Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2903 del 22/03/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 2903 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: MICHELI PAOLO

sui ricorsi proposti

dal Procuratore generale eilateepubblica presso la Corte di appello di
Ancona.

nell’inteéess’ètfi Venturato Antonio, nato a Treviso il 31/08/1958

avverso la sentenza emessa il 10/05/2011 dalla Corte di appello di Ancona
visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Mario Fraticelli, che ha concluso chiedendo:
– l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso
del P.M.;
– il rigetto del ricorso dell’imputato;
uditi per l’imputato ricorrente gli Avv.ti Alessandro Rampinelli e Giovanni Battista
Muscari Tomaioli, i quali hanno concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità,
in subordine il rigetto, del ricorso del Procuratore generale territoriale e
l’accoglimento del ricorso presentato nell’interesse del Venturato

Data Udienza: 22/03/2013

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Ancona, con la pronuncia indicata in epigrafe,
riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale di Ascoli Piceno il
23/12/2009 nei confronti di Antonio Venturato, condannato in primo grado alla
pena di anni 3 di reclusione per delitti di bancarotta correlati alla gestione della
Sambenedettese Calcio S.p.a., dichiarata fallita il 31/05/1995. All’esito del

imputato, la Corte territoriale dichiarava non doversi procedere a carico del
Venturato quanto al delitto di cui all’art. 223, comma secondo, legge fall., come
descritto nei capi da a) ad e) della rubrica, previa esclusione dell’aggravante
prevista dall’art. 219, comma primo, della stessa legge; ritenuta quindi la
prevalenza delle attenuanti generiche già concesse sulle contestate circostanze di
segno contrario, rideterminava la pena inflitta in anni 2 e mesi 6 di reclusione,
conseguentemente escludendo la pena accessoria ex art. 29 cod. pen.
1.1 Secondo la Corte, doveva disattendersi la doglianza difensiva
concernente la presunta inutilizzabilità di una perizia contabile disposta nel corso
del dibattimento, che non poteva intendersi in alcun modo viziata dalla
circostanza che l’indagine tecnica risultava essere stata compiuta anche su dati
probatori acquisiti direttamente dallo stesso perito: ciò in quanto la
legittimazione di quest’ultimo ad acquisire elementi su cui svolgere le proprie
valutazioni deriva direttamente dal codice di rito, ferma restando la possibilità
delle parti – sia attraverso i propri consulenti che al momento dell’esame in
contraddittorio – di interloquire in proposito. Né poteva censurarsi l’ordinanza
con cui il Tribunale aveva disposto, ex art. 507 cod. proc. pen., l’acquisizione
dell’intera documentazione contabile e bancaria versata nel fascicolo del P.M.,
non riguardando atti a contenuto dichiarativo assunti in via unilaterale e perciò
non richiedendosi un consenso di tutte le parti.
1.2 Sugli addebiti contestati nei capi da a) ad e), i giudici di appello davano
atto di aderire all’orientamento interpretativo secondo cui l’aggravante ad effetto
speciale di cui all’art. 219, comma primo, legge fall., non potrebbe intendersi
applicabile alle ipotesi criminose previste dall’art. 223, comma secondo, della
stessa legge: veniva in proposito richiamata, pur citando pronunce espressive di
esegesi contraria, anche posteriori, la sentenza di questa Sezione n. 8829 del
18/12/2009, ric. Truzzi.
Quanto invece alle contestazioni di bancarotta fraudolenta patrimoniale,
descritte nei capi g), h) ed i), la Corte territoriale condivideva le argomentazioni
di cui alla sentenza di primo grado, secondo le quali l’imputato si era reso

