Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28769 del 15/06/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28769 Anno 2016
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Pinna Antonio Massimo Maurizio, nato a Sassari il giorno 8/10/1963;
avverso la sentenza n. 3447/14 in data 24/10/2014 della Corte di Appello di
Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Marco Maria Alma;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Alfredo
Pompeo Viola, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO

Con sentenza in data 24 ottobre 2014 la Corte di Appello di Bologna, in parziale
riforma della sentenza del Giudice per le indagini preliminari presso il locale
Tribunale in data 7 novembre 2013, ha escluso la circostanza aggravante della
premeditazione contestata al capo D) della rubrica delle imputazioni, confermando
nel resto la sentenza impugnata con la quale Antonio Massimo Maurizio Pinna era
stato dichiarato colpevole dei reati di estorsione e tentata estorsione continuata ai
danni del fratello Luciano Pinna e del padre Francesco Pinna (capo A), di rapina e di
lesioni volontarie aggravate ai danni del solo Luciano Pinna (capi C e D) e, previa
concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 62 n. 4
cod. pen., operata la riduzione per il rito abbreviato, condannato a pena ritenuta di
giustizia.

Data Udienza: 15/06/2016

Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato,
deducendo:

1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e) cod. proc.
pen. in relazione agli artt. 393 e 629 cod. pen.
Rileva al riguardo parte ricorrente che i fatti