mezzo
dell’avvocato Giuseppe De Gregorio, deducendo violazione di legge processuale e
vizio di motivazione della sentenza impugnata, in relazione agli artt. 591, comma
1, lett. c), cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 581 e 606, comma 3, cod.
proc. pen.
Si deduceva, in particolare, che la sentenza di primo grado era stata

ricorso per cassazione, convertito in appello, per vizio di motivazione afferente
alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, riconosciute dal G.U.P.
del Tribunale di Napoli sulla base di un giudizio censurato dalla parte ricorrente
sotto il profilo della congruità motivazionale. La natura di tale censura
giurisdizionale, limitata alla sola quantificazione della pena irrogata al Montanino,
veniva espressamente richiamata nel ricorso in esame, nelle pagine 1 e 2, dove
si faceva riferimento alla violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.
pen., per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, conseguente
all’erroneità del calcolo della pena.
Tuttavia, il giudizio formulato dal giudice di primo grado ai fini della
concessione delle attenuanti generiche, secondo la ricostruzione proposta dalla
difesa del Montanino, risultava espresso nel rispetto dei parametri dosimetrici di
cui all’art. 133 cod. pen. Sulla base di tali parametri, il giudizio di equivalenza
veniva espresso nell’ambito dei poteri discrezionali di cui il G.U.P. del Tribunale
di Napoli faceva un utilizzo esente da censure motivazionali, così come
desumibile dai passaggi argomentativi richiamati a pagina 3 dell’atto di
impugnazione in esame.
Ne discendeva che, nel caso in esame, il ricorso per cassazione del
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, vertendo
esclusivamente sul giudizio di equivalenza delle circostanze formulato dal G.U.P.
del Tribunale di Napoli, dopo la sua conversione ex art. 580 cod. proc. pen., non
consentiva una valutazione differenziata del merito della vicenda processuale
sottoposta alla cognizione del giudice di secondo grado. La Corte territoriale,
invece, interveniva sulla ricostruzione degli accadimenti delittuosi effettuata nella
sentenza di primo grado, rivisitandola, com’è desumibile dal passaggio in cui
faceva riferimento al ruolo esecutivo svolto dal Montanino nella preparazione
dell’agguato in danno di Pasquale Tufano, non limitato al solo recupero degli
esecutori materiali dell’omicidio, che faceva desumere il coinvolgimento del
ricorrente anche nella fase deliberativa di tale delitto.

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impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli con

In questo modo, la Corte di assise di appello di Napoli al fine di accogliere
l’impugnazione del pubblico ministero – che era stata originariamente proposta
quale ricorso per Cassazione venendo successivamente convertita ai sensi
dell’art. 580 cod. proc. pen. – modificava il gravame, ritenendolo proposto per
travisamento del fatto, in contrasto con le emergenze processuali. Attraverso
tale surrettizio mutamento del motivo dell’impugnazione, dunque, la Corte
territoriale riteneva ammissibile il gravame, modificando arbitrariamente le
ragioni poste a fondamento dell’originaria impugnazione.

impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi proposto dagli imputati Paolo Di Fiore, Pasquale Di Fiore e Giorgio
Montanino appaiono immeritevoli di accoglimento per le ragioni qui di seguito
esplicitate.

2.

Quanto al ricorso proposto dall’imputato Paolo Di Fiore, a mezzo

dell’avvocato Giovanni Caiazzo, deve rilevarsi che, con atto ritualmente
depositato, il ricorrente rinunciava al ricorso.
Deve, in proposito, rilevarsi che, in data 12/11/2015, perveniva rinuncia
all’impugnazione da parte dell’imputato Paolo Di Fiore, depositata presso l’Ufficio
matricola della Casa circondariale di Vicenza, come da estratto del registro
modello IP1, trasmesso a questa Corte.
Questa rinuncia all’originaria impugnazione da parte dell’imputato Paolo Di
Fiore costituisce una causa di inammissibilità del ricorso introduttivo del presente
procedimento penale, rilevante ai sensi dell’art. 591, lett. d), cod. proc. pen.,
con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
e al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, nei termini di cui in
dispositivo.

3.

