Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2904 del 05/04/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 2904 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di:
1. Bouqoffa Wadi, nato a Casablanca (Marocco)1’11/09/1981
2. Bouqoffa Rachid, nato a Casablanca (Marocco) il 24/11/1973
3. Boumediane Mohamed, nato in Marocco il 14/07/1980
4. Colaj Gjek, nato a Zagor Shkoder (Albania) il 28/03/1977
5. Doda Preng, nato a Zeza (Albania) il 23/03/1979

avverso la sentenza emessa il 05/10/2011 dalla Corte di appello di Milano

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Piéo Gaeta, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità di tutti i
ricorsi;
udito per il Boumediane l’Avv. Fabio Federico, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso presentato nell’interesse del suo assistito, e
l’annullamento della sentenza impugnata

Data Udienza: 05/04/2013

RITENUTO IN FATTO

1. lI 05/10/2011, la Corte di appello di Milano riformava parzialmente la
sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 08/06/2010, in forza
della quale gli imputati indicati in epigrafe erano stati condannati alla pena di
anni 17 di reclusione ciascuno per il delitto di sequestro di persona a scopo di
estorsione (in danno di Yassine Zari e Mouhamed Boulovha), nonché per il porto

tutti gli imputati dall’addebito in tema di armi, per insussistenza del fatto,
riconosceva ai medesimi le circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto
all’aggravante ex art. 112, comma primo, cod. pen., e – nei soli confronti di
Wadi Bouqoffa, Rachid Bouqoffa e Gjek Colaj – operava la diminuzione di pena
prevista per il rito abbreviato, immotivatamente negato in precedenza. Il
trattamento sanzionatorio era così rideterminato in anni 16 e mesi 8 di
reclusione per Mohamed Boumediane e Preng Doda, in anni 11, mesi 1 e giorni
10 di reclusione per gli altri imputati.
I fatti si riferiscono alla scomparsa di Yassine Zari, denunciata dai suoi
familiari nella giornata del 13/07/2009, quando gli stessi erano stati avvisati
telefonicamente da un loro congiunto (che si trovava in Marocco) del rapimento
dello Zari da parte di alcuni albanesi che reclamavano il pagamento di un debito
per una fornitura di stupefacenti. La vittima aveva appunto contattato quel suo
parente, pregandolo di raccogliere la somma di 30.000,00 euro per riottenere la
libertà, lasciando come recapiti due utenze cellulari, risultate poi in uso a Preng
Doda ed a Gjek Colaj (quest’ultima era anche a lui intestata): intercettando le
conversazioni ed analizzando le celle impegnate dal traffico telefonico su dette
utenze, gli inquirenti erano riusciti a localizzare un appartamento nella
disponibilità del Colaj, e monitorando i movimenti di chi vi entrava ed usciva
erano infine stati ritrovati sia lo Zari che Mouhamed Boulovha, nonché i cinque
imputati. Tutti costoro occupavano infatti due vetture che, viste entrare nel
cortile dello stabile in questione, si erano poi dirette verso Cassano d’Adda, e qui
erano state fermate dagli operanti.
Dalle successive acquisizioni istruttorie emergeva che lo Zari era stato
bloccato presso una discoteca gestita dai Bouqoffa, dove egli si era recato in
compagnia del fratello del Boulovha, tale Alal (riuscito invece a fuggire): lo Zari,
dietro minacce e percosse, era poi stato costretto a portarsi presso l’abitazione
dell’amico, e qui aveva chiamato Mouhamed Boulovha affinché uscisse di casa.
L’altro aveva aderito, ma subito era stato malmenato e sequestrato a sua volta,
con la partecipazione di tutti gli imputati e di due italiani rimasti non identificati

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e la detenzione di una pistola e di alcuni coltelli. La Corte territoriale assolveva

(l’aggressione trovava causa in pregressi debiti per una partita di droga non
pagata o forse sottratta a chi la deteneva).