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giudizio di appello, celebrato a seguito di impugnazione proposta dal suddetto

responsabile di una «imponente attività distrattiva nell’utilizzo per finalità
extrasocietarie di risorse della società fallita. Condotta posta in essere, nella
maggior parte dei casi […], mediante emissione di assegni su conti correnti della
società ed utilizzati per finalità personali o comunque distraendo denaro dalle
casse sociali, facendo figurare (al fine di occultare tali distrazioni) uscite di
liquidità inesistenti». A riguardo, nella motivazione della sentenza si evocava la
giurisprudenza di legittimità circa:
– la possibilità di ritenere provata la distrazione dolosa di beni dei quali

destinazione a fini coerenti con le esigenze dell’impresa o società fallita, come
pure delle somme di denaro che avrebbero dovuto rinvenirsi;
– l’irrilevanza dell’assunto difensivo in base al quale l’imputato non avrebbe agito
con la volontà di cagionare il fallimento della società, non richiedendo la norma
incriminatrice ex artt. 216 e 223, comma primo, legge fall. (a differenza dalle
ipotesi previste dal capoverso di quest’ultima previsione) un nesso causale o
psichico tra la condotta sanzionata e il dissesto.
La Corte marchigiana, ancora in punto di bancarotta per distrazione,
riteneva altresì di confermare la ravvisabilità della ricordata aggravante in tema
di danno patrimoniale di rilevante gravità, avuto riguardo all’entità della
distrazione de qua – non di molto inferiore al miliardo di lire – ed all’epoca dei
fatti.
1.3 I giudici di appello accoglievano invece il motivo di gravame subordinato
afferente il bilanciamento fra circostanze di segno contrario, reputando che le già
concesse attenuanti generiche potessero intendersi prevalenti sulle opposte
aggravanti.

2. Avverso la sentenza suddetta ricorre il Procuratore generale presso la
Corte di appello di Ancona, deducendo due motivi.
2.1 Con il primo, il P.M. lamenta erronea applicazione dell’art. 219 legge
fall., segnalando che la circostanza di cui al primo comma della norma de qua
dovrebbe invece intendersi ravvisabile anche in ordine alle ipotesi di bancarotta
impropria contemplate dall’art. 223, comma secondo, come suggerito dalle
stesse Sezioni Unite di questa Corte nell’ambito della generale disamina della
disciplina della diversa aggravante ex art. 219, comma secondo, n. 1 (il P.g.
territoriale richiama la sentenza n. 21039 del 27/01/2011, ric. P.M. in proc. Loy).
2.2 Con il secondo, l’ufficio ricorrente rappresenta mancanza di motivazione
della sentenza impugnata con riguardo al giudizio di prevalenza delle attenuanti
ex art. 62-bis cod. pen. sulle opposte circostanze: pur prendendo atto di
orientamenti giurisprudenziali secondo cui non vi sarebbe necessità di una

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l’imprenditore o l’amministratore non risulti in grado di dimostrare una effettiva

congrua esposizione da parte del giudice di merito circa le ragioni a sostegno del
ritenuto bilanciamento ai sensi dell’art. 69 cod. pen., il P.g. segnala che nella
fattispecie concreta la Corte di appello di Ancona sarebbe incorsa in un vizio di
radicale carenza di motivazione, tale da integrare violazione di legge.

3. I difensori del Venturato propongono a loro volta ricorso, affidandolo a
quattro motivi.
3.1 Con il primo, nell’interesse dell’imputato si ribadiscono le doglianze già

corso del dibattimento di primo grado. A tal fine, viene evidenziato che il
Tribunale di Ascoli Piceno, nell’atto di autorizzare il perito a visionare i documenti
contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, aveva espressamente richiamato la
necessità del consenso della difesa, che tuttavia era stato negato: perciò, non
ricorrendo nel caso di specie i presupposti indicati dall’art. 493, comma 3, del
codice di rito, doveva intendersi esclusa la possibilità che atti non inseribili nel
fascicolo per il dibattimento lo diventassero in virtù di un autonomo potere di
acquisizione probatoria in capo al perito. In sostanza, si era peraltro verificato
– come direttamente esposto nella relazione peritale – che per dare risposta ai
quesiti il professionista incaricato aveva fondato le proprie valutazioni sul
contenuto dei processi verbali di constatazione curati dalla Guardia di Finanza in
sede di verifica fiscale, nonché su alcuni verbali di sommarie informazioni curati
nel corso delle indagini: e doveva senz’altro ritenersi che la perizia medesima,
«depurata di tutti i dati conoscitivi

