Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29120 del 16/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29120 Anno 2013
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Capobianco Gerardo (n. il 25/09/1965), avverso la
sentenza della Corte di appello di Potenza, Sezione penale, in data
03/02/2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano ‘asili°.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Roberto
Aniello, il quale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA:

Data Udienza: 16/04/2013

Con sentenza del 28/06/2010, il Tribunale di Melfi dichiarò Capobianco
Gerardo responsabile del reato di truffa aggravata e — con le attenuanti
generiche equivalenti alla contestata aggravante – lo condannò alla pena di
mesi 6 di reclusione ed € 51,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte
d’appello di Potenza, con sentenza del 03/02/2012, confermò la decisione di
primo grado.
Ricorre per cassazione l’imputato deducendo: la prescrizione del reato

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(la Corte di appello avrebbe errato nel calcolare il tempo di sospensione della
prescrizione); l’erronea qualificazione giuridica del reato per mancanza degli
artifizi e raggiri; la mancanza di motivazione in merito alla ritenuta
sussistenza del reato per il quale il Capobianco è stato condannato,
condanna che si fonda solo sulle dichiarazioni della P.O., senza che fossero
considerate le discrasie nel suo narrato che ne minano la credibilità;
travisamento del fatto (in particolare con riferimento al bonifico a suo favore
che sarebbe dovuto pervenire alla sua banca e ai presunti contatti tra il
Belsanti — funzionario del Banco di Napoli – e un impiegato della Banca 121);
omessa motivazione in ordine al diniego della richiesta rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale (escussione del teste Fortunato direttore del
Banco di Napoli filiale di Melfi) e per il diniego di riconoscere le attenuanti
generiche prevalenti sulla contestata aggravante.
Il ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata
sentenza.
motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Infatti, la Corte di
appello ha dichiarato infondata la richiesta di riconoscere prescritto il reato,
sul corretto presupposto di ritenere che i rinvii del dibattimento – disposti nel
procedimento – a seguito dell’adesione del difensore all’astensione collettiva
dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria, comportino la
sospensione del corso della prescrizione per tutto il periodo complessivo
della durata dei rinvii predetti. L’imputato contesta la validità di tale assunto
sulla base di una sentenza di questa Corte che in realtà afferma proprio il
condiviso principio di diritto seguito dalla Corte di merito. Infatti, nella
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predetta sentenza si ribadisce che in tema di prescrizione del reato, la
sospensione del procedimento e il rinvio o la sospensione del dibattimento
comportano la sospensione dei relativi termini ogni qualvolta siano disposti
per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e
sempre che l’una o l’altro non siano determinati da esigenze di acquisizione
della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa (in applicazione di
un procedimento per lesioni colpose, a seguito dell’adesione del difensore
all’astensione collettiva dalle udienze proclamata dall’associazione di
categoria, comportino la sospensione del corso della prescrizione per tutto il
periodo complessivo della durata dei rinvii predetti; Sez. U, Sentenza n. 1021
del 28/11/2001 Ud. – dep. 11/01/2002 – Rv. 220509). Ma anche la
Giurisprudenza di questa Corte successiva alla modifica della prescrizione avvenuta nel 2005 – conferma la validità del principio sopra evidenziato.
Infatti, ha ribadito che i limiti di durata della sospensione del corso della
prescrizione previsti dall’art. 159, comma primo, n. 3, cod. pen., nel testo
introdotto dall’art. 6 della L. 5 dicembre 2005 n. 251, operano soltanto
qualora il procedimento sia sospeso per impedimento delle parti o dei
difensori e non anche, quindi, quando la sospensione sia disposta in
adesione a richiesta non giustificata da un impedimento; ipotesi, quest’ultima,
da riconoscersi nel caso di sospensione dovuta a dichiarata adesione del
difensore all’astensione dalle udienze proclamata dalle associazioni di
categoria (Sez. 5, Sentenza n. 44924 del 14/11/2007 Ud. – dep. 03/12/2007 Rv. 237914). Nella motivazione della predetta sentenza si afferma che,
invero, l’art. 159 c.p.p., comma 1, n. 3, nel testo modificato dalla L. n. 251 del
2005, distingue, ai fini della sospensione del termine della prescrizione, tra
sospensioni del procedimento giustificate da impedimenti delle parti o dei
loro difensori e sospensioni del procedimento determinate da altre richieste
delle parti o dei loro difensori, prevedendo un limite alla durata della
sospensione del termine della prescrizione solo per il caso in cui il
procedimento sia sospeso per impedimento delle parti o dei loro difensori.
Sicché deve ritenersi che non vi siano limiti alla sospensione del termine
della prescrizione quando essa sia determinata da una sospensione del
procedimento su mera richiesta delle parti o dei loro difensori, non giustificata

tale principio, la Corte ha ritenuto che plurimi rinvii del dibattimento disposti in

da un impedimento; e che la richiesta di sospensione del procedimento per
adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dalle
associazioni di categoria non costituisca un impedimento, sebbene si fondi
su un’esigenza riconosciuta dal legislatore. Infatti, escluso che possa
determinare sospensione del termine della prescrizione la sospensione del
procedimento determinata “da esigenze di acquisizione della prova o dal
riconoscimento di un termine a difesa” (Cass., sez. un., 28 novembre 2001,