2. Propone ricorso il difensore di Rachid e Wadi Bouqoffa, deducendo due
motivi dopo una premessa di ordine generale sulla contraddittorietà dell’impianto
della sentenza di appello rispetto a quella del Tribunale di Milano: osserva la
difesa, infatti, che mentre la pronuncia di primo grado si era soffermata sulla
decisività delle dichiarazioni rese dalle persone offese Zari e Boulovha,

sentenza oggetto di ricorso si dà atto che i verbali contenenti le predette
dichiarazioni non avrebbero dovuto essere acquisiti al fascicolo per il
dibattimento ex art. 512 del codice di rito, non di meno argomentandosi che il
coinvolgimento di tutti gli imputati nella vicenda sarebbe comunque provato, pur
senza tenere conto del narrato delle persone offese.
2.1 Con il primo motivo, la difesa dei Bouqoffa lamenta inosservanza ed
erronea applicazione dell’art. 630 cod. pen., nonché carenze ed illogicità
motivazionali della sentenza impugnata, con riguardo alla ritenuta sussistenza di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (nonché adeguatamente riscontrati)
a carico degli imputati. In particolare, il difensore evidenzia che le
intercettazioni telefoniche non avrebbero fatto emergere alcunché sul conto dei
suoi assistiti (avendo interessato soltanto i coimputati di etnia albanese),
rilevando che la presenza di questi ultimi in alcune fasi della vicenda era stata
del tutto occasionale ed incidentale, e senza che essi fossero portatori di
interessi personali.
2.2 Con il secondo motivo, si rappresentano identici vizi della motivazione
con riguardo alla mancata qualificazione giuridica dell’addebito ai sensi dell’art.
605 cod. pen., piuttosto che nella diversa e più grave fattispecie di sequestro di
persona a scopo di estorsione: ad avviso della difesa, a dispetto dei precedenti
giurisprudenziali richiamati dalla Corte territoriale, l’esame della problematica in
esame dovrebbe tenere conto delle diverse connotazioni del dolo fra le due
ipotesi delittuose (generico nel sequestro di persona, e specifico nel reato ex art.
630 cod. pen.), ed impostarsi «non tanto sulla presenza o meno di un pregresso
rapporto illecito tra i sequestratori e le vittime del reato, quanto sulla
configurabilità dell’elemento psicologico richiesto dalla norma di legge violata in
capo agli odierni ricorrenti». A riguardo, viene sottolineato che nessuna
emergenza istruttoria farebbe ipotizzare una consapevolezza dei due Bouqoffa
circa una prospettiva di dazioni di denaro, giacché l’argomento della somma da
pagare a titolo di riscatto era sempre ed unicamente stato trattato dai coimputati
albanesi, né risulta che i ricorrenti fossero comunque a conoscenza dei propositi

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segnatamente quanto alle posizioni dei due Bouqoffa, nella motivazione della

del Doda o del Colaj nel momento in cui le persone offese erano state private
della libertà.

3. Propone altresì ricorso, personalmente, il Boumediane, affidandolo a
quattro motivi.
3.1 II primo profilo di doglianza riguarda

– analogamente a quanto

lamentato nell’interesse dei Bouqoffa – la presunta mancanza, contraddittorietà
e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata sul piano della

violazione dell’art. 192 cod. proc. pen.
Anche il Boumediane segnala che vi sarebbe distonia fra il tenore della
sentenza del Tribunale e quella emessa all’esito del giudizio di secondo grado,
sottolineando a sua volta che sul proprio conto non sarebbero state acquisite
intercettazioni di sorta, né il primo denunciante (Omar Hadji, cognato dello Zari)
aveva comunque fatto il suo nome. Peraltro, l’imputato evidenzia di essere stato
sì presente con gli altri ricorrenti al momento dell’intervento delle forze
dell’ordine, ma trovandosi in auto in compagnia di Gjek Colaj e di Wadi Bouqoffa
(che era il suo datore di lavoro), mentre le due presunte vittime erano su una
vettura diversa

.

