Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29210 del 03/03/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 29210 Anno 2016
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: DE GREGORIO EDUARDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
TARANTO
nei confronti di:
DE CATALDO IMMACOLATA SABRINA N. IL 23/02/1977
avverso la sentenza n. 10/2014 GIUDICE DI PACE di MANDURIA,
del 07/04/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/03/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EDUARDO DE GREGORIO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. V
che ha concluso per

Udito, p

e civile, l’Avv

Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 03/03/2016

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, nella persona del dott. Cedrangolo , ha
concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 7 Aprile 2014, il Giudice di Pace di Manduria ha dichiarato non doversi
procedere, per intervenuta remissione di querela, nei confronti di De Cataldo Immacolata,

Il Giudice di Pace ha ritenuto che la mancata comparizione della persona offesa per due
udienze consecutive ed anche in seguito a notifica di ordinanza contenente specifico
avvertimento che la mancata comparizione potesse essere qualificata come manifestazione
tacita di voler rimettere la querela, costituisse valida remissione di querela.

2. Ha proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce, deducendo
la violazione di legge e sostenendo l’erronea applicazione dell’art. 152 cod. gen., poiché la
mancata comparizione in udienza deve ritenersi un comportamento processuale meramente
omissivo, al quale non è attribuibile alcuna valenza extraprocessuale e dal quale, pertanto, non
può essere desunta la remissione tacita della querela.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso non può essere accolto per i motivi di seguito indicati.

1. In primo luogo va rilevato che, come si evince dagli atti e dalla stessa sentenza in esame, il
Giudice di Pace, a fronte della constatata omessa comparizione della teste persona offesa
Andrisano

– querelante, ha disposto la notifica dell’ordinanza, contenente l’espresso

avvertimento che l’assenza nel prosieguo del giudizio avrebbe consentito di valutare tale
comportamento come remissione tacita della querela e conseguente accettazione della
remissione da parte dell’imputato, a sua volta rimasto contumace.

2. Ritiene questo Collegio che tale situazione processuale possa consentire nel caso in esame
un ripensamento dell’interpretazione giurisprudenziale che ha visto nella sentenza delle Sezioni
Unite n. 46088/2008 un arresto compositivo dei contrasti sino ad allora manifestatisi.
Si è affermato, infatti, che nel procedimento davanti al Giudice di Pace instaurato a seguito di
citazione disposta dal Pubblico Ministero, ex art. 20 D.Lgs. n. 274 del 2000, la mancata
comparizione del querelante – pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata
ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela – non costituisce fatto
incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai
tt,

2

imputato del reato di minaccia ed ingiuria nei confronti di Grande Patrizia.

sensi dell’art. 152, comma secondo, cod. pen. (Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, P.M. in proc.
Viele, Rv. 241357; massime precedenti conformi: n. 8372 del 2000 Rv. 217075; n. 12861 del
2005 Rv. 231688; n. 6771 del 2006 Rv. 234000; n. 28573 del 2007 Rv. 237100; massime
precedenti difformi: n. 31963 del 2001 Rv. 219714; n. 14063 del 2008 Rv. 239439; n. 20018
del 2008 Rv. 240167).
Spunti di riflessione ulteriori sono stati forniti dalla recente decisione delle Sezioni Unite,
secondo la quale, nel procedimento davanti al Giudice di Pace, dopo l’esercizio dell’azione
penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, ritualmente citata ancorché

quanto l’opposizione, prevista come condizione ostativa dall’art. 34 comma terzo D.Lgs. 28
agosto 2000, n. 274, deve essere necessariamente espressa e non può essere desunta da atti
o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di
volontà in tal senso (Sez. U, n. 43264 del 16/07/2015, P.G. in proc. Steger, Rv. 264547).
In tale pronunzia, nell’escludere che il principio di diritto appena riportato possa “collidere con
quanto affermato da Sez. U, n. 46088 del 2008, Viele, cit.”, si è detto che l’interpretazione cui
è approdata questa sentenza appare improntata “a estremo rigore nella definizione della
nozione di remissione extraprocessuale della querela, in una ipotesi di esplicito avvertimento
del giudice circa le conseguenze dì una mancata partecipazione al dibattimento”.