Cremonese, m. 220509), non vi sarebbe ragione di distinguere tra
sospensioni determinate da impedimenti e sospensioni determinate da mere
richieste, se non con riferimento all’esercizio di altri diritti estranei a quelli
attinenti alla difesa e al contraddittorio. E tra questi diritti non può non
annoverarsi quello riconosciuto ai difensori di astenersi dalle udienze (sono
conformi alla decisione di cui sopra — ex plurimis – le seguenti sentenze:
Sez. 3, Sentenza n. 4071 del 17/10/2007 Ud. – dep. 28/01/2008 – Rv.
238544; Sez. 2, Sentenza n. 20574 del 12/02/2008 Ud. – dep. 22/05/2008 Rv. 239890; Sez. 5, Sentenza n. 18071 del 08/02/2010 Ud. dep.
12/05/2010 – Rv. 247142; Sez. 2, Sentenza n. 17344 del 29/03/2011 Ud. dep. 05/05/2011 – Rv. 250076). Quindi il reato non era prescritto quando è
stata pronunziata la sentenza di secondo grado (03.02.2012), data alla quale
bisogna fare riferimento dovendosi dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
Inammissibilità che non consente il formarsi di un valido rapporto di
impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le
cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. maturate, nel
caso di specie, successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (il
15.07.2012; si veda fra le tante: Sez. 4, Sentenza n. 18641 del 20/01/2004
Ud. – dep. 22/04/2004 – Rv. 228349). E appena il caso di precisare che
quando si parla di sentenza di condanna non si deve far riferimento al
deposito della motivazione, bensì al momento della pronuncia della sentenza
di condanna, mediante lettura del dispositivo. È infatti incontrovertibile, in
generale, il principio di diritto che, al fine di individuare il momento nel quale
si produce l’interruzione della prescrizione del reato, occorre avere riguardo a
quello dell’emissione di uno degli atti indicati nell’art. 160 c.p. (ex plurimis
Sez., un. 16 marzo 1994, dep. 31 marzo 1994, dep. 3760, id. 28 ottobre
1998, dep. 18 dicembre 1998, n. 13390) e, con specifico riferimento, alla
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sentenza di condanna che l’interruzione della prescrizione opera al momento
della lettura del dispositivo – anche quando non sia data contestuale lettura
della motivazione – in quanto tale è il momento in cui si accerta la
responsabilità e si infligge la pena, e non in quello successivo del deposito
che serve, appunto, alla ulteriore comunicazione delle ragioni di condanna, a
fini processuali (Sez. 2, 20 ottobre 1980, dep. 3 dicembre 1980, n. 1283;
n. 31702 del 26/05/2008 Ud. – dep. 29/07/2008 – Rv. 240607).
Il resto del ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606, comma 1,
cod. proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia —
come nel caso di specie – compatibile con il senso comune e con “i limiti di
una plausibile opinabilità di apprezzamento”,

secondo una formula

giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4^ sent. n. 47891 del 28.09.2004
dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep.
31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep.
25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il resto del ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art.
591 lettera c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le
doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del
necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui
valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione,
si palesano, peraltro, immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di
merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione,
evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente
per il delitto di cui sopra (ad esempio: dichiarazioni della P.O. Parrini). La
Corte di appello — richiamando anche le motivazioni del Tribunale — dopo
aver evidenziato perché ritiene un “pregio” che la P.O. abbia in dibattimento
riferito i fatti in modo più preciso di quanto fatto in querela (si veda pagina 2
impugnata sentenza), ha correttamente rilevato le ragioni che fanno ritenere

Sez. 5, 4 novembre 2003, dep. 2 dicembre 2003, n. 46231; Sez. 6, Sentenza

perfettamente credibile la P.O. Parrini (che non si è neppure costituito RC.)
che è teste e non chiamante in correità; pertanto non sono certo necessari,
per le sue dichiarazioni, i riscontri esterni richiesti dall’articolo 192, III comma,
c.p.p., riscontri che nel caso di specie, comunque, ci sono. Infatti è
necessario solo accertare — come è avvenuto nell’impugnata sentenza – la
credibilità dello stesso (Si veda, fra le tante, Sez. 4, Sentenza n. 30422 del
in particolare, che la deposizione del teste Belsanti conferma la circostanza riferita dal Parrini – di aver ricevuto una telefonata da un sedicente
dipendente della Deutsche Bank che preavvisava l’arrivo di un bonifico in
favore dell’imputato. La Corte di merito spiega, in modo incensurabile, anche
perché alcune marginali divergenze nel narrato del teste (concernenti la
denominazione della Banca e il momento in cui ha informato il Parrini di
questa circostanza) non ne inficiano la valenza probatoria (si veda pagina 2
dell’impugnata sentenza). Si deve sottolineare che questa Suprema Corte ha
più volte affermato il principio secondo il quale la testimonianza della persona
offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile – come nel caso di specie costituisce una vera e propria fonte di prova, purché la relativa valutazione
sia sorretta da un’adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e
dei risultati acquisiti (Sez. 3, Sentenza n. 22848 del 27/03/2003 Ud. dep.
23/05/2003 – Rv. 225232; Sez. 6, Sentenza n. 27322 del 14/04/2008 Ud. dep. 04/07/2008 – Rv. 240524). Inoltre, si deve rilevare che in tema di prove,
la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una
questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di
legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni
(Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22/01/2008 Ud. dep. 25/02/2008 – Rv.
239342). Infine, la Corte territoriale nell’evidenziare perché ritiene sussistente
il reato di truffa sottolinea anche che il Capobianco “pur dopo l’emersione del
meccanismo fraudolento, pur ripetutamente richiesto dal Parrini” non ha mai

