Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29123 del 16/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29123 Anno 2013
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Federico Paolucci, quale difensore di
Viesto Luigi (già Tavino Luigi n. il 22/07/1967), avverso la sentenza della
Corte di appello di Napoli, I Sezione penale, in data 29/09/2011.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Roberto
Aniello, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito l’Avvocato Federico Paolucci, quale difensore di Viesto Luigi (già
Tavino Luigi) — il quale conclude per l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 16/04/2013

OSSERVA:
Con sentenza del 05/03/2008, il G.I.P. del Tribunale di Avellino dichiarò
Viesto Luigi (già Tavino Luigi) responsabile del reato di estorsione aggravata
(capo A n. 6) della rubrica e — con la riduzione per la scelta del rito – lo
condannò alla pena di anni 6 di reclusione ed € 1.032,00 di multa.
d’appello di Napoli, con sentenza del 29/09/2011, confermò la decisione di
primo grado.
Ricorre per cessazione il difensore dell’imputato deducendo: l’erronea
qualificazione giuridica del fatto come estorsione perché manca del tutto
l’elemento costitutivo della minaccia; tutt’al più poteva ravvisarsi il reato di
truffa (perché l’assegno esitato era di illecita provenienza); carenza di
motivazione in ordine al concorso dell’imputato nel fatto commesso dai
coimputati; difetto di motivazione in relazione al diniego delle attenuanti
generiche e dell’attenuante del danno di speciale tenuità.
Il difensore del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.
Il difensore dell’imputato in data 03.04.2013 ha depositato in
Cancelleria motivi nuovi e aggiunti con i quali sottolinea la mancanza di
minacce e la mancanza di elementi probatori per ritenere il Viesto
concorrente nel reato. Reato che, tra l’altro, non sarebbe mai stato
contestato formalmente all’imputato, come emerge dalla lettura del capo di
imputazione.
In data 08.04.2013 — quindi fuori termine – perviene uno scritto
dell’imputato con il quale si evidenzia un motivo non collegato ai motivi di
ricorso e che, quindi, non può essere preso in considerazione.
motivi della decisione

Il motivo nuovo e aggiunto relativo all’omessa contestazione del fatto
all’imputato è manifestamente infondato. Invero, è sufficiente leggere il capo
di imputazione riportato nel foglio 2 della sentenza impugnata per rendersi
conto che l’intera condotta esposta nel capo A della rubrica è stata

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte

addebitata a tutti gli imputati (si legge infatti: IMPUTATI.. .Tutti..; all’interno
del predetto capo si specificano, poi, i nomi di ogni imputato). Si deve, inoltre,
osservare che il capo di imputazione è rimasto sempre quello di cui sopra e
non vi è stata alcuna contestazione di violazione dell’art. 521 c.p.p., prima
della presentazione dei motivi nuovi. In proposito si deve sottolineare che
questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio che la violazione del
principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullità a regime

intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può essere dedotta fino
alla deliberazione della sentenza nel grado successivo. Ne consegue che
detta violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede di
legittimità (Sez. 6, Sentenza n. 31436 del 12/07/2012 Ud. – dep. 01/08/2012 Rv. 253217). Anche se quanto sopra è già più che sufficiente per dichiarare
l’inammissibilità della doglianza, appare opportuno rilevare che il ricorrente si
è sempre difeso in primo e secondo grado su tutti í punti per il quale è stato
condannato. Pertanto non sarebbe, in ogni caso, ravvisabile alcuna
violazione dell’ad 521 cod. proc. penale. Infatti, questa Suprema Corte ha più
volte ribadito che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio
suddetto non va esaurita nel mero pedissequo confronto puramente letterale
fra imputazione e decisione perché, vedendosi in materia di garanzie e di
difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso
l’iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in
ordine al fatto ritenuto in sentenza (Sez. U, Sentenza n. 16 del 19/06/1996
Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205619; Sez. U, Sentenza n. 36551 del
15/07/2010 Ud. dep. 13/10/2010 – Rv. 248051). In particolare è stato
affermato da questa stessa sezione (Sez. 2, Sentenza n. 5329 del
15/03/2000 Ud. dep. 05/05/2000 – Rv. 215903; si vedano anche Sez. 6,
Sentenza n. 33077 del 11/06/2003 Ud. – dep. 05/08/2003 – Rv. 226532; Sez.
6, Sentenza n. 20118 del 26/02/2010 Ud. – dep. 26/05/2010 – Rv. 247330)
che, qualora venga dedotta la violazione del principio di necessaria
correlazione fra accusa contestata e sentenza, al fine di verificare se vi sia
stata una trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito, non soltanto va apprezzato in concreto se nella contestazione,
considerata nella sua interezza, non si rinvengano gli stessi elementi del fatto
costitutivo del reato ritenuto in sentenza, ma anche se una tale
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trasformazione, sostituzione o variazione abbia realmente inciso sul diritto di
difesa dell’imputato, e cioè se egli si sia trovato o meno nella condizione
concreta di potersi difendere.
li resto del ricorso (e dei motivi aggiunti) è inammissibile per violazione
dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., perché propone censure attinenti al
merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia —
come nel caso di specie – compatibile con il senso comune e con “i limiti di
una plausibile opinabilità di apprezzamento”,