3. Ritiene allora questo Collegio di dover ribadire quanto rilevato dalla giurisprudenza secondo
la quale la mancata comparizione del querelante – previamente ed espressamente avvisato che
l’eventuale successiva assenza sarà interpretata come remissione tacita della querela – integra
gli estremi della remissione tacita, sempre che egli abbia personalmente ricevuto detto avviso,
non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di
perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta (in tal senso, tra le tante, Sez. 5, n.
14063 del 19/03/2008, P.G. in proc. Calza, Rv. 239439; Sez. 5, n. 31963 del 25/06/2001, PG
in proc. Pompei A., Rv. 219714).
E la convinta adesione a tale orientamento non può che partire da una riflessione sulle
caratteristiche del processo penale dinanzi al Giudice di Pace, come evincibili dal principio
generale sancito nell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 274/2000, improntato al c.d.

favor conciliativo tra le parti: “Nel corso del procedimento il giudice di pace deve favorire, per
quanto possibile, la conciliazione delle parti”.
Tale principio generale trova la sua ulteriore consacrazione nel comma quarto dell’art. 29
(norma dedicata all’udienza di comparizione), che, quando il reato è perseguibile a querela,
prevede che il Giudice di Pace debba promuovere la conciliazione tra le parti, finalizzata proprio
alla remissione di querela e alla relativa accettazione, contemplate nel comma quinto della
stessa norma.
D’altronde tutto l’impianto normativo del processo dinanzi al giudice di pace è caratterizzato da
istituti deflativi, c me quelli previsti dagli artt. 34 e 35 del decreto legislativo n. 274/2000.
3

irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di particolare tenuità del fatto, in

E’ del tutto evidente, allora, come sia legittimo riconoscere al Giudice di Pace la possibilità di
verificare la sussistenza di una volontà conciliativa anche derivante dall’inattività della persona
offesa nel coltivare l’intento di persistere nell’istanza punitiva, che può trovare conferma nella
mancata comparizione proprio nell’udienza fissata per esperire il tentativo di conciliazione ai
sensi della citata norma di cui all’art. 29.
E in tal senso va registrata una recente decisione di questa Corte, che ha ritenuto qualificabili
come remissione tacita della querela condotte assolutamente incompatibili con la volontà di
persistere nell’istanza punitiva, le quali “possono trovare solo conferma nella mancata