versato il prezzo delle auto prese dalla persona offesa. Il giudice di merito
rileva, in particolare, come l’assegno dato dal ricorrente alla P.O. per
estinguere il debito era stato tratto su un conto corrente bancario già estinto
(si veda sempre pagina 2 dell’impugnata sentenza). Questo assegno è

21/06/2005 Ud. dep. 10/08/2005 – Rv. 232018). La Corte territoriale rileva,

proprio quello di cui parla l’imputato a pagina 8 del ricorso, tacendo — però —
sulla circostanza evidenziata dalla Corte di appello che il conto su cui era
stato tratto l’assegno era già estinto.
Per quanto riguarda la doglianza relativa al diniego di rinnovare
l’istruzione dibattimentale appare opportuno ricordare che in relazione a tale
istituto questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio — condiviso
dell’istruzione dibattimentale in appello, il mancato accoglimento della
richiesta volta ad ottenere detta rinnovazione in tanto può essere censurato
in sede di legittimità in quanto risulti dimostrata, indipendentemente
dall’esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione
impugnata (si veda, invece, quanto afferma la Corte di appello sulla richiesta
– ex art. 603 c.p.p. – a pagina 3), la oggettiva necessità dell’adempimento in
questione e, quindi, l’erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente
ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di “decidere allo stato degli
atti”, come previsto dall’art. 603, comma 1, del codice di procedura penale.

Ciò significa che deve dimostrarsi l’esistenza, nell’apparato motivazionale
posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità,
ricavabili dal testo del medesimo provvedimento o da altri atti specificamente
indicati (come previsto dall’art. 606, comma 1, lett. E, c.p.p.) e concernenti
punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate
qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla
riassunzione di determinate prove in sede di appello. (Si vedano: Sez. 1,
Sentenza n. 9151 del 28/06/1999 Ud. – dep. 16/07/1999 – Rv. 213923; Sez.
5, Sentenza n. 12443 del 20/01/2005 Ud. – dep. 04/04/2005 – Rv. 231682).
Invece, come già detto, l’imputato si è limitato a generiche contestazioni a
quanto rilevato dalla Corte territoriale. Quanto sopra evidenzia ulteriormente
l’inammissibilità del ricorso, sul punto, trattandosi, chiaramente, di giudizio di
merito sottratto all’esame di questa Corte di legittimità se ben sorretto —
come è nel nostro caso — da un’adeguata motivazione.
A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di merito il ricorrente
contrappone, quindi, solo generiche contestazioni in fatto, con le quali, in
realtà, si propone solo una non consentita — in questa sede di legittimità —
diversa lettura del materiale probatorio raccolto e senza evidenziare alcuna

a

dal Collegio – che atteso il carattere eccezionale della rinnovazione

manifesta illogicità o contraddizione della motivazione. Inoltre, le censure del
ricorrente non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello. In
proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso
dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione
quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate
dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di
impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento

censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591,
comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda
fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv
230634).
Manifestamente infondata è anche la generica doglianza relativa al
diniego di ritenere le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante e sulla
ritenuta congruità della pena. Infatti la Corte territoriale — contrariamente a
quanto sostenuto nel ricorso a pagina 20 – ha evidenziato, con motivazione
incensurabile, tutte le ragioni che l’hanno portata alla decisione oggetto delle
odierne generiche doglianze (si veda in proposito pagina 3 dell’impugnata
sentenza).
In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio —
condiviso dal Collegio – che ai fini dell’applicabilità delle circostanze
attenuanti generiche (62 bis c.p.) e/o per il giudizio di comparazione di cui
all’art. 69 cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 del
codice penale, ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo
sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento (gravità del
fatto, precedenti penali dell’imputato; si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n.
2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691). Inoltre, la
determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale
rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il
suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell’art.
133 cod. pen. (quelli di cui sopra; Sez. 4, Sentenza n. 41702 del 20/09/2004
Ud. dep. 26/10/2004 – Rv. 230278). Si rileva, poi, che le valutazioni di
merito sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di
valutazione sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro

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da vizi logici, come nel caso di specie (Cass. pen. Sez. Un., 24 novembre
1999, Spina, 214794).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 16/04/2013.

inammissibilità — al pagamento a favore della Cassa delle ammende della

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