3.2 Il secondo motivo di ricorso è parimenti coincidente con l’ulteriore
censura mossa dal difensore dei Bouqoffa in punto di qualificazione giuridica
dell’addebito: oltre a ribadire la necessità di provare il dolo specifico in capo a
tutti gli imputati, e dunque di dimostrare che ciascuno fosse a conoscenza dei
rapporti preesistenti fra le vittime e coloro che avevano effettuato le forniture di
stupefacenti (o comunque della volontà di questi ultimi di ricavare un profitto
dalla restrizione della libertà dei primi), il Boumediane rappresenta che la Corte
milanese avrebbe solo genericamente indicato una sua ammissione in proposito,
avendo egli dichiarato di sapere che “si trattava di una vicenda di denari”. Dato,
questo, comunque contraddittorio visto che nella stessa sentenza tutte le
dichiarazioni del ricorrente erano state considerate inattendibili.
3.3 Con il terzo motivo, il Boumediane lamenta violazione del diritto di
difesa, invocando l’art. 24 Cost., quanto al mancato recupero della diminuzione
di pena prevista per il rito abbreviato. Il ricorrente precisa di avere, dopo la
notifica del decreto di giudizio immediato, instato per il rito speciale ex art. 438,
comma 5, cod. proc. pen. (condizionato all’escussione delle persone offese); alla
richiesta non aveva fatto seguito un formale provvedimento di rigetto da parte
del G.i.p. di cui il Boumediane avesse avuto notifica. Riproposta dinanzi al
Tribunale, l’istanza era stata nuovamente respinta ma solo sul presupposto che
non risultava essere stata prodotta quella prima ordinanza reiettiva. L’imputato

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ritenuta sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti, con conseguente

ritiene pertanto che «l’omessa rinnovazione della richiesta nell’atto di appello non
possa essere ostativa alla concessione della diminuente per la scelta del rito».
3.4 Con il quarto motivo, il ricorrente si duole di carenze motivazionali ed
erronea applicazione dell’art. 114 cod. pen., avendo la Corte di appello escluso la
circostanza attenuante ivi prevista sul solo presupposto che il reato risultava
essere stato commesso da cinque persone. Il Boumediane obietta che dagli atti
non emerge alcun accordo fra gli imputati, essendo egli legato soltanto ai
Bouqoffa quale dipendente ed avendo certamente arrecato un contributo del

previsto dal primo capoverso dell’art. 114 non dovrebbe valere nei casi di cui
all’art. 112, n. 1, dello stesso codice (come suggerito da parte della dottrina),
non potendosi giustificare un rapporto di proporzione diretta tra numero dei
concorrenti nel reato ed allarme sociale provocato dal reato medesimo.

4. Propone quindi ricorso anche il difensore di Gjek Colaj, che deduce tre
motivi.
4.1 Con il primo, lamenta inosservanza di norme processuali, con riferimento
agli artt. 191, 195 e 526 del codice di rito, censurando la decisione della Corte
territoriale di riconoscere valore probatorio alle dichiarazioni rese da Omar Hadji,
aventi invece carattere de relato, e dunque essendo «geneticamente riconducibili
al contenuto di atti che dallo stesso collegio sono stati dichiarati inutilizzabili». Il
ricorrente ricorda che le dichiarazioni delle persone offese erano state infatti
considerate non acquisibili ex art. 512 cod. proc. pen. da parte della Corte di
appello (diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale), ma sostiene che le
stesse determinazioni avrebbero dovuto essere assunte con riguardo al narrato
dell’Hadji, «in quanto persona venuta a conoscenza (indiretta) dei fatti proprio
attraverso informazioni ricevute da uno di tali soggetti, presunta parte offesa,
sottrattosi volontariamente al confronto processuale» (il cognato Yassine Zari,
tornato in Marocco e non più reperibile). Si tratterebbe, secondo la difesa, di
una ipotesi di inutilizzabilità “patologica”, rilevante sia in sede di giudizio
ordinario che in caso di rito abbreviato: con la conseguente esclusione di
elementi sicuramente decisivi a carico degli imputati, avendo i giudici milanesi
fondato la condanna degli stessi proprio sulle dichiarazioni dell’Hadji,
espressamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata.
4.2 Con il secondo motivo, la difesa del Colaj deduce un ulteriore error in
procedendo, nonché manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta
sussistenza del delitto ex art. 630 cod. pen., che avrebbe invece dovuto essere
riqualificato ai sensi degli artt. 605 e 610 cod. pen.; infatti, che il sequestro dello
Zari venne realizzato a causa di un debito che costui non aveva onorato venne