l’assegno consegnatole a titolo di risarcimento del danno e si era resa irreperibile, così da
mostrare il suo disinteresse al prosieguo del processo, non presentandosi alle udienze, benché
avvertita che la sua mancata presentazione sarebbe stata considerata remissione tacita di
querela (Sez. 4, n. 4059 del 12/12/2013, P.G. in proc. Lussana, Rv. 258437).
Peraltro, già prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 46088/2008 si era efficacemente
sostenuto che nel procedimento dinanzi al Giudice di Pace deve ritenersi tacitamente rimessa
la querela qualora la persona offesa non compaia all’udienza fissata per l’esperimento del
tentativo di conciliazione, dopo essere stata previamente e specificamente avvisata che la sua
assenza sarebbe stata interpretata in tal senso (Sez. 4, n. 20018 del 02/04/2008, P.G. in proc.
Aleci ed altro, Rv. 240167).
Si era, infatti, affermato che «l’omissione, al pari del silenzio, può anche essere qualcosa di
diverso dall’indistinto e dal neutro. Ciò accade quando tale condotta si colloca all’interno di una
sequenza nella quale essa è prevista ed assume un significato predefinito. Una situazione di
tale genere è prevista dalla disciplina del procedimento davanti al Giudice di pace: quando la
citazione a giudizio avviene su ricorso della persona offesa, la sua mancata presentazione
all’udienza equivale a remissione della querela, tranne che essa dimostri che tale condotta è
stata dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (artt. 27, 28, 30, 31). In tale ambito, dunque,
l’omissione (la mancata presentazione in udienza) costituisce un fatto da cui la legge desume,
con presunzione iuris et de iure, la remissione della querela. Si tratta di una procedura
estremamente rigida e rigorosa, ispirata senza dubbio da pressanti, evidenti esigenze di
economia processuale. È chiaro che uno strumento tanto intransigente non potrebbe essere
applicato analogicamente al di fuori dell’ambito in cui è previsto. Tuttavia occorre chiedersi se
la condotta omissiva non possa essere altrimenti procedimentalizzata in modo da dar luogo,
infine, ad una manifestazione di volontà che riguardi il permanere o meno della volontà di dar
corso al processo. Una indagine volta alla ricognizione della attuale volontà della persona
offesa, a ben vedere, si compie frequentemente nei giudizi di merito afferenti a reati
perseguibili a querela: il giudice, infatti, all’avvio del giudizio, interroga al riguardo
l’interessato. La stessa indagine, tuttavia, non può ritenersi preclusa nel caso in cui il
querelante non compaia. In tale frequente situazione non è irrazionale che il giudice esprima
nell’atto di citazione la domanda di cui si parla, con l’avvertenza che l’ingiustificata mancata
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comparizione in udienza della persona offesa”, in un caso in cui quest’ultima aveva negoziato

presentazione in udienza sarà considerata come manifestazione della volontà di rimettere la
querela. A tale ultimo riguardo, occorre in primo luogo rimarcare che nella situazione
descritta, per le ragioni che si sono prima accennate, non si è in presenza di una mera anodina
omissione, da qualificare induttivamente, indiziariamente, come manifestazione
extraprocessuale tacita di volontà; ma, al contrario, di una condotta che si colloca entro una
definita sequenza procedimentale e che dunque manifesta in modo predefinito ed esplicito
l’intento dell’interessato. Questi è preventivamente informato delle conseguenze del
comportamento omissivo e si trova quindi nella condizione di scegliere ed eventualmente di

radicale prevista nel giudizio davanti al giudice di pace; poiché la persona offesa è informata
del significato che si desumerà dalla sua condotta. La procedura indicata corrisponde a vistose
esigenze di razionalità ed economia processuale che, del resto, hanno ispirato la distinta
disciplina prevista nel giudizio davanti al giudice di pace. Né sembra di scorgere ostacoli di tipo
normativo alla sua utilizzazione. Infatti, escluso che si sia in presenza di una mera
manifestazione tacita di volontà, e rimarcato ulteriormente che qui la manifestazione
dell’intento è esplicita e procedimentalizzata, si scorge nella procedura ridetta semplicemente
un modo atipico di manifestazione dell’intento di remissione della querela, non incompatibile
con la procedura prevista dall’art. 340 cod. proc. pen. Nè vi sono ragioni per ritenere che la
remissione di cui si parla debba essere di necessità compiuta in modo sacramentale.

Al

contrario, ciò che sembra decisivo è che la volontà sia manifestata in modo che non lasci
spazio a dubbi. A tal fine occorre solo che l’avvertimento espresso dal giudice nell’atto di
citazione sia formulato con la massima chiarezza. Tale soluzione interpretativa corrisponde
anche al carattere negoziale dell’istituto della querela; e, come si è accennato, favorisce la
doverosa verifica in ordine all’attualità della volontà di perseguire la punizione dell’illecito»
(così in motivazione la citata sentenza Sez. 4, n. 20018 del 02/04/2008, P.G. in proc. Aleci ed
altro, Rv. 240167).