(rectius, delle relative fonti di prova)

processualmente inutilizzabili in essa contenuti» fosse «assolutamente inidonea a
costituire prova sufficiente della responsabilità del signor Antonio Venturato».
3.2 Con il secondo e terzo motivo, trattati congiuntamente, la difesa
dell’imputato segnala che la Corte territoriale avrebbe contraddittoriamente
ritenuto applicabile al caso di specie la peculiare circostanza prevista dall’art.
219, comma secondo, n. 1 legge fall. (affermando al contempo che le plurime
violazioni ascritte al Venturato integrerebbero in ogni caso un reato unico di
bancarotta); inoltre, ed in ogni caso, avendo accolto il motivo di appello
concernente il giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti ed attenuanti,
i giudici anconetani non si sarebbero avveduti della conseguente necessità di
dichiarare la prescrizione – anche – degli addebiti di presunta bancarotta
fraudolenta patrimoniale contestati ai capi g), h) ed i). Infatti, tenendo conto
del tempus commissi delicti e considerando il testo dell’art. 157 cod. pen.,
previgente rispetto alle modifiche introdotte con la legge n. 251 del 2005,
sarebbe stato doveroso tenere conto della affermata prevalenza delle attenuanti
generiche, tale da comportare termini di prescrizione massima pari a 15

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esposte nel giudizio di appello in punto di inutilizzabilità della perizia svolta nel

(essendo il reato in parola sanzionato fino a 10 anni di reclusione, e
considerando una pur minima riduzione per attenuanti generiche): con il risultato
che avrebbe dovuto prendersi atto dell’ormai maturata estinzione degli addebiti

de quibus, a far data dal 30 novembre 2010.
3.3 Con l’ultimo motivo di ricorso, si lamenta erronea applicazione dell’art.
216, ultimo comma, legge fall., essendo stata applicata la pena accessoria ivi
prevista per la durata di anni 10, malgrado l’orientamento giurisprudenziale che la difesa manifesta di condividere, essendo una opposta interpretazione

dovrebbe essere determinata in misura corrispondente all’entità della pena
principale irrogata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Pubblico Ministero non può trovare accoglimento, dovendosi
prendere atto della comunque intervenuta prescrizione dei reati addebitati
all’imputato e per i quali la Corte di appello ha confermato la declaratoria di
penale responsabilità, conformemente a quanto dedotto dalla difesa del
Venturato nel terzo motivo di gravame.

2. Quanto al primo profilo di doglianza sviluppato dal P.g. territoriale, non
può in effetti aderirsi all’interpretazione fatta propria dalla Corte anconetana,
atteso che la più recente giurisprudenza di questa Sezione ha oramai superato
l’orientamento espresso con la sentenza Truzzi (n. 8829 del 18/12/2009),
menzionata nella pronuncia impugnata a sostegno degli argomenti esposti.
Si è infatti affermato, ritenendo la circostanza aggravante del danno
patrimoniale di rilevante gravità applicabile alle ipotesi di bancarotta impropria,
che per le condotte di cui all’art. 223, comma primo, legge fall., in ragione del
«rinvio formale ai fatti di bancarotta contemplati dalla legge fall., artt. 216 e 217
[…], è invero del tutto compatibile l’applicazione dell’aggravante (ad effetto
speciale) già prevista da queste disposizioni per le pene indicate in detti articoli.
E’, dunque, riscontrabile un’innegabile continuità prescrittiva del precetto penale,
senza indebita estensione dello stesso in pregiudizio del reo. Invece,
relativamente alle condotte che soltanto in forza della previsione della legge fall.,
art. 223, assumono rilievo penale, quali le previsioni di cui al comma 2, ai nn. 1
e 2 di detta norma, il discorso è più delicato. Ma […] un raccordo naturale tra la
norma incriminatrice e la statuizione della legge fall., art. 219, comma 1, è
costituito dall’inciso che rinvia alle “pene stabilite dall’art. 216”, inciso che si

