Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29108 del 04/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29108 Anno 2013
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Giuseppe Canzone, quale difensore di
Messina Antonio (n. il 20/02/1969) e Contino Antonio (n. il 07/08/1983),
avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, III Sezione penale, in
data 29/11/2011.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Nicola Lettieri,
il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito l’Avvocato Giuseppe Canzone — difensore dei ricorrenti — il quale ha
concluso per raccoglimento del ricorso.

UTh

Data Udienza: 04/04/2013

OSSERVA:

Con sentenza del 23/03/2011, il G.I.P. del Tribunale di Milano dichiarò
Messina Antonio e Contino Antonio responsabili del reato di tentata
estorsione aggravata (limitatamente all’episodio del 20.04.2010) e — con le
attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante e con la riduzione

400,00 di multa ciascuno.
Avverso tale pronunzia gli imputati proposero gravame. La Corte di
appello di Milano, con sentenza del 29/11/2011, in riforma dell’impugnata
sentenza ridusse la pena in quella di anni 1 e mesi 8 di reclusione ed €
400,00 di multa; confermò, nel resto, la decisione di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore degli imputati deducendo la
manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione perché dagli elementi
probatori raccolti non emerge né che i due ricorrenti fossero consapevoli
dell’effettiva funzione da loro svolta nella vicenda né l’ipotizzato
rafforzamento intimidatorio derivante dalla loro presenza. Secondo il
difensore i due imputati hanno svolto un ruolo marginale; a proposito del dolo
eventuale richiamato in sentenza evidenzia che i due al massimo possono
essersi raffigurati di essere stati chiamati per difendere il Mirante a fronte di
un’eventuale reazione della P.O. (Mazza). Il difensore dei ricorrenti rileva,
poi, la mancanza di motivazione in ordine alla doglianza con la quale si
evidenziava che i due imputati non avevano offerto alcun contributo
eziologico al compimento del reato commesso da altri e quindi non potevano
rispondere del reato di tentata estorsione.
Il difensore degli imputati conclude, pertanto, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Si deve preliminarmente rilevare che il difensore dei ricorrenti non
contesta che: i due imputati fossero nel luogo ove è stato commesso il fatto
(d’altronde sono stati arrestati in flagranza di reato dalla P.G.); la credibilità
dei coimputati che hanno chiamato in correità i ricorrenti; la circostanza che i

9Th

per la scelta del rito – li condannò alla pena di anni 2 di reclusione ed €

due imputati avessero partecipato all’azione per proteggere il coimputato
Mirante e intervenire nel caso di reazione della P.O. (Mazza), in
considerazione del comportamento da questi tenuto nel corso del precedente
incontro. E’ allora, evidente, l’infondatezza del ricorso. Infatti, entrambi i
giudici di merito hanno sottolineato che dalle dichiarazioni dei coimputati e
della P.O. (il cui contenuto non è stato contestato dal difensore dell’imputato,
emerge chiaramente il ruolo “difensivo” nei confronti del Mirante (si veda ad
esempio pagina 3 del ricorso) assunto consapevolmente da Messina e
Contino. In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato che in
tema di concorso di persone nel reato, anche la semplice presenza, purché
non meramente casuale, sul luogo della esecuzione del reato è sufficiente ad
integrare gli estremi della partecipazione criminosa, quante volte sia servita a
fornire all’autore del fatto stimolo all’azione o un maggiore senso di sicurezza
nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa.
(nella fattispecie, relativa al delitto di estorsione, la Corte ha specificato che
la presenza dell’imputato si era dimostrata cruciale e ripetuta, e certo non
casuale, proprio nei momenti di consumazione del crimine Sez. 2, Sentenza
n. 40420 del 08/10/2008 Cc. – dep. 29/10/2008 – Rv. 241871). Inoltre, in tema
di concorso di persone nel reato, anche la semplice presenza sul luogo
dell’esecuzione del reato, purché non meramente casuale, è sufficiente ad
integrare gli estremi della partecipazione criminosa, qualora sia servita —
come nel caso di specie – a fornire all’autore del reato un maggiore senso di
sicurezza, rivelando chiara adesione alla condotta delittuosa (Sez. 5,
Sentenza n. 26542 del 08/04/2009 Ud. – dep. 26/06/2009 – Rv. 244094).
Quindi è proprio al principio di cui sopra che si richiamano i Giudici di merito
che, correttamente, sottolineano che l’accettazione dei due imputati di
partecipare — insieme ad altri correi – all’incontro tra il Mirante e la P.O. e di
intervenire in caso di reazione della stessa P.O. abbia rafforzato il proposito
criminoso del Mirante. Pertanto, da quanto sopra, emerge chiaramente il
contributo eziologico dei due prevenuti. Erra, quindi, il difensore dei ricorrenti
quando insiste nel sottolineare che la P.O. a malapena si è accorto della
presenza di Messina e Contino; infatti ai predetti è stato contestato – ed è
stato, poi, ritenuto nelle sentenze di merito — di aver rafforzato il proposito

che ha, anzi, costruito il suo ricorso proprio sulla base di tali dichiarazioni)

criminoso del Mirante e non già di aver rafforzato l’effetto intimidatorio.
Quindi è chiaro perché sulla seconda doglianza del difensore dei ricorrenti
(l’aver la Corte territoriale omesso la motivazione sul fatto che i due imputati
non avrebbero offerto alcun contributo eziologico al compimento del reato
commesso da altri) non vi sia la necessità di ulteriore spiegazione, oltre a
quella esaustiva fornita dal Giudice di merito e di cui si è sopra detto. Infatti
adottata e pertanto non era neppure necessario che fosse confutata
esplicitamente (Sez. 4, Sentenza n. 1149 del 24/10/2005 Ud. – dep.
13/01/2006 – Rv. 233187). A tal proposito questa Suprema Corte ha, infatti,
più volte, affermato il principio — condiviso dal Collegio — che la regola della
“concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è
fondata”, enunciata dall’art. 546, comma primo, lettera e), cod. proc. pen.,
rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando nella motivazione il
giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che
sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie devono
considerarsi implicitamente disattese perché del tutto incompatibili con la
ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate.
(Sez. 4, Sentenza n. 36757 del 04/06/2004 Ud. dep. 17/09/2004 – Rv.
229688). In realtà, come si è già evidenziato, la Corte di appello ha fornito
invece una sufficiente e logica motivazione sulla questione.
Per quanto riguarda la doglianza relativa all’elemento psicologico, si
deve osservare che la Corte di appello ha ben sottolineato: che era pacifica
la conoscenza da parte degli imputati della “contesa di natura economica” tra
il Mazza e i loro correi (si veda, in proposito, anche pagina 4 del ricorso ove
si afferma che nel caso di specie “gli imputati abbiano potuto accettare il
rischio di commettere, al più, un’aggressione nell’ambito di un esercizio
arbitrario delle proprie ragioni”); e che i ricorrenti “erano coscienti di essere
parte di una squadra di persone più nutrita”. Orbene alla luce di quanto già
evidenziato, è chiaro che la Corte di appello ha affermato correttamente che i
prevenuti avessero accettato “il rischio della rilevanza penale dei fatti
complessivamente in corso”. Non si deve dimenticare, in proposito, che
questa Suprema Corte ha più volte affermato che integra il delitto di
estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la

(Ub

tale deduzione difensiva è logicamente incompatibile con la decisione

minaccia di esercitare un diritto, in sé non ingiusta, che sia realizzata con una
tale forza intimidatoria e con tale sistematica pervicacia da risultare
incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto stesso. (Sez. 2,
Sentenza n. 14440 del 15/02/2007 Ud. – dep. 05/04/2007 – Rv. 236457); ed
ha, ancora, ribadito che integra il delitto di estorsione, e non quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 cod. pen.), la condotta
specie all’incontro con la P.O. è andato un nutrito gruppo di persone, pronto
a tutto in caso di reazione della vittima) da andare al di là di ogni ragionevole
intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione
dell’altrui volontà assume “ex se” i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in
una condotta estorsiva (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato il
delitto di estorsione nelle reiterate minacce di morte rivolte dall’imputato alla
persona offesa, per indurla alla restituzione di un credito vantato da terzi;
Sez. 6, Sentenza n. 41365 del 28/10/2010 Ud. dep. 23/11/2010 – Rv.
248736).
Dunque il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, rigettato.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
rigetta il ricorso, gli imputati che lo hanno proposto devono essere
condannati al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.

Così deliberato in camera di consiglio, il 04/04/2013.

minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria (nel caso di

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