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tutto marginale alla realizzazione del sequestro; inoltre, rileva che il divieto

affermato dal suddetto Hadji a seguito di quel che il cognato gli aveva detto al
telefono, dato processualmente non utilizzabile per le ragioni esposte al punto
precedente. Non esisterebbe pertanto alcun elemento da cui inferire che nella
fattispecie concreta «si possa affermare in termini probatoriamente concludenti e
appaganti che il pretium liberationis debba ricondursi all’interno di un rapporto
certamente di natura illecita».
4.3 Con il terzo e ultimo motivo, il ricorrente rappresenta erronea
applicazione degli artt. 110 e 630 cod. pen., circa il ravvisato concorso del Colaj

più di ritenere l’imputato responsabile di favoreggiamento reale. A riguardo, nel
ricorso si riporta il tenore di alcune conversazioni telefoniche intercettate, da cui
risulta che l’Hadji aveva chiamato al telefono proprio il Colaj, presentandosi
come “il cognato”: l’imputato non aveva neppure capito di chi si trattasse, quindi
aveva invitato l’altro a chiamare semmai Rachid, dicendo che egli quella sera era
stato presente ma non aveva nulla a che fare con la vicenda; in seguito, lo
stesso Colaj aveva telefonato al suddetto Rachid, precisando che non intendeva
essere più chiamato e di non volerne sapere di quella storia. Comunque, sia il 13
che il 14 luglio il ricorrente era risultato occupato in altre incombenze, senza
contribuire al mantenimento in vinculis dei sequestrati e senza dimostrare di
essere a conoscenza dell’intento (nutrito da altri, non essendo certamente il
Colaj creditore di chicchessia per presunte ragioni illecite) di procurarsi un
ingiusto profitto quale prezzo per la liberazione delle persone offese.

5. Infine, propone ricorso il difensore di Preng Doda, a sua volta sviluppando
tre motivi di gravame.
5.1 Con il primo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 195, comma 3, cod.
proc. pen., conformemente a quanto lamentato dalla difesa del Colaj, in ordine
alla ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni di Omar Hadji anche nella parte in cui
il teste aveva riferito notizie apprese de relato (in particolare dallo Zari, vale a
dire da un soggetto che si era poi sottratto all’esame in contraddittorio e le cui
dichiarazioni erano state ritenute non acquisibili dalla stessa Corte territoriale).
5.2 Con il secondo motivo, nell’interesse del Doda si rappresenta
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 630 cod. pen., nonché carenze
motivazionali, quanto alla ritenuta sussistenza nella fattispecie concreta del
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. Riprendendo gli spunti
offerti dalla sentenza delle Sezioni Unite menzionata nel corpo della sentenza
oggetto di ricorso (n. 692 del 17/12/2003, ric. Huang Yunwen), il difensore
dell’imputato evidenzia che in detta pronuncia il massimo organo di nomofilachia
si era limitato a chiarire la nozione di ingiustizia del profitto, ribadendo

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nel reato ipotizzato, quando invece il materiale indiziario avrebbe consentito al

comunque la necessità della prova che l’agente abbia di mira il perseguimento
del profitto medesimo: prova che nel caso concreto non sarebbe stata offerta,
men che meno attraverso l’indicazione di un generico rapporto precedente di
natura illecita. Dal momento che la ratio della incriminazione ex art. 630 cod.
pen. si rinviene nella necessità di scongiurare che una persona diventi merce di
scambio per lo spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali, nella
vicenda in esame non vi sarebbero stati arricchimenti di tal fatta neppure
qualora il riscatto fosse stato pagato, atteso che i soggetti attivi avrebbero