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contraria al principio della c.d. “mobilità della pena” – secondo cui detta durata

coniuga con quella della legge fall., art. 219, disposizione quest’ultima che
richiama la prima. Pertanto, nel caso della violazione della legge fall., art. 216
(artt. 217 e 218), per la quale – quando il danno ai creditori è di rilevante gravità
– è contemplata sanzione aggravata nella misura speciale dettata dalla legge
fall., art. 219, non si ravvisa un incolmabile iato tra la fattispecie incriminatrice e
quella che configura le circostanze per la bancarotta “propria”, considerata la
espressa continuità nascente dal raccordo testuale delle previsioni. Assunto che
esclude l’inevitabile necessità di ricorrere ad interpretazione analogica,

dell’aggravante dettata dalla legge fall., art. 219, comma 2 – nel caso di pluralità
di fatti di bancarotta – estensivamente applicabile alla legge fall., art. 223,
perché foriera di un risultato più favorevole per l’autore dei plurimi fatti di reato,
rispetto al cumulo materiale dei reati o alla disciplina della continuazione ex art.
81 cpv. cod. pen.) e che ragionevolmente consente di equiparare il trattamento
sanzionatorio per la bancarotta impropria di cui alla legge fall., art. 223, comma
2, alla generale disciplina del reato. Per converso, diversamente opinando, si
perverrebbe ad un irragionevole esito sperequato a scapito dell’imprenditore
individuale, passibile di pena ben più severa (o dell’autore del comportamento
riconducibile all’art. 223, comma 1, nel suo richiamo alla legge fall., art. 216),
rispetto al trattamento disposto per il soggetto societario, astrattamente
responsabile di fatti che appaiono ben più gravi (si pensi al caso della causazione
volontaria del fallimento) o parimenti dannosi, il quale risulterebbe destinatario
della sola aggravante comune di cui all’art. 61 cod. pen., n. 7 (che impone
aumento di pena pari ad un terzo del massimo edittale), foriera di più lieve
trattamento repressivo» (Cass., Sez. V, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di
Risparmio di Rieti).
A identiche conclusioni è pervenuta una successiva pronuncia, secondo cui
«la diversa struttura del reato di bancarotta cd. “impropria” di cui alla legge fall.,
art. 223, rispetto alla fattispecie “propria” contemplata dal precedente art. 216,
non può condurre ad una indiscriminata preclusione verso l’applicazione
dell’aggravante di cui si discute; e ciò in quanto il primo comma del citato art.
223, contenendo un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dagli
artt. 216 e 217 della legge, rende compatibile l’applicazione dell’aggravante in
virtù del raccordo normativo tra la norma incriminatrice e la statuizione della
legge fall., art. 219 comma 1, costituito dall’inciso che rinvia alle “pene stabilite
dall’art. 216”: inciso che si coniuga con quello della legge fall., art. 219,
disposizione quest’ultima che richiama la prima» (Cass., Sez. V, n. 44933 del
26/09/2011, Pisani; nella pronuncia si ribadisce altresì che «la soluzione adottata
ha anche il pregio di evitare la disparità di trattamento che, diversamente

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inammissibile perché pregiudizievole per l’imputato (diversamente dal caso

opinando, si realizzerebbe a discapito dell’imprenditore individuale rispetto
all’amministratore di società, in rapporto ad illeciti di pari gravità se non più
gravi nel caso del soggetto societario: il che, sebbene non possa costituire il
criterio dominante nella ricostruzione della voluntas legis, vale comunque a
confortare l’esito interpretativo raggiunto»).
Meno significativo, in vero, può apparire il contributo delle Sezioni Unite
evocato dal P.g. territoriale, pure affermando la sentenza Loy – n. 21039 del
27/01/2011 – che «il richiamo contenuto nelle norme incriminatrici della

corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità
del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di
cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i
reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione,
ricorrendo

l’eadem ratio,

di differenziare la disciplina sanzionatoria».