4. Insomma, occorre rivedere i termini della questione che concerne la qualificazione come

“remissione extra processuale” del comportamento del querelante che non compaia all’udienza
fissata per l’esperimento del tentativo di conciliazione ex art. 29 d.lgs n. 274/2000, sebbene
invitato a partecipare al processo ed espressamente avvisato del fatto che la sua mancata
presentazione, accompagnata dall’assenza di giustificazioni o chiarimenti al riguardo, possa
essere intesa come volontà di non persistere nella querela e quindi di dare esito positivo a
quella sequenza procedimentale prevista espressamente dal citato art. 29.
Giova infatti rimarcare che una delle peculiarità del procedimento dinanzi al Giudice di Pace
(cui sono stati attribuiti per competenza reati che sono considerati di “minore gravità”: art. 4
dlgs n. 274/2000) è data dal tentativo di conciliazione delle parti, che deve essere promosso
all’udienza di comparizione, quando si tratta di reati perseguibili a querela.
L’art. 29 del D.Igs. 274/2000 prevede inoltre che il Giudice possa rinviare l’udienza, purché per
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giustificare la mancata presentazione. Tale procedura è senza dubbio più elastica di quella

un periodo non superiore a due mesi, al fine di favorirlo. Se la conciliazione riesce, se ne redige
processo verbale che attesta la remissione di querela o la rinuncia al ricorso e la relativa
accettazione (comma quinto dell’art. 29).
Ecco allora che il comportamento della persona offesa e dell’imputato, che non compaiono alla
udienza fissata per la conciliazione e che sono stati espressamente avvertiti delle conseguenze
di tale mancata comparizione, può trovare la sua collocazione finale in quella sequenza
espressamente prevista nell’ambito del procedimento ovvero rinviene proprio in tale sequenza
una chiave di lettura inequivoca, come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella

Come è noto l’istituto della remissione della querela è disciplinato dall’art. 152 cod. pen., il
quale, dopo aver premesso – nel secondo comma – che “la remissione è processuale o
extraprocessuale”, prevede che “la remissione extraprocessuale è espressa o tacita” e che “vi è
remissione tacita quando il querelante ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di
persistere nella querela”. La remissione tacita, dunque, viene espressamente prevista solo
nella sua forma extraprocessuale e deve consistere, appunto, in fatti univocamente
incompatibili con la volontà di persistere nella richiesta di punizione.
La remissione “espressa” della querela, invece, è processuale ed extraprocessuale a seconda
che consista in dichiarazione resa, personalmente o a mezzo di procuratore speciale,
all’autorità giudiziaria procedente oppure ad un ufficiale di Polizia giudiziaria fuori del processo
e da questo trasmessa.
Si è affermato, condivísibilmente, che la qualifica di “extraprocessuale” si riferisce non già
all’essenza dell’atto o ai suoi effetti, bensì alla circostanza estrinseca dell’Autorità ricevente.
Si è poi affermato come sia indubbio che la remissione processuale, per la sua stessa natura,
possa essere solamente “espressa”. Così, le dichiarazioni rese dal querelante sentito come
teste dal giudice, con le quali esso neghi, in ipotesi, il fatto o cerchi di darne versione
favorevole all’imputato, non possono valere come remissione tacita, giacché esse costituiscono
il contenuto di specifiche e distinte attività processuali.
Il problema della remissione tacita è di converso un problema di fatto e di prova, giacché “i
fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela” (ex art. 152, comma secondo) non
possono che essere accertati volta per volta e considerati in rapporto ad ogni aspetto della
vicenda concreta e, indubbiamente, devono essere non equivoci, obiettivi e concludenti, cioè
tali da manifestare con chiarezza la incompatibilità tra essi e la volontà manifestata (così in
motivazione Sez. 5, n. 14063 del 19/03/2008, P.G. in proc. Calza, Rv. 239439).
Come evidenziato anche nella stessa sentenza delle Sezioni Unite n. 46088/2008, «la
giurisprudenza di questa Suprema Corte ha costantemente (e senza rinvenibile contrasto
alcuno) ritenuto che “la remissione tacita di querela deve consistere in una inequivoca
manifestazione di volontà, che si concreti in un comportamento del querelante, incompatibile
con la volontà di persistere nella querela”, e che non può ritenersi concretizzare siffatta
inequivoca volontà “la zrera omessa comparizione dello stesso all’udienza dibattimentale
6

querela.

