Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29219 del 14/03/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 29219 Anno 2016
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: FIDANZIA ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VUILLEUMIER MARK ARISTE N. IL 01/03/1942
avverso la sentenza n. 825/2012 CORTE APPELLO di SALERNO, del
25/03/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/03/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANDREA FIDANZIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
\

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 14/03/2016

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. Giovanni Di Leo ha concluso
chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso. L’avv. Andrea Ruggieri in sostituzione
dell’avv. Agostino De Caro si è riportato ai motivi del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 25 marzo 2014 la Corte d’Appello di Salerno ha
confermato la sentenza di primo grado con cui Vuilleumier Mark Ariste è stato condannato alla
pena di giustizia, quale amministratore della S.A.R. Società Alberghi Ravello s.r.I., dichiarata
fallita in data 1.12.2009, per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale .

affidandolo a due motivi.
2.1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione degli art. 223 e 216 L.F. in relazione
alla ritenuta configurabilità del capo c) della rubrica, la contraddittorietà ed illogicità della
motivazione, nonché il travisamento del fatto.
Lamenta il ricorrente che non vi è stato alcun negozio traslativo dell’azienda, essendo
stato stipulato un mero contratto di fitto per effetto del quale la società fallita ha conseguito
un risultato positivo, avendo l’affittuaria Hotel Palumbo s.r.l. pagato come corrispettivo la
somma di € 40.435 in data 31 gennaio 2009 ed € 40.546 in data 31 dicembre 2009.
Tale elemento probatorio è stato del tutto obliterato dalla Corte territoriale che non ha
rilevato che l’intervenuta compensazione ha estinto il debito che la fallita aveva nei confronti
della Hotel Palumbo s.r.l..
Inoltre, essendo il patrimonio mobiliare oggetto di fitto d’azienda venduto, non vi è stata
distrazione di azienda.
2.2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione degli art. 216, 223 L.F. in
relazione alla ritenuta configurabilità del capo d) della rubrica, la contraddittorietà ed illogicità
della motivazione.
Lamenta il ricorrente che il reato contestato richiederebbe la sussistenza di un nesso
eziologico tra la falsificazione dei bilanci ed il dissesto della società.
In ogni caso, i bilanci della SAR riportavano correttamente il residuo debito di € 49.000,00
per l’acquisto della partecipazione di € 300.000,00 effettuato nell’anno 2002 con contratto
preliminare.
2.3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 133,62 bis e 69 c.p., in
relazione al mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle
contestate aggravanti, nonché la violazione dell’art. 37 c.p. con riferimento alla durata della
pena accessoria, nonché contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
Le richieste del ricorrente in ordine al trattamento sanzionatorio, che si fondavano sulla
sua personalità e sul corretto comportamento processuale, erano state ingiustificatamente
disattese.
In ordine alla pena accessoria, veniva evidenziato che la sua durata dovrebbe essere
identica a quella della pena principale.

2. Con atto sottoscritto dal suo difensore ha proposto ricorso per cassazione l’imputato

CONSIDERATO IN DI RITTO
1. Il primo motivo è inammissibile.
Tutte le doglianze del ricorrente reiterano pedissequamente, senza alcuna effettiva
correlazione con la motivazione della sentenza impugnata, i motivi già dedotti con l’appello e
che la Corte territoriale ha specificamente valutato.
Va in proposito rammentato il principio di diritto secondo il quale la mancanza di specificità
del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma

quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del
giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, che comporta, a norma
dell’art. 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., l’inammissibilità (Sez. 5, n. 28011 del
15/02/2013 – dep. 26/06/2013, Samnnarco, Rv. 255568; Sez. 4, 18.9.1997 – 13.1.1998, n.
256, rv. 210157; Sez. 5, 27.1.2005 -25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Sez. 5, 12.12.1996, n.
3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).
Peraltro, la funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il
provvedimento cui si riferisce, che si realizza con la presentazione di motivi che, a pena di
inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare specificamente le ragioni di
diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.
E’ pertanto evidente che se il motivo di ricorso si limita – come nel caso in esame- a
riprodurre il motivo d’appello, viene meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e
ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il
provvedimento impugnato, invece di essere destinatario di specifica critica argomentata, è di
fatto del tutto ignorato (tra le tante, Sez. 5 n. 25559 del 15 giugno 2012, Pierantoni; Sez. 6 n.
22445 del 8 maggio 2009, p.m. in proc. Candita, rv 244181; Sez. 5 n. 11933 del 27 gennaio
2005, Giagnorio, rv. 231708).
Inoltre, le censure mosse dal ricorrente implicano valutazioni di fatto e si risolvono nella
sollecitazione ad una valutazione del materiale probatorio diversa da quella operata dal giudice
d’appello che è preclusa in sede di legittimità, non potendosi accedere ad una diversa lettura
dei dati processuali o ad una diversa interpretazione delle prove rispetto a quanto ritenuto dal
giudice di merito, perché è estraneo al giudizio dì questa Corte il controllo sulla correttezza
della motivazione in rapporto ai dati processuali (vedi motivazione Sez. 3, n. 357 del
15/11/2007 – dep. 08/01/2008, Bulica, Rv. 238696).
In particolare, nel caso di specie, il ricorrente ha reiterato in questa sede le doglianze già
svolte alle corrette ed esaustive argomentazioni dei giudici di merito, secondo cui l’affitto
d’azienda ideato dall’imputato ha rappresentato lo strumento per mantenere i debiti in capo
alla procedura concorsuale della società poi fallita e per consentire la prosecuzione dell’attività
d’impresa con una società appositamente costituita.
Vi è, in proposito, la prova documentale (bonifico) che la società fallita finanziò la
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anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e

costituzione della società affittuaria Hotel Palumbo s.r.l. e non consta che i canoni d’affitto
siano mai stati pagati. Peraltro, il reiterato assunto di parte ricorrente secondo cui il
corrispettivo del fitto sarebbe stato pagato dalla Palumbo s.r.l. in data 31 gennaio 2009 per €
40.435,92 ed in data 31 dicembre 2009 per € 40.546,82, già confutato dai giudici di merito e
senza che sia stata sul punto nemmeno eccepito il travisamento della prova (ma solo
inammissibilmente il travisamento del fatto), costituisce una censura di fatto, come tale
inammissibile.