L’aggravante sui generis analizzata in quella occasione era però quella prevista
dal comma secondo dell’art. 219, al n. 1), in tema di c.d. “continuazione
fallimentare”, e non a caso l’argomento fondamentale utilizzato dalle Sezioni
Unite per ritenere applicabile la norma ora ricordata anche ai casi previsti
dall’art. 223, comma secondo, legge fall. deriva dalla presa d’atto che si
tratterebbe di una disposizione favorevole all’imputato, consentendosene così
un’applicazione analogica in bonam partem: argomento, questo, certamente non
valido a proposito della circostanza fondata sulla particolare gravità del danno
patrimoniale che si assume cagionato.
Deve peraltro, e definitivamente, osservarsi che questa Sezione ha da ultimo
rilevato che «un’analisi limitata al rinvio contenuto nella legge fall., art. 219,
comma 1, indiscutibilmente riferito ai soli artt. 216, 217 e 218 della stessa
legge, è riduttiva. La complessità del sistema di rinvii esistente fra le norme
operanti nel caso di specie richiede infatti che detta analisi comprenda anche il
rinvio che lo stesso art. 223 […] fa all’art. 216; per effetto del quale le condotte
e le pene previste da quest’ultima norma sono richiamate per sancire
l’applicabilità delle seconde alle prime anche laddove le condotte siano realizzate
nell’ambito di società dichiarate fallite da amministratori o altri soggetti agli
stessi equiparati per la loro funzione gestionale. Il raffronto rende evidente la
diversità sostanziale delle due disposizioni di rinvio. La prima, infatti, opera
configurando per i fatti tipici previsti dalla legge fall., art. 216, oltre che per
quelli incriminati dagli artt. 217 e 218, la circostanza aggravante data dalla
rilevante gravità del danno; il rinvio svolge pertanto in questo caso una funzione
integrativa, sotto il profilo degli elementi accidentali del reato, delle fattispecie
criminose di cui alle norme richiamate. La seconda, invece, ricomprende nella

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bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le

fattispecie incriminatrice di cui all’art. 216 i fatti, corrispondenti alla stessa, posti
in essere nella gestione di società fallite da parte di soggetti della stessa
incaricati; ed ha in conseguenza una funzione estensiva dell’ambito di operatività
della stessa fattispecie-base del reato di bancarotta fraudolenta.
E’ partendo dal rinvio presente nell’art. 223 che deve dunque procedersi
nella costruzione della complessiva fattispecie della bancarotta impropria del
gestore di società. E l’integralità del richiamo contenuto nello stesso alla
fattispecie di cui all’art. 216 non può che intendersi come implicitamente riferito

aggravante della rilevanza del danno, introdotto in detta fattispecie dal rinvio
operato dall’art. 219, comma 1; norma che deve pertanto ritenersi anch’essa
indirettamente richiamata dall’art. 223, comma 1, come applicabile al reato di
bancarotta impropria ivi previsto […].
Elementi che si oppongano alle predette conclusioni non sono ravvisabili
nella recente pronuncia di questa Corte (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy,
Rv 249665) in ordine alla diversa aggravante di cui alla legge fall., art. 219,
comma 2, n. 1, costituita dalla commissione di una pluralità di condotte tipiche
del reato di bancarotta nell’ambito della stessa procedura fallimentare, ed
all’autonomia di dette condotte in una previsione strutturalmente improntata ad
un regime di cumulo giuridico pur se formalmente qualificata in termini
circostanziali; ed in particolare nei passaggi motivazionali nei quali detta
previsione aggravatrice viene ritenuta operante per i fatti di bancarotta
impropria di cui alla legge fall., art. 223, nonostante opposte indicazioni
suggerite dal dato letterale, in quanto sostanzialmente favorevole all’imputato
rispetto alle deteriori conseguenze sanzionatorie dell’ordinaria disciplina della
continuazione, con ciò […] intendendo a contrariis non applicabile ai fatti di cui
sopra l’aggravante del danno rilevante, meramente pregiudizievole per
l’imputato. La lettura integrale della motivazione della citata sentenza sul punto
(per la quale “è agevole osservare, in aderenza al consolidato orientamento di
questa Suprema Corte, che il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della
bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le
corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità
del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di
cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i
reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione,
ricorrendo

readem ratio,

di differenziare la disciplina sanzionatoria.