precedente sottrazione di sostanze stupefacenti ad opera dei presunti
sequestrati. In altri termini, «il ripristino della situazione anteriore alla rapina,
unico obiettivo del sequestro di persona, non avrebbe determinato alcun
vantaggio, utilità, incremento, arricchimento o accrescimento della sfera
patrimoniale degli odierni imputati, i quali non avrebbero mai conseguito (né
volevano conseguire) alcun profitto, ma, al limite, avrebbero ottenuto la
restituito in integrum dello status quo ante»: ciò in un contesto ove la natura
illecita della pretesa creditoria può al massimo incidere sulla giustizia od
ingiustizia della stessa, non già sull’esistenza o meno del profitto.
Il difensore contesta poi la ricostruzione della Corte di appello circa la
ravvisabilità del dolo in capo al Doda, in particolare laddove si sostiene che egli quale dipendente del Bouqoffa – mirava quanto meno a compiacere il proprio
datore di lavoro: si tratterebbe in vero di elementi, al pari della circostanza che
fu l’imputato a richiedere telefonicamente all’Hadji la somma di 30.000,00 euro,
dimostrativi della consapevolezza del Doda in ordine al sequestro ed all’esistenza
di un prezzo fissato per la liberazione, ma che nulla dicono circa la comprensione
che l’imputato poté avere della natura “ingiusta” della prestazione.
5.3 n terzo motivo di ricorso è dedicato al tema della rimessione del Doda
nel termine per accedere al giudizio abbreviato, in ordine al quale la difesa
denuncia violazione dell’art. 175 cod. proc. pen. e mancanza di motivazione.
Il ricorrente chiarisce che nell’atto di appello era stata sollecitata la
restituzione nel termine dell’imputato, ai fini anzidetti, non avendo il Doda avuto
possibilità di interloquire in tempo utile con il difensore di fiducia nominato da
ultimo: la Corte territoriale non risulta avere dedicato spazio alcuno a tale
doglianza, che non avrebbe potuto intendersi manifestamente infondata. In
proposito, per evidenziare le lacune nell’assistenza tecnica prestata all’imputato
dal precedente difensore di ufficio, viene segnalato che il Doda era stato in
pratica giudicato allo stato degli atti – visto il consenso prestato dalle parti alla
produzione dell’intero fascicolo del P.M. – senza fruire della riduzione per il rito,
così determinandosi una «palese negligenza difensiva».

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ottenuto solo la reintegrazione del proprio patrimonio, depauperato dalla

5.4 II Doda, con atto scritto depositato presso la Casa Circondariale di Pavia
1’11/06/2012, ha sollecitato questa Corte ad un attento esame della sua
posizione, segnalando:
– di essere stato condannato in primo grado sulla base delle dichiarazioni rese
dalle persone offese, che nel corso delle indagini avevano offerto più versioni in
reciproco contrasto e che poi non era stato possibile esaminare in giudizio;
– che non erano state accolte istanze volte ad escutere testimoni a discarico, e
che i giudici non avevano voluto tenere conto delle dichiarazioni di Rachid

locale nel servizio d’ordine, e il Colaj, semplice cliente) erano estranei ai fatti;
– che lo stesso P.g. nel giudizio di appello aveva escluso si fosse trattato di un
sequestro di persona a scopo di estorsione, rilevando gli estremi di un
regolamento di conti;
– di non avere mai conosciuto i due marocchini, presunte vittime del sequestro;
– di essere stato assolto solo dall’addebito in tema di armi, mentre la ritenuta
inutilizzabilità delle dichiarazioni delle suddette parti offese avrebbe dovuto
comportare conclusioni liberatorie anche in ordine al reato ex art. 630 cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi non possono trovare accoglimento.