bancarotta fraudolenta patrimoniale.
In proposito, secondo il costante insegnamento di questa Corte, il distacco del bene dal
patrimonio dell’imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in danno dei
creditori), in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato di bancarotta distrattiva, può
realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la
natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, nè l’eventuale possibilità di recupero
del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela. In
conseguenza di ciò, è stato ritenuto da questa Corte che costituisce condotta idonea ad
integrare un fatto distrattivo riconducibile all’area d’operatività della L. Fall., art. 216, comma
1, n. 1, l’affitto dei beni aziendali per un canone incongruo (Cass., n. 44891 del 9/10/2008),
specie se stipulato al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla
famiglia del titolare della società fallenda (49642 del 2/10/2009) o anche di altro soggetto
giuridico (n. 46508 del 27/11/2008), la conclusione di contratti (nella specie affitto di azienda)
privi di effettiva contropartita e preordinati ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori
(Cass., 10742 del 15/2/2008), il contratto di locazione di beni aziendali perfezionato nella
immediatezza della dichiarazione di fallimento senza la previsione di una clausola risolutiva
espressa da fare valere nel caso di imminente instaurarsi della procedura fallimentare (Cass.,
N. 7201 del 18/1/2006). In tutte le ipotesi sopra elencate, viene messo in pericolo l’oggetto
giuridico del reato è costituito dalla tutela dell’integrità del patrimonio del debitore in funzione
dell’interesse dei creditori.
E’, pertanto, del tutto irrilevante, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, che
l’azienda non sia stata trasferita con un atto traslativo ma sia stato solo oggetto di un contratto
di affitto. Premesso che per distrazione deve intendersi la destinazione di un bene a finalità
diverse dal raggiungimento degli scopi sociali, è evidente che l’affitto di un complesso
aziendale accompagnato dal mancato versamento dei canoni per tutta la sua durata integri
pienamente la fattispecie distrattiva, avendo l’amministratore privato la società di una risorsa
essenziale per il perseguimento dell’oggetto sociale senza neppure che a tale sacrificio
corrispondesse il beneficio del ricevimento di flussi finanziari derivanti dal pagamento di un
corrispettivo.
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Alla luce di tale ricostruzione, deve ritenersi pienamente integrata la fattispecie della

Né il ricorrente può neppure sostenere che il pagamento dei canoni sia avvenuto mediante
compensazione dei reciproci debiti-crediti avendo i giudici di merito ben evidenziato che tale
eventuale compensazione, in quanto successiva al fallimento, non fosse opponibile alla
curatela.
2. Il secondo motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata, come del resto quella di primo grado, ha argomentato
esaustivamente che le annotazioni in bilancio, da cui risulta che la società fallita avrebbe

dall’Immobiliare Ravello, sono false; non risulta, infatti, che tale acquisto sia mai stato
trascritto al registro delle imprese e neppure versata la caparra, non avendo il liquidatore
della S.A.R. nemmeno depositato il libro giornale della fallita da cui avrebbe potuto
ricavarsi l’effettiva movimentazione dei conti interessati da questa operazione.
E’, infine, manifestamente infondata l’affermazione secondo cui occorrerebbe la
sussistenza di un nesso di causalità tra la falsificazione del bilancio ed il dissesto
economico.
Deve ritenersi applicabile anche in tema di bancarotta documentale il principio, già
enunciato da questa Corte con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale,
secondo cui non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il
dissesto dell’impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti
fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche
quando l’insolvenza non si era ancora manifestata (Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Rv.
262741) .
3. Il terzo motivo è infondato.
Va preliminarmente osservato che la determinazione del trattamento sanzionatorio, la
concessione o meno delle attenuanti generiche, o il bilanciamento delle circostanze rientrano
nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve
essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa
l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6 n.
41365 del 28 ottobre 2010, Straface, rv 248737).
Nel caso di specie, la Corte di merito ha congruamente motivato il giudizio di equivalenza,
evidenziando che il ricorrente aveva già beneficiato della concessione delle attenuanti
generiche nonostante i suoi precedenti penali, né il suo comportamento processuale era stato
tale da giustificare la prevalenza.
Infine, la censura svolta in ordine alla durata della pena accessoria è infondata.
Va ribadito l’orientamento di questa Corte secondo cui la pena accessoria dell’inabilitazione
all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso
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acquistato partecipazioni societarie nella misura del 25% della DAVU s.r.l. e del 59,37 °A)

qualsiasi impresa prevista per il delitto di bancarotta fraudolenta ha la durata fissa ed
inderogabile di dieci anni, diversamente dalle pene accessorie previste per il reato di
bancarotta semplice, che devono essere commisurate alla durata della pena principale, in
quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all’art. 37 cod.
pen.. (v. Corte Cost. n. 134 del 2012). (Sez. 5, n. 15638 del 05/02/2015 – dep. 15/04/2015,
Assello, Rv. 263267).
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 2016
Il consigliere

nsore

Il Presidente

processuali.

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