L’applicazione analogica della legge fall., art. 219, ai reati di bancarotta
impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole
all’imputato”) rende viceversa evidente come le Sezioni Unite abbiano

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anche all’elemento accidentale di quest’ultima, costituito dalla circostanza

puntualmente recepito i rilievi in precedenza esposti sull’inclusione, nell’oggetto
del rinvio posto dalla legge fall., art. 223, di tutte le componenti del trattamento
sanzionatorio della fattispecie della bancarotta fraudolenta, fra le quali non può
che comprendersi l’aggravante di cui si discute in questa sede, e sulla
sostanziale equiparazione normativa delle fattispecie della bancarotta propria e
di quella impropria, che rende irragionevole la limitazione alle prime
dell’operatività dell’aggravante in parola; puramente aggiuntivo dovendosi
intendere, nel complessivo articolato dell’argomentazione, l’ulteriore accenno al

della pluralità di fatti di bancarotta» (Cass., Sez. V, n. 10791 del 25/01/2012,
Bonomo).
Si tratta di argomentazioni che si muovono ancora nel solco del
superamento dell’interpretazione suggerita dalla sentenza Truzzi del 2009,
analizzando unitariamente i casi di bancarotta impropria ex art. 223 legge fall., e
che questa Corte ritiene di condividere e confermare pienamente.

3. Pur dovendosi ritenere l’erroneità dell’interpretazione adottata dalla Corte
di appello di Ancona sul punto appena esaminato, deve tuttavia evidenziarsi che
– malgrado l’aggravante del danno di rilevante entità debba applicarsi anche alle
ipotesi di bancarotta impropria ex art. 223, comma secondo, legge fall., e non
solo a quelle di bancarotta fraudolenta patrimoniale – il giudizio di prevalenza
delle attenuanti generiche sulle complessive aggravanti in rubrica impone di
prendere atto dell’intervenuta prescrizione di tutti gli addebiti.
3.1 Vero è che, proprio in ordine al bilanciamento operato ex art. 69 cod.
pen., vi è ricorso del Procuratore generale, ma non può che prendersi atto – in
parte qua

dell’inammissibilità del gravame. Infatti, il ricorso del Pubblico

Ministero si sofferma sulla presunta carenza di motivazione e sulla correlata
erronea applicazione della suddetta norma sostanziale, ma nulla dice sulle
conseguenze che da tale carenza o dall’ipotizzato errore sarebbero derivate al
fine di dimostrare il proprio interesse ad impugnare la decisione: non
rappresenta, in particolare, quali concreti elementi avrebbero dovuto essere
sottolineati al fine di orientare il giudice di merito ad una diversa valutazione nel
comparare le circostanze di segno contrario e giungere così ad un giudizio di sola
equivalenza. Né può ritenersi, per inciso, che il P.g. ricorrente abbia fatto
implicitamente riferimento e richiamo agli argomenti adottati in proposito dal
Tribunale di Ascoli Piceno (dal momento che il Pubblico Ministero non aveva
impugnato la sentenza di primo grado): la lettura della sentenza del Tribunale
dimostra chiaramente che quella ritenuta equivalenza era di fatto immotivata, né
più e né meno del diverso giudizio formulato dalla Corte di appello, avendo i

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favor rei che contraddistingue in concreto la particolare posizione della disciplina

primi giudici semplicemente affermato che il Venturato meritava – per pregressa
incensuratezza – «le attenuanti generiche, da ritenersi equivalenti alle
contestate aggravanti».
Ai sensi dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., e coerentemente alla già
consolidata interpretazione giurisprudenziale, va perciò ribadito che «è
inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso per cassazione proposto dal P.M.
[…] qualora si denunci, al fine di ottenere l’esatta applicazione della legge, la
violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale, senza indicare come