secondo una formula

giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4^ sent. n. 47891 del 28.09.2004
dep. 10.12.2004 tv 230568; Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep.
31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep.
25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il resto del ricorso (e dei motivi aggiunti) è inammissibile anche
per violazione dell’art. 591 lettera c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod.
proc. pen., perché le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di
appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al
provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali
trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano, peraltro, immuni da vizi
logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non
contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la
responsabilità del ricorrente per il delitto di cui sopra (ad esempio: le
dichiarazioni delle P.O. ritenute, con motivazione accurata e incensurabile,
credibili e confortate, poi, dalle stesse dichiarazioni dell’imputato e degli altri
coimputati non ricorrenti; si vedano le pagine dell’impugnata sentenza da 4 a
6 per l’attenta analisi delle dichiarazioni delle P.O. e le pagine 6 e 7 per le
dichiarazioni di tutti gli imputati). La Corte fornisce, anche, una corretta
motivazione sulle lievi divergenze nel narrato delle P.O., e rileva, in modo
incensurabile, perché, comunque. non incidono sulla credibilità delle stesse
dichiarazioni e sulla ricostruzione degli accadimenti (si veda ad esempio
pagina 6 dell’impugnata sentenza). Inoltre la Corte di merito ben evidenzia in

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione

cosa sono consistite le minacce (si vedano ad esempio le pagine da 4 a 6
relative alle dichiarazioni delle P.O.) e perché nel caso di specie si deve
ravvisare l’estorsione consumata e non già la truffa (si vedano le pagine 7 e
8 dell’impugnata sentenza).
Manifestamente infondate sono tutte le doglianze relative al trattamento
sanzionatorio. Per quanto riguarda la congruità della pena la Corte di appello
rileva che è stata irrogata nel minimo edittale. In proposito questa Suprema

Corte ha più volte affermato il principio — condiviso dal Collegio – che la
determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale
rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il
suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell’art.
133 cod. pen. (quelli di cui sopra; Sez. 4, Sentenza n. 41702 del 20/09/2004
Ud. dep. 26/10/2004 – Rv. 230278). Inoltre, la specifica e dettagliata
motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se
la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale,
potendo altrimenti essere sufficiente a dare conto dell’impiego dei criteri di
cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa”
o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla
capacità a delinquere (Sez. 2, Sentenza n. 36245 del 26/06/2009 Ud. – dep.
18/09/2009 – Rv. 245596). Per quanto riguarda il diniego delle attenuanti
generiche si deve rilevare che la Corte territoriale valuta correttamente i vari
elementi fissati dall’articolo 133 del c.p. per la concessione delle predette
attenuanti. Questa suprema Corte ha più volte affermato che ai fini
dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis
cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 del codice
penale, ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo
sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento (nel caso
di specie i numerosi precedenti penali; si veda sul punto ad esempio Sez. 2,
Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691; Sez.
6, Sentenza n. 34364 del 16/06/2010 Ud. – dep. 23/09/2010 – Rv. 248244).
Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte — condivisi dal Collegio – ai
fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della
concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in
considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato essendo sufficiente
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che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla
legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle
circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Ad esempio in un caso posto
all’attenzione di questa Suprema Corte – che ha considerato corretta la
relativa motivazione – il giudice di merito aveva ritenuto che non potessero
concedersi le attenuanti generiche in relazione alla gravità del fatto e ai
11/01/1994 Ud. – dep. 31/03/1994 – Rv. 196880; Sez. 1, Sentenza n. 1666
del 11/12/1996 Ud. -dep. 21/02/1997 – Rv. 206936; Sez. 2, Sentenza n. 106
del 04/11/2009 Ud. dep. 07/01/2010 – Rv. 246045). Infine, ai fini della
concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice
può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod.
pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il
riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla
personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione
di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, Sentenza n. 3609 del
18/01/2011 Ud. dep. 01/02/2011 – Rv. 249163). Per quanto riguarda, infine,
il diniego dell’attenuante della speciale tenuità del danno si deve rilevare che
non risulta che il ricorrente abbia presentato tale doglianza con l’atto di
appello. Comunque la Corte territoriale nel motivare, sul punto, a pagina 8
(dove la Corte riferisce, appunto, che della mancata concessione di tale
attenuante si duole, del tutto genericamente, il Santoro) evidenzia
correttamente perché non può essere riconosciuta tale attenuante — sia per
l’entità dell’importo indebitamente conseguito, sia per gli effetti dannosi
provocati alle P.O. – richiamando anche (alle pagine 8 e 9) un consolidato
principio di questa Corte secondo il quale ai fini della configurabilità
dell’attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62, n. 4, cod. pen.) in
riferimento al delitto di estorsione, non è sufficiente che il bene mobile
sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche
gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata
esercitata la violenza o la minaccia, atteso che il delitto ha natura di reato
plurioffensivo perché lede non solo il patrimonio ma anche la libertà e
l’integrità fisica e morale aggredite per la realizzazione del profitto; ne
consegue che solo ove la valutazione complessiva del pregiudizio sia di

precedenti penali dell’imputato (Si veda Sez. 1, Sentenza n. 3772 del

speciale tenuità può farsi luogo all’applicazione dell’attenuante in questione
(Sez. 2, Sentenza n. 12456 del 04/03/2008 Ud. – dep. 20/03/2008 Rv.
239749; Sez. 2, Sentenza n. 19308 del 20/01/2010 Ud. dep. 20/05/2010 Rv. 247363).
A fronte di quanto sopra esposto, il difensore dell’imputato contrappone
solo generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle
argomentazioni della Corte di appello. In particolare non evidenzia alcuna

illogicità o contraddizione nella motivazione della Corte di appello allorchè
conferma la decisione del Tribunale. Si deve osservare che l’illogicità della
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso
di specie non si ravvisano). Inoltre, questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di
ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.
del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità — al pagamento a favore della Cassa delle ammende della
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti.

P.Q.M.

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Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 16/04/2013.

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