relativa al processo pendente a carico del querelato” (così Sez. V, 27 ottobre 1999, n. 5191,
P.M. in proc. Zampieri,), chiarendosi (ibid.) che, “per aversi remissione tacita della querela la
manifestazione di volontà non deve essere equivoca e cioè il querelante deve compiere fatti
incompatibili con la volontà di persistere nella querela; deve, perciò, porre in essere fatti
comrnissivi, mentre la mera omessa comparizione all’udienza dibattimentale della persona
offesa dal reato è un fatto chiaramente equivoco che non rivela la volontà di rinunciare alla
punizione del querelato”; la mancata presentazione anche reiterata, al dibattimento è

potendo essere ricondotto ad altre ragioni ed essendo, comunque, privo del carattere della
univocità, non sorretta la circostanza “da alcun altro elemento idoneo all’interpretazione della
reale volontà maturata dall’interessato” (Sez. V. 24 settembre 1997, n. 9688, Chiaberge; Sez.
II, 8 ottobre 2003, n. 45632, P.G. in proc. Mazzoleni; Sez. V, 28 novembre 1997 n. 1452,
Panza; Sez. V, 19 dicembre 2005, n. 46808, Ilari; Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 34089, Coccia;
Sez. IV, 1 dicembre 2004, n. 5815, P.G. in proc. Marcoionni; Sez. VI, 29 gennaio 2003, n.
13620, P.G. in proc. Manzi; Sez. VI, 15 gennaio 2003, n. 7759, Sagace; Sez. V, 8 marzo 2000,
n.8372, Di Piazza). Nello stesso senso si era reiteratamente ed univocamente espressa anche
la giurisprudenza più risalente formatasi sotto il previgente codice di rito, per la quale la
remissione tacita della querela richiede pur sempre “la manifestazione non equivoca del
proposito di abbandonare l’istanza di punizione, in modo che si determini una vera e propria
inconciliabilità tra la volontà manifestata ed i fatti rivelatori di una volontà opposta, fatti che
debbono rispondere ai requisiti di inequivocità, obiettività e concludenza”, requisiti non
attribuibili alla mera omessa comparizione della persona offesa dal reato (Sez. II, 28 novembre
1985, n. 3390, Pellinghelli; Sez. VI, 4 dicembre 1985, n. 2915, Cantorelli; Sez. VI, 21 marzo
1973, n. 4382, Saluzzo; Sez. V, 1 marzo 1973, n. 3085, Greco; Sez. V 8 luglio 1983, n. 7936,
Gargiulo; Sez. V, 15 dicembre 1983, n. 3465, Manti; Sez. I, 12 ottobre 1977, n. 15673,
Fabbri). Può soggiungersi che tale principio è stato costantemente espresso da questa
Suprema Corte anche per quanto riguarda il processo attribuito alla competenza del giudice di
pace (Sez. V, 16 dicembre 2003, n. 2667, Pravato; Sez. V, 24 febbraio 2004, n. 15093,
Cataldo; Sez. V, 6 dicembre 2004, P.G. in proc. Cottone). Deve, dunque, ritenersi
definitivamente assodato che sul punto concernente la inidoneità della semplice omessa
presentazione del querelante nel processo a concretizzare la remissione tacita della querela
non sussiste alcun contrasto giurisprudenziale».
Si è però efficacemente affermato che diversa è l’ipotesi in cui il giudice del merito abbia
ritenuto – adeguatamente motivando – valutabile alla stregua di remissione tacita non già la
sola, ripetuta e mancata presentazione del querelante al dibattimento, “quanto piuttosto e
soprattutto la circostanza che, sebbene esplicitamente preavvertita delle conseguenze che si
sarebbero tratte da un perdurante atteggiamento di massima inerzia e quindi ben posta in
grado di valutarle appieno, la persona offesa ha ciononostante preferito di non assicurare la
propria reclamata presenza in giudizio”, senza nulla addurre, è bene precisarlo, riguardo alla