concretamente favorevole» (Cass., Sez. VI, n. 12722 del 12/02/2009, Lombardi
Stronati, Rv 243242).
3.2 A questo punto, il collegio rileva non esservi elementi di sorta da cui
poter inferire che l’aggravante di cui all’art. 219, comma primo, legge fall.,
ravvisata dalla Corte di appello solo con riguardo alla bancarotta per distrazione
e ritenuta minusvalente – al pari della distinta circostanza prevista dal comma
secondo, n. 1 – rispetto alle attenuanti generiche, sarebbe stata invece valutata
equivalente alle circostanze ex art. 62-bis cod. pen. ove considerata applicabile
anche agli ulteriori addebiti di bancarotta impropria contestati ai capi da a) ad
e). Del resto, è ragionevole ritenere che l’aggravante in parola assuma rilievo
di maggiore pregnanza proprio in relazione alle condotte da cui derivi un danno
patrimoniale immediato, come nel caso di fattispecie distrattive.
Dovendosi pertanto prendere atto della dichiarata prevalenza delle
attenuanti generiche, è necessario convenire con la difesa circa la oramai
intervenuta prescrizione (anche) degli addebiti di cui ai capi g), h) ed i).
Ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, si pone infatti un
problema peculiare di diritto transitorio solo laddove i nuovi termini di
prescrizione – introdotti in base alla legge ora ricordata – risultino più brevi
rispetto a quelli previgenti: in tal caso, anche all’esito della sentenza n. 393 del
2006 della Corte Costituzionale, detti termini di maggior favore si potranno
applicare solo laddove il processo non sia già pendente in grado di appello od
avanti a questa Corte. Non vi è invece alcuna deroga alla disciplina prevista
dall’art. 2 cod. pen. quando ad essere più brevi risultino in concreto i termini
anteriormente previsti, come stabilisce espressamente il comma 2 del medesimo
art. 10 (secondo cui le disposizioni dell’art. 6 – vale a dire la norma modificativa
dell’art. 157 cod. pen. – “non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso
se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti”).
Con l’attuale quadro di riferimento normativo, la bancarotta fraudolenta per
distrazione, anche nelle ipotesi richiamate dall’art. 223, comma primo, legge
fall., viene dunque a prescriversi nel termine massimo di 12 anni e 6 mesi,

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da tale rettificazione possa derivare per l’impugnante un risultato praticamente e

termine che si raddoppia – fino a 25 anni – ricorrendo l’aggravante del danno
patrimoniale di rilevante gravità (trattandosi di circostanza ad effetto speciale, di
cui l’art. 157, comma secondo, cod. pen., nel testo da ultimo modificato, impone
di tenere conto). I termini di prescrizione desumibili dall’art. 157, prima della
novella, erano invece pari a 22 anni e 6 mesi: anche il testo abrogato stabiliva la
necessità di considerare le aggravanti ad effetto speciale nella misura massima,
ma pure ipotizzando un massimo edittale di anni 20 di reclusione (ex artt. 216,
223, comma primo e 219, comma primo, legge fall.) il maturarsi della

comma primo, n. 2) cod. pen., da aumentare poi della metà.
Assume decisiva rilevanza, però, la previsione di cui all’abrogato art. 157,
comma terzo, cod. pen., secondo cui – nel caso di concorso di circostanze di
segno contrario – era necessario tenere conto del conseguente giudizio di
bilanciamento anche ai fini della prescrizione. E, come correttamente osservato
dai difensori del ricorrente, anche applicando la riduzione minima per attenuanti
generiche su una pena edittale – al più – pari a 10 anni, la norma cui fare
riferimento non avrebbe dovuto individuarsi nell’anzidetto art. 157, comma
primo, n. 2), bensì nel n. 3): con prescrizione ordinaria ridotta a 10 anni e
prescrizione massima da contenere in 15 anni. Non è chi non veda, pertanto,
come le norme anteriori risultino nel caso concreto di maggior favore per
l’imputato.
La prescrizione (anche) dei reati sub g), h) ed i) risulta pertanto maturata il
27/10/2010 (non già il 30 novembre, come segnalato dalla difesa del Venturato,
ma comunque anteriormente alla pronuncia di appello): ai 15 anni sopra indicati,
con decorrenza dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento (31/05/1995),
occorre infatti aggiungere 149 giorni di sospensione conseguenti a rinvii delle
udienze nel processo di primo grado.