Deve ritenersi infondato il ricorso proposto dall’imputato Pasquale Di

Fiore, a mezzo dell’avvocato Patrizia Sebastianelli, con cui si deduceva il vizio di
motivazione della sentenza impugnata.
3.1. Secondo la difesa del ricorrente, pur essendo stata concessa
all’imputato Pasquale Di Fiore l’attenuante speciale dell’art. 8 del decreto-legge
n. 152 del 1991, gli veniva applicata una riduzione di pena inferiore ai parametri
edittali previsti da tale circostanza, senza tenere conto della decisività delle sue

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Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza

propalazioni, indispensabili per chiarire moventi e autori dei delitti contestati ai
capi B), C), C1) e C2) della rubrica.
Deve, in proposito, rilevarsi che la quantificazione del trattamento
sanzionatorio e la graduazione della pena, in relazione all’applicazione delle
circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di
merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in conformità dei
principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. Ne consegue che è
inammissibile ogni censura che, nel giudizio di legittimità, miri a una nuova

sua determinazione non risulti arbitraria o illogica.
Sul punto, le Sezioni unite hanno precisato che il giudizio sulle circostanze
rilevanti ai fini della quantificazione della pena, implicando una valutazione
discrezionale tipica del giudizio di merito, sfugge al sindacato di legittimità
qualora non sia espressione di palese illogicità e sia sorretto da sufficiente
motivazione, tale dovendo ritenersi anche quella che si limiti a indicare la
soluzione più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto
(cfr. Sez. U, n. 1073 del 25/02/2010, Contaldo, n. 245931).
Tenuto conto di questi parametri ermeneutici, nel caso di specie, non può
ritenersi che la Corte territoriale sia incorsa in arbitrarietà o illogicità
motivazionali, tali da giustificare la rivalutazione del giudizio dosimetrico
formulato nei confronti dell’imputato Pasquale Di Fiore, di cui si valutava
congruamente il contributo processuale, esaminando analiticamente le ragioni
della sua collaborazione e la rilevanza delle sue propalazioni. Non può, quindi,
ritenersi che, considerato il percorso argonnentativo seguito, il giudice di appello
abbia compiuto una valutazione illogica o arbitraria del contributo collaborativo
dell’odierno ricorrente.
Nel caso in esame, con un giudizio immune da censure, la Corte territoriale
riteneva congrua la scelta del giudice di primo grado di riconoscere al Di Fiore
l’attenuante dell’art. 8 del decreto-legge n. 152 del 1991, ma di negarne
l’applicazione nella sua massima estensione edittale. In particolare,
soffermandosi su tale questione nelle pagine 34 e 35 della sentenza impugnata,
il giudice di appello riteneva di adeguare la sanzione finale alla rilevanza
processuale del contributo fornito dall’imputato – sia in riferimento all’omicidio di
Pasquale Tufano sia in riferimento all’attentato in danno di Francesco Tufano e
Vincenzo Romanelli – con un percorso argomentativo ineccepibile, all’esito del
quale veniva concessa al ricorrente l’attenuante a effetto speciale invocata, nella
misura edittale di anni dieci di reclusione.
3.2. Considerazioni analoghe valgono in ordine al secondo motivo del ricorso
proposto nell’interesse dell’imputato Pasquale Di Fiore, con cui si censurava il
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valutazione della congruità della pena irrogata dal giudice di merito, salvo che la

giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e le contestate aggravanti
formulato dalla Corte territoriale, sulla cui sindacabilità occorre ribadire le
argomentazioni esplicitate nel paragrafo precedente, in relazione alla rilevanza
del contributo dichiarativo ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’art. 8
del decreto-legge n. 152 del 1991, cui si deve rinviare.
Deve, in proposito, rilevarsi che, sul punto, la decisione adottata dalla Corte
di assise di appello di Napoli risulta conforme alla giurisprudenza di legittimità
consolidata, secondo la quale gli elementi valutativi posti a fondamento della