2. Quanto ai primi motivi di doglianza dei Bouqoffa e del Boumediane,
afferenti la gravità, precisione e concordanza degli indizi acquisiti a carico degli
imputati, è evidente che si tratta di censure in fatto, inammissibili in sede di
giudizio di legittimità. Non hanno peraltro rilievo concreto le osservazioni dei
ricorrenti a proposito della loro estraneità alle conversazioni telefoniche
intercettate, dal momento che la motivazione della sentenza impugnata chiarisce
in termini congrui e lineari

– del tutto immuni dai vizi di presunta

contraddittorietà od illogicità che le difese lamentano – come la dichiarazione di
penale responsabilità degli imputati derivi dalla loro diretta e palese
partecipazione alle condotte mediante le quali lo Zari ed il Boulovha erano stati
privati della libertà.
Wadi Bouqoffa e Mohamed Boumediane si trovavano infatti all’interno di una
“Land Rover” unitamente a Gjek Colaj, vale a dire il soggetto cui era riferibile
l’appartamento individuato in base alla localizzazione delle celle impegnate dalle
telefonate aventi ad oggetto le vicende del sequestro; quell’auto procedeva di
pari passo con una “Daewoo Matiz” a bordo della quale vi erano Rachid Bouqoffa,

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Bouqoffa, il quale aveva sostenuto che i due albanesi (il Doda, dipendente del

Preng Doda – a sua volta protagonista di alcune delle intercettazioni anzidette e le due vittime. Ineccepibile è altresì la considerazione dei giudici di appello,
secondo cui la presenza di Rachid Bouqoffa nelle fasi iniziali del sequestro
avrebbe anche potuto essere occasionale, essendo egli il titolare del locale
all’interno del quale lo Zari era stato sorpreso dai sequestratori: ma non vi è
alcuna spiegazione plausibile, alternativa rispetto alla tesi della partecipazione
diretta e consapevole al reato de quo, in grado di motivare la perdurante
presenza del Bouqoffa (come pure del di lui fratello e del Boumediane, che

24 ore dopo ed a notevole distanza dai luoghi dove il tutto aveva avuto inizio.
Ne deriva che parimenti corretta appare l’osservazione della Corte
territoriale secondo cui, ai fini della prova del sequestro, le dichiarazioni delle
persone offese potevano intendersi del tutto irrilevanti, ricavandosi aliunde gli
elementi per affermare la colpevolezza dei prevenuti.

3. Comune agli stessi ricorrenti (i Bouqoffa ed il Boumediane), nonché al
Doda, è altresì il motivo afferente la qualificazione giuridica dell’addebito
contestato al capo a), censura che – in diversa prospettiva, ipotizzando la
configurabilità di un reato di favoreggiamento, piuttosto che del delitto ex art.
605 cod. pen. – muove anche il difensore del Colaj.
A riguardo, va ricordato che secondo le Sezioni Unite di questa Corte «la
condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona
finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione
patrimoniale, pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integra il
reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. e
non il concorso del delitto di sequestro di persona (art. 605) con quello di
estorsione, consumata o tentata (artt. 629 e 56 stesso codice)» (Cass., Sez. U,
n. 962 del 17/12/2003, Huang Yunwen, Rv 226489). L’orientamento
interpretativo ora accennato risulta avere trovato costante conferma negli anni
successivi: v. in proposito Cass., Sez. V, n. 12762 del 22/03/2006, Maiani;
Cass., Sez. I, n. 16177 dell’11/02/2010, Adam; Cass., Sez. I, n. 17728 del
01/04/2010, Ruggeri.
Assolutamente insostenibile è pertanto la tesi esposta dalla difesa del Doda,
secondo cui non vi sarebbe profitto (prima ancora di porsi il quesito se si tratti di
profitto giusto od ingiusto) laddove il sequestratore non agisca per un
arricchimento in senso puramente matematico, volendo invece recuperare
l’integrità del proprio patrimonio, impoverito in precedenza quanto a beni od
utilità di carattere illecito: il solo rientrare nella disponibilità di quelle ricchezze,
od il riceverne l’equivalente in denaro, comporta ipso facto un accrescimento