4. Gli ulteriori motivi di gravame presentati nell’interesse del Venturato si
rivelano infondati, ed in ogni caso – in presenza di una causa di estinzione del
reato – le relative questioni perdono rilevanza, non ricorrendo certamente gli
estremi per poter affermare che la Corte di appello avrebbe dovuto applicare
l’istituto previsto dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.
4.1 In ordine alla presunta inutilizzabilità della perizia, le osservazioni della
Corte territoriale appaiono ineccepibili, risultando semmai erroneo l’avviso
espresso dal Tribunale di Ascoli Piceno circa la necessità del previo consenso
della difesa, affinché un perito possa dirsi autorizzato ad accedere agli atti
contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero. Questa Corte ha già avuto modo
di affermare che «il perito, oltre a richiedere direttamente notizie all’imputato,

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prescrizione ordinaria sarebbe rimasto fissato in 15 anni ai sensi dell’art. 157,

alla persona offesa o ad altro soggetto, può anche prendere visione di atti
processuali nei quali le predette notizie siano state già raccolte dal P.M. o dalla
polizia giudiziaria, a nulla rilevando l’eventuale divieto di inserimento degli atti
visionati nel fascicolo per il dibattimento» (Cass., Sez. IV, n. 5060 del
04/11/2009, Carcione, Rv 246638).
4.2 Il problema concernente la durata della pena accessoria applicata al
Venturato è da considerare oramai superato, alla luce dell’intervento del giudice
delle leggi.

contrasto interpretativo, con pronunce che avevano affermato – aderendo alla
tesi oggi prospettata dalla difesa – che «in tema di bancarotta fraudolenta
impropria, è illegittima la pena accessoria irrogata d’ufficio – in sede di
patteggiamento allargato – nella misura fissa di cinque anni, in applicazione
dell’art. 29 cod. pen., con riferimento all’interdizione dei pubblici uffici, e di anni
dieci, ai sensi dell’art. 216, ultimo comma, legge fall. con riferimento
all’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la
stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, in quanto
essendo la pena accessoria prevista per il delitto di bancarotta determinata dalla
legge soltanto nel massimo, la sua durata deve corrispondere, ai sensi dell’art.
37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta, nella specie di durata
inferiore» (Cass., Sez. V, n. 23720 del 31/03/2010, Travaini, Rv 247507);
ancora nel 2010, si era invece ritenuto che «in tema di bancarotta fraudolenta
impropria, è legittima la pena accessoria – irrogata in sede di patteggiamento dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ed all’incapacità di
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per dieci anni e, pertanto, nella
specie, in misura superiore a quella della pena principale inflitta, trattandosi di
pene accessorie la cui durata è fissata dal legislatore in misura predeterminata e
fissa e, quindi, a prescindere dalla durata della pena principale, con conseguente
inapplicabilità dell’art. 37 cod. pen.» (Cass., Sez. V, n. 269 del 10/11/2010,
Marianella, Rv 249500).
Alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, comma quarto, legge
fall., sollevata da questa Corte e dalla Corte di appello di Trieste nel 2011,
faceva quindi seguito la declaratoria di inammissibilità da parte della Corte
Costituzionale (sentenza n. 134/2012): confermando l’interpretazione più
rigorosa, secondo cui la legge impone una predeterminazione della pena
accessoria in misura fissa, la Corte stessa ha osservato che la soluzione di
calibrare l’entità di quella sanzione sulla durata di quella principale, sollecitata
nelle ordinanze di rimessione, «è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in
caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere

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Nella giurisprudenza di questa stessa Sezione si era infatti registrato un

una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da
cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto
all’entità della pena detentiva. Risulta evidente che l’addizione normativa
richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente
obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte
affidate alla discrezionalità del legislatore».

Rigetta il ricorso del Procuratore generale; annulla senza rinvio la sentenza
impugnata con riguardo ai reati per cui è intervenuta condanna [capi g), h) ed
i)], perché estinti per prescrizione.

Così deciso il 22/03/2013.

P. Q. M.

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