L-,

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“comportamento non necessariamente incompatibile con la volontà di persistere nella querela”,

sua volontà di persistere, o meno, nella pretesa punitiva (si veda in motivazione Sez. 5, n.
31963 del 25/06/2001, PG in proc. Pompei A., Rv. 219714).
Si è detto, infatti, che tale comportamento finisce per avere, nel suo complesso e in assenza di
elementi di segno contrario, “sicuro carattere di contraddizione logica alla volontà di ottenere
la punizione dell’imputato manifestata con la querela” (così sempre nella motivazione la
sentenza appena citata).
Insomma, si deve valutare sotto altro aspetto l’assunto di quella giurisprudenza secondo cui
mai un siffatto comportamento “inerte” potrebbe essere considerato remissione tacita: vuoi

suddetta conseguenza e perché, dunque, il giudice non può, illegittimamente, “disporre che un
comportamento obiettivamente non concludente tale diventi, imponendo all’interessato l’onere
di assumere un certo atteggiamento e stabilendo, al di là della previsione legislativa, che
quello contrario varrebbe a dimostrazione di una determinata volontà” (Sez. 5, n. 12861 del
15/02/2005, P.G. in proc. Marcangeli, Rv. 231688).
Con riferimento al primo aspetto, va osservato che è pur vero che l’inerzia del querelante e il
suo disinteresse al processo sono comportamenti o manifestazioni che si realizzano fuori dello
stesso processo e che si riverberano su di esso soltanto in quanto potenzialmente indicatori del
venir meno della volontà di conseguire la punizione del colpevole; tuttavia è anche vero che,
sebbene tali comportamenti non possano considerarsi “processuali” in senso stretto, a causa
dei loro effetti o della prova che di essi deve raccogliersi nel processo (pena la impossibilità di
predicare l’astratta configurabilità di qualsivoglia rimessione tacita extraprocessuale), in
conseguenza dell’avvertimento espresso dal Giudice di Pace nell’invito a comparire per
l’udienza di conciliazione, l’inerzia (ovvero il disinteresse per la prosecuzione del processo) del
querelante assume una connotazione di comportamento che – pur rimasto in sede
extraprocessuale – finisce per necessariamente riverberarsi nel processo.
In altri termini, «è la mancata collaborazione al processo (accusatorio e che vuole dunque
che la prova sia formata a dibattimento) e l’assenza della voce di chi dovrebbe dare corpo e
fondamento alla pretesa punitiva che consente di dubitare della persistenza di tale volontà […].
E discende dal principio di responsabilità, di cui si dirà di qui a poco, l’onere del querelante di
estendere, in caso di dubbio, la sua persistente volontà. Mentre l’invito del giudice non ha altra
funzione che quella di sollecitare un chiarimento al fine del perfezionamento della prova di fatti
dai quali pur sempre dipende l’applicazione di norme, sostanziali e processuali. Non può d’altro
canto dubitarsi che, consistendo la facoltà di remissione come quella di proporre querela,
espressione di un diritto soggettivo pubblico, ad esso corrisponde un dovere dello Stato,
giacché conferendo il diritto di remissione lo Stato pone per sè stesso l’obbligo d’astenersi dalla
persecuzione ove l’offeso manifesti il venir meno di tale interesse e non si opponga il
contrastante interesse del querelato a vedere affermata la propria innocenza. Ciò in ragione
degli stessi valori, o meglio dell’interesse complesso, per i quali l’esigenza della querela è
posta: l’economia della giustizia e l’interesse alla protezione del privato.» (così in
8
(4-