giudizio autonomo rispetto a quello riguardante il riconoscimento dell’attenuante
a effetto speciale di cui all’art. 8 del decreto-legge n. 152 del 1991, tanto è vero
che l’attenuante speciale in questione non è soggetta al giudizio di bilanciamento
tra circostanze, come statuito da questa Corte (cfr. Sez. U, n. 1073 del
25/02/2010, Contaldo, Rv. 245929; Sez. 1, n. 18378 del 02/04/2008, Pecoraro,
Rv. 240373).
Ne discende che, al contrario di quanto affermato dalla difesa dell’odierno
ricorrente, il riconoscimento dell’attenuante speciale di cui all’art. 8 del decretolegge n. 152 del 1991 non può implicare automaticamente, data la diversità dei
relativi presupposti, la concessione delle attenuanti generiche nella loro massima
estensione edittale, fondandosi queste ultime su presupposti differenti,
riguardanti la valutazione globale della gravità del fatto e la capacità a
delinquere del colpevole. Occorre, dunque, ribadire che non è consentito
utilizzare gli elementi posti a fondamento dell’attenuante della dissociazione
attuosa per giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche, con un
giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti, espresso in modo automatico,
perché una tale soluzione applicativa condurrebbe a un’inammissibile
valorizzazione dei medesimi elementi, effettuata in contrasto con la
giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 49820 del
05/12/2013, Billizzi, Rv. 258136; Sez. 5, n. 34574 del 13/07/2010, Russo, Rv.
248176).
Di questi principi, la Corte territoriale faceva buon governo, osservando che
la scelta dell’imputato Pasquale Di Fiore di aprirsi alla collaborazione e il suo
comportamento processuale costituivano elementi idonei a giustificare il
riconoscimento delle attenuanti generiche, ma non legittimavano un giudizio
automatico di prevalenza di tali circostanze sulle aggravanti, così come
esplicitato a pagina 34 della sentenza impugnata, con un percorso argomentativo
ineccepibile, nel quale l’esclusione del giudizio di equivalenza invocato veniva
giustificato dal pertinente richiamo alla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5,
n. 34574 del 13/07/2010, Russo, cit.).
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concessione delle circostanze attenuanti generiche devono essere sottoposti a un

Occorre, infine, rilevare che, nel giudizio di appello, la richiesta di
riconoscere la prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti
non era stata proposta nell’interesse dell’imputato Pasquale Di Fiore, ma
nell’interesse del solo imputato Paolo Di Fiore, rendendo, anche sotto tale profilo
valutativo, la doglianza difensiva esaminata immeritevole di accoglimento.
3.3. Le considerazioni espresse nei paragrafi 3.1. e 3.2., cui si deve rinviare,
sulla congruità del giudizio dosimetrico espresso dalla Corte territoriale nei
confronti dell’imputato Pasquale Di Fiore, impongono di ritenere infondata

contestati ai capi C1) e C2) della rubrica, rispetto ai quali veniva stabilito un
aumento complessivamente quantificato in anni tre di reclusione.
Nel caso di specie, sulla pena base prevista per il capo C), quantificata in
anni quattordici di reclusione, veniva disposto l’aumento di pena di anni due di
reclusione per la continuazione interna con il capo C1) e di un ulteriore anno di
reclusione per il capo C2). Tale percorso valutativo risulta compiuto dalla Corte
territoriale in termini processuali lineari e non censurabili sotto il profilo
motivazionale, tenuto conto del giudizio complessivo sulla gravità dei fatti
delittuosi ascritti all’imputato Pasquale Di Fiore e della sua personalità correttamente espresso nelle pagine 33-35 della sentenza impugnata – in
conseguenza del quale le attenuanti generiche venivano sottoposte a un giudizio
di equivalenza con le aggravanti contestate.
Queste ragioni processuali impongono di ritenere infondata la doglianza
difensiva esaminata.

4. Analogo giudizio di infondatezza deve essere espresso con riferimento al
ricorso proposto nell’interesse dell’imputato Giorgio Montanino, con il quale si
deduceva vizio di motivazione della sentenza impugnata, in relazione agli artt.
591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 581 e 606,
comma 3, cod. proc. pen.
Secondo la difesa dell’odierno ricorrente, la sentenza di primo grado era
stata impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli
con ricorso per cassazione – convertito in appello ai sensi dell’art. 580 cod. proc.
pen. – per vizio di motivazione afferente alla concessione delle circostanze
attenuanti generiche, che erano state riconosciute dal G.U.P. del Tribunale di
Napoli, sulla base di un giudizio di equivalenza censurato sotto il profilo della
congruità motivazionale.
Tale giudizio di equivalenza risultava espresso dal G.U.P. del Tribunale di
Napoli, nell’ambito dei suoi poteri discrezionali, nel rispetto dei parametri
dosimetrici di cui all’art. 133 cod. pen., così come desumibile dal passaggio
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l’ulteriore doglianza difensiva, riguardante gli aumenti di pena stabiliti per i reati