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lavoravano rispettivamente come cassiere e cameriere nell’identico locale) oltre

della sfera patrimoniale del soggetto attivo, da considerare in relazione al
momento in cui la condotta interviene e non certo con riguardo a dimensioni
cronologiche antecedenti, essendo del tutto irrilevante se e perché quella sfera
patrimoniale possa avere subito pregresse diminuzioni. Chi abbia subito una
rapina ad opera di una coppia di soggetti, e poi sequestri uno di costoro volendo
indurre l’altro a corrispondergli una somma identica a quella a lui sottratta, si
rende infatti responsabile del delitto sanzionato dall’art. 630 cod. pen., non certo
di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

circa la presunta, mancata prova di una loro consapevolezza di richieste di
denaro ai familiari dello Zari. A tacer d’altro, deve rilevarsi che la sentenza
impugnata dà contezza delle seguenti circostanze:
sia Rachid Bouqoffa che il Boumediane avevano espressamente
dichiarato, in sede di interrogatorio, di sapere che per la liberazione dei
sequestrati erano state avanzate pretese in denaro (e la valutazione di
inattendibilità del Boumediane riguarda, come ben chiarito a pag. 13, le
circostanze da lui riferite circa le ragioni della sua presenza in compagnia
dei sequestrati e degli altri imputati al momento dell’arresto);
al Doda è addirittura riferibile la quantificazione concreta della somma
richiesta (30.000,00 euro), in un colloquio telefonico con Omar Hadji
segnalato a pag. 10 della motivazione, colloquio dove – a dispetto della
presunta ignoranza dell’imputato circa la natura ingiusta della pretesa – il
Doda ribatte all’interlocutore che non gli interessa se la sorella dello Zari
stia piangendo, né come la famiglia del sequestrato si sarebbe procurata
la somma;
il Colaj aveva sì esortato l’Hadji a rivolgersi al Bouqoffa, ma – dopo
essersi peraltro intrattenuto al telefono con il Doda comunicandogli che
uno dei due giovani aveva cercato di fuggire, dimostrandosi così
consapevole della necessità di contenere le loro persone – aveva
aggiunto l’invito a “mettersi a posto”, tanto che l’Hadji gli aveva replicato
di essere già riuscito a racimolare del denaro.

4. Infondato è altresì il quarto motivo di ricorso presentato dal Boumediane,
circa il mancato riconoscimento della circostanza ex art. 114 cod. pen.: il tenore
letterale del primo capoverso dell’articolo appena ricordato non consente infatti
distinzioni di sorta nell’ambito delle ipotesi previste dal precedente art. 112
(ricorrendo le quali, l’attenuante de qua non può comunque operare). La
giurisprudenza di legittimità ha financo chiarito che «in tema di concorso di
persone nel reato, la disposizione del secondo comma dell’art. 114 cod. pen.,

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Inconsistenti risultano poi le argomentazioni dei difensori di tutti i ricorrenti

secondo cui l’attenuante della minima partecipazione al fatto pluripersonale non
si applica quando ricorra una delle circostanze aggravanti delineate all’art. 112
stesso codice, e dunque quando il numero dei concorrenti sia pari o superiore a
cinque, si riferisce anche ai casi nei quali il numero delle persone concorrenti nel
reato sia posto a base di un aggravamento della pena in forza di disposizioni
specificamente riguardanti il reato stesso» (Cass., Sez. VI, n. 6250 del
17/10/2002, Emmanuello, Rv 225925, in tema di rapina commessa da “più
persone riunite”; v. anche Cass., Sez. III, n. 19096 del 19/04/2012, Jabonero, in