perché il querelante non ha l’obbligo di comparire e la legge non ricollega alla sua assenza la

motivazione la sentenza, già citata, Sez. 5, n. 14063 del 19/03/2008, P.G. in proc. Calza, Rv.
239439).
Si è altresì affermato condivisibilmente che «in termini più attuali potrebbe dirsi che la
previsione della remissione tacita risponde al principio di responsabilità: nel senso che non può
ammettersi che la pretesa punitiva dello Stato venga, costosamente, perseguita nonostante la
mancanza della persistente volontà di colui il quale ha dato vita alla condizione da cui la legge
fa dipendere la nascita di detta pretesa; ovvero, per quanto interessa, nei casi in cui il
querelante si disinteressi del processo da lui stesso sollecitato al punto di non offrire mai,

richiede» (così sempre in motivazione la sentenza, già citata, Sez. 5, n. 14063 del
19/03/2008).
Peraltro, proprio nello stesso ambito interpretativo (e valutando la posizione del soggetto in
danno del quale è stata formulata l’istanza punitiva) si è orientata la giurisprudenza secondo la
quale la mancata comparizione dell’imputato – previamente avvisato, con atto notificatogli
regolarmente, che la sua assenza all’udienza sarebbe stata considerata come tacita
accettazione dell’avvenuta remissione – assume l’inequivoca valenza di manifestazione della
volontà di accettazione della remissione, considerato che, ai fini dell’efficacia giuridica della
remissione di querela, non è indispensabile una esplicita e formale accettazione, cioè una
manifestazione positiva di volontà di accettazione, ma è sufficiente, ex art. 155, comma primo,
cod. pen., che non vi sia una ricusazione in forma espressa o tacita. Ne consegue che, in tal
caso, la remissione, non avendo l’imputato realizzato fatti o comportamenti incompatibili con la
volontà di accettare, ha determinato il tipico effetto estintivo del reato. (Sez. 5, n. 35900 del
24/06/2010, P.G. in proc. Cannata, Rv. 248427; si vedano anche Sez. 5, n. 7072 del
12/01/2011, P.G. in proc. Castillo, Rv. 249412; Sez. 5, n. 2776 del 18/11/2010, P.G. in proc.
Cassano, Rv. 249084; Sez. 5, n. 3359 del 11/11/2010, P.G. in proc. Navarro, Rv. 249411;
Sez. 5, n. 35620 del 27/05/2010, P.G. in proc. Apicella, Rv. 248884; Sez. 5, n. 19568 del
31/03/2010, P.M. in proc. Falcone, Rv. 247501; Sez. 5, n. 4229 del 09/12/2008, P.M. in proc.
Rv. 242951; Sez. 5, n. 4696 del 05/12/2008, P.G. in proc. Zatti, Rv. 242618).
Questo Collegio non ignora affatto la posizione assunta, anche dopo la sentenza delle Sezioni
Unite n. 46088/2008, da una parte della giurisprudenza di questa Corte la quale, nell’escludere
che nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal
P.M., ex art. 20 D.Lgs. n. 274 del 2000, la mancata comparizione del querelante – pur
previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della
remissione tacita della querela – costituisca fatto incompatibile con la volontà di persistere
nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell’art. 152, comma secondo, cod.
pen., ha ritenuto irrilevante “il principio di ragionevole durata del processo, il quale non può
tradursi nella previsione di oneri processuali, a carico delle parti, non ancorati a specifiche
disposizioni di legge” (Sez. 4, n. 18187 del 28/03/2013, P.G. in proc. De Luca, Rv. 255231; si
veda anche Sez. 2, n. 44709 del 29/10/2009, P.G. in proc. Santomaggio, Rv. 245632).
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neppure se personalmente ed espressamente invitato, l’indispensabile collaborazione che gli si