motivazionale esplicitato nelle pagine 55 e 56 del provvedimento impugnato,
espressamente richiamate nel ricorso in esame.
Deve, in proposito, osservarsi che la Corte di assise di appello di Napoli,
dopo la conversione del ricorso per cassazione del Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Napoli in appello, ai sensi dell’art. 580 cod. proc. pen.,
sindacava correttamente l’ammissibilità dell’originaria impugnazione, ritenendo
fondate le censure di legittimità proposte, così come desumibile dal passaggio
motivazionale esplicitato nelle pagine 30 e 31 della sentenza impugnata. Sul

compiuta dalla Corte territoriale, nel valutare la quale occorre tenere presente
che nel giudizio di primAr era proceduto con rito abbreviato, si ritiene
indispensabile richiamare il seguente principio di diritto: «In tema di giudizio
abbreviato, il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso la
sentenza di condanna e convertito in appello in applicazione dell’art. 580 cod.
proc. pen., conserva la propria natura di impugnazione di legittimità; tuttavia,
una volta concluso positivamente il giudizio rescindente, il giudice d’appello
riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni
conseguenti alla formulazione del giudizio rescissorio devolutogli» (cfr. Sez. 1, n.
40280 del 21/05/2013, Agostino, Rv. 257326).
In altri termini, presupposta l’ammissibilità dell’originario ricorso con una
motivazione ineccepibile, la Corte territoriale entrava nel merito della vicenda
delittuosa sottoposta alla sua cognizione, rideterminando la pena irrogata dal
G.U.P. del Tribunale di Napoli in senso sfavorevole al Montanino, sulla base
dell’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Napoli, con cui veniva censurato il giudizio di equivalenza tra attenuanti e
aggravanti formulato nella sentenza di primo grado. Ne consegue che la Corte di
assise di appello di Napoli, dopo avere ritenuto fondate le censure di legittimità
proposte, riprendeva correttamente la sua funzione di giudice di merito di
secondo grado, accogliendo l’impugnazione proposta dal pubblico ministero e

punto, allo scopo di ribadire la correttezza della sequenza procedimentale

rideterminando in anni trenta di reclusione il trattamento sanzionatorio
quantificato dal giudice di primo grado in anni venti di reclusione (cfr. Sez. 6, n.
42694 del 23/10/2008, Raia, Rv. 241872; Sez. 4, n. 36918 dell’11/07/2007,
Ogbechi, Rv. 237986).
Tenuto conto di questa sequenza procedimentale, occorre osservare che,
secondo la Corte territoriale, dagli atti processuali emergeva l’incongruità del
giudizio espresso dal giudice di primo grado in ordine alla gravità del reato
contestato al Montanino, sotto il profilo del suo coinvolgimento
nell’organizzazione dell’omicidio di Pasquale Tufano, atteso che la marginalità del
suo contributo, posta a fondamento della concessione delle attenuanti generiche,
12

t

risultava contrastante con le evidenze probatorie, nei termini correttamente
esplicitati nelle pagine 30-32 del provvedimento impugnato.
In questa cornice, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento consolidato di
questa Corte, per il corretto adempimento degli obblighi motivazionali in tema di
bilanciamento delle circostanze, è sufficiente che il giudice dimostri di avere
considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art.
133 cod. pen., vagliandoli in relazione agli altri dati significativi, apprezzati come
assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto. Nel compiere tale valutazione,

espressione del potere discrezionale nella valutazione dei fatti e nella concreta
determinazione della pena demandato al giudice di merito, il supporto
motivazionale sul punto quando – come nel caso in esame – risulti
corrispondente alle risultanze processuali e sia logicamente corretto (cfr. Sez. 2,
n. 3610 del 15/10/2014, Manzari, Rv 260415).
In altri termini, la determinazione in concreto della pena costituisce il
risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari
elementi offerti dalla legge, con la conseguenza che l’obbligo della motivazione
da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato,
anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi di impugnazione – peraltro
analiticamente vagliati dalla Corte territoriale – quando si evinca che
l’irrogazione della pena sia adeguata e non eccessiva. Questo percorso
valutativo, certamente riscontrabile con riferimento alla posizione dell’imputato
Pasquale Di Fiore, dimostra che sono stati considerati tutti i parametri
dosimetrici enucleati dall’art. 133 cod. pen., tenuto conto delle doglianze oggetto
d’impugnazione (cfr. Sez. 1, n. 3163 del 28/11/1988, dep. 1989, Donato, Rv.
180654).
4.1. Nel caso di specie, non è nemmeno ipotizzabile una violazione del
principio di

reformatio in pejus

della sentenza di primo grado, attesa

l’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Napoli, della cui conversione si è già detto nel paragrafo precedente, in
conseguenza della quale la Corte di assise di appello di Napoli disponeva degli
stessi poteri decisori del giudice di primo grado, conformemente a quanto
stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: «In sede di
impugnazione, la disposizione di cui all’art. 597, comma primo, cod. proc. pen.,
attribuisce gli stessi poteri del primo giudice al giudice d’appello, con la
conseguenza che questi – fermo restando il limite del divieto di “reformatio in
peius” – non è vincolato da quanto prospettato dall’appellante, ma può
affrontare, relativamente ai punti della decisione cui si riferiscono i motivi di
gravame, tutte le questioni enucleabili all’interno dei punti medesimi,
13

occorre tenere conto che è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto

accogliendo o rigettando il gravame in base ad argomentazioni proprie o diverse
da quelle dell’appellante» (cfr. Sez. 6, n. 40625 dell’08/10/2009, B. Rv.
245288).
Ne discende che la Corte territoriale si atteneva correttamente al principio di
diritto, più volte affermato da questa Corte, a tenore del quale la disposizione di
cui all’art. 597, comma 1, cod. proc. pen. deve essere interpretata nel senso di
attribuire i medesimi poteri del primo giudice al giudice di appello, con la
conseguenza che quest’ultimo non è vincolato da quanto prospettato

si riferiscono, può affrontare tutte le questioni enucleabili all’interno dei punti
medesimi. Ne consegue che risulta rispettoso dei parametri ermeneutici
richiamati il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, nel
passaggio esplicitato a pagina 31 della sentenza impugnata, nell’escludere il
giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti riconosciuto
dal giudice di primo grado, sulla base di una rivalutazione della gravità del reato
e della personalità del Montanino, effettuata attraverso la rivisitazione del
contributo concorsuale dell’imputato.
La Corte territoriale, dunque, rivalutava legittimamente la portata del
contributo concorsuale fornito dal Montanino dall’organizzazione dell’omicidio di
Pasquale Tufano, sulla base delle emergenze processuali sottoposte alla sua
cognizione in conseguenza dell’impugnazione proposta dal Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Napoli, affermando in tale ambito: «L’imputato
non risulta avere svolto un ruolo marginale nella vicenda, da dovergli riconoscere
delle attenuanti […]». E ancora: «Il “recupero” espletato fu la conseguenza di
una ripartizione di ruoli e, comunque, seppure possa ritenersi ruolo meno
pesante di quello del killer o del mandante tuttavia, si tratta di ruolo essenziale
negli omicidi di camorra, in cui deve essere assicurata la rapida fuga degli
stessi».
Queste ragioni processuali impongono di ritenere infondata la doglianza
difensiva esaminata.

5. Per queste ragioni, occorre conclusivamente dichiarare l’inammissibilità
del ricorso proposto da Paolo Di Fiore, con la conseguente condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di
esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile
in 500,00 euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
Devono, invece, essere rigettati i ricorsi proposti nell’interesse di Pasquale di
Fiore e Giorgio Montanino, con la conseguente condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
14

dall’appellante, ma relativamente ai punti della decisione, cui i motivi di gravame

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di Paolo Di FiorelDichiar che condanna al
pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di 500,00 euro
alla Cassa delle ammende.
Rigetta i ricorsi di Pasquale Di Fiore e Giorgio Montanino e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 03/05/2016.

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