5. Sono da disattendere anche i motivi di ricorso sviluppati dai difensori del
Colaj e del Doda circa la presunta inutilizzabilità delle dichiarazioni di Omar
Hadji.
Innegabilmente, questi depose anche sul contenuto dei colloqui che ebbe al
telefono con il cognato, il quale gli riferì alcune circostanze inerenti il sequestro
di cui era rimasto vittima: va peraltro precisato che, contrariamente a quanto
dedotto nell’interesse del Colaj, non è solo dalla testimonianza dell’Hadji – ma
anche dal contenuto di alcuni interrogatori degli stessi imputati – che può
ricostruirsi la natura illecita dei rapporti fra lo Zari e coloro che lo privarono della
libertà. Deve comunque rilevarsi che l’Hadji rese dichiarazioni sul fatto storico
di aver ricevuto una telefonata dallo Zari (oltre ad eventuali contatti successivi
con il congiunto), dovendo conseguentemente spiegare perché, all’esito di quella
conversazione, intese rivolgersi alle forze dell’ordine e come poté rappresentare
agli investigatori gli elementi in base ai quali vennero intraprese le attività di
ricerca delle persone sequestrate: ergo, non ci si trova dinanzi al mero richiamo
ad altro soggetto quale fonte delle notizie sui fatti oggetto delle dichiarazioni.
Inoltre, e soprattutto, dalla ritenuta inutilizzabilità dei verbali a firma dello
Zari, a suo tempo acquisiti ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen., non poteva
derivare ex se la inutilizzabilità di qualsivoglia contributo testimoniale di chi
avesse indicato lo stesso Zari come colui dal quale aveva appreso date
informazioni: una dichiarazione de relato, infatti, diviene inutilizzabile soltanto se
vi sia formale richiesta – a cura della parte interessata – di chiamare a deporre
il teste di riferimento e non si provveda in tal senso, come prescrive l’art. 195,
comma 3, del codice di rito. Norma, quest’ultima, di cui i difensori del Colaj e
del Doda invocano la violazione, senza però documentare – né, quanto meno,
rappresentare – di avere sollecitato i giudici di merito a disporre la citazione
dello Zari: citazione che, a prescindere dalla più o meno già accertata
irreperibilità di quest’ultimo, avrebbe dovuto essere richiesta non solo in via

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ordine al disposto dell’art. 73, comma 6, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).

autonoma e principale, essendo lo Zari comunque teste e persona offesa, bensì
in vista della specifica prospettiva di offrire conferma al narrato dell’Hadji.

6. In ordine alla mancata riduzione di pena per il giudizio abbreviato, le
doglianze esposte nell’interesse del Boumediane e del Doda si rivelano
manifestamente infondate.
Il ricorso del primo si sofferma sulla circostanza che egli non avrebbe avuto
formale conoscenza di alcun provvedimento di rigetto della sua prima istanza di

che non possono assumere rilievo alcuno, in difetto di una specifica
impugnazione della sentenza di primo grado (anche) sotto il profilo in parola:
difetto che lo stesso Boumediane pacificamente ammette, sostenendo che al
trattamento premiale non avrebbe dovuto considerarsi ostativa «l’omessa
rinnovazione della richiesta nell’atto di appello».
La difesa del Doda sollecita invece, inammissibilmente, una restituzione nel
termine per accedere al rito abbreviato, rinnovando una istanza già formulata
con i motivi di appello e che sarebbe stata del tutto pretermessa dalla Corte
territoriale: come detto, deve però rilevarsi la manifesta infondatezza di quel
motivo di gravame, che legittimamente esonerava i giudici di secondo grado
dall’esaminare la questione proposta. A riprova della palese insostenibilità della
tesi difensiva, secondo cui la negligente assistenza tecnica prestata all’imputato
dal primo difensore avrebbe legittimato l’applicazione dell’istituto previsto
dall’art. 175 cod. proc. pen., va ricordato che per pacifica giurisprudenza di
legittimità non costituiscono ipotesi di caso fortuito o forza maggiore il mancato
o inesatto adempimento, da parte del difensore, dell’incarico di partecipare al
processo o di proporre impugnazione (v. Cass., Sez. IV, n. 20655 del
14/03/2012, Ferioli); l’impossibilità di ravvisare un ostacolo insormontabile al
corretto esercizio delle facoltà processuali, nella fattispecie concreta, è altresì
reso evidente dal rilievo che il ricorrente lamenta genericamente di non avere
avuto modo di confrontarsi “in tempo utile” con il proprio avvocato, senza
neppure addurre ragioni di sorta per giustificare come mai non fosse stato in
grado di provvedere più tempestivamente a nominare un difensore.

7. Il rigetto dei ricorsi comporta la condanna di ciascun imputato al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P. Q. M.

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rito speciale, comunque rinnovata dinanzi al Tribunale, ma si tratta di argomenti

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 05/04/2013.

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