Si è precisato che «a chiamare in causa proprio l’esercizio della giurisdizione è il principio
della “ragionevole durata del processo”, fatto proprio nel nostro ordinamento dall’art. 111
Cost. (ancorché ne risulti ancora controversa la matrice, ovvero se esso debba essere inteso
quale espressione e funzione del diritto di difesa piuttosto che quale esigenza della
giurisdizione). Questa Corte ne ha indicato le funzionalità: esso va utilizzato dall’interprete sia
per valutare la resistenza costituzionale di norme esistenti e quindi, se del caso, per sollecitare
la dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione, sia nell’interpretazione della legge

però rimarcata la necessità di evitare che l’invocazione di tale principio possa tradursi nella
previsione di oneri processuali a carico delle parti non altrimenti ancorati a disposizioni di
legge, posto che in ogni caso tale principio assicura che il processo duri per il tempo necessario
a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa
(Corte cost. sent. n. 281 del 2010), mentre non permette una identificazione a priori della
durata ragionevole del processo. È possibile registrare, anche nella giurisprudenza di questa
Corte, una prospettiva interpretativa (non sempre esplicitamente dichiarata) che tende a
rimuovere ricostruzioni giuridiche indifferenti alle ricadute sulla ragionevole durata del
processo; ciò non di meno va ribadito, insieme ad attenta dottrina, che l’attuazione del
principio in parola è riservata al Parlamento. Con l’ulteriore corollario della ammissibilità di
interpretazioni orientate alla “implementazione” del principio solo in caso di lacuna normativa.
Pertanto, sino a quando sarà mancante la definizione normativa del processo di durata
ragionevole e la previsione di poteri giurisdizionali in grado di assicurare il conseguimento
dell’obiettivo, il principio in parola non può legittimare interpretazioni di discipline positive che
finiscono per comprimere l’esercizio di facoltà attribuite alle parti (anche alla persona offesa: il
rilievo che merita la posizione della vittima del reato nel processo penale non richiede ormai
particolare illustrazione); potrà invece fondare interpretazioni che, si ripete, intervengono a
colmare lacune normative» (così in motivazione, Sez. 4, n. 18187 del 28/03/2013, P.G. in
proc. De Luca, Rv. 255231).
Le argomentazioni di tale giurisprudenza sono in via astratta condivisibili, ma sembrano
trascurare quanto già sopra sottolineato, ovvero che nel procedimento penale dinanzi al
giudice di pace vige il principio generale del “favor conciliationis” che – in un sistema normativo
con ambito di competenza limitato a reati di minore gravità (alcuni, come per esempio
l’ingiuria, oggetto del recente intervento di depenalizzazione), non può che essere anche
espressione del principio di ragionevole durata del processo.
Peraltro, l’interpretazione cui si ritiene di accedere non incide affatto sulla tutela della persona
offesa, che può vedere soddisfatti i propri diritti in altra sede.

5. Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, può affermarsi il seguente principio di diritto:
« Tenuto conto del principio generale del favor conciliationis, cui è improntato il sistema
normativo che regola il procedimento penale dinanzi al Giudice di Pace, e che esso è collocabile

g

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(vd., da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 47878 del 19/07/2012, Sozzi, Rv. 254067). Ciò posto, va

nell’ambito del più ampio principio della ragionevole durata dei processi, la mancata
comparizione del querelante – previamente e chiaramente avvisato del fatto che l’eventuale
successiva assenza possa essere interpretata come volontà di non perseguire nell’istanza di
punizione – integra gli estremi della remissione tacita, sempre che lo stesso querelante abbia
personalmente ricevuto detto avviso, non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla
induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta».

P.Q.M.
Rigetta il ricorso del Procuratore Generale.
Deciso il 3.3 2016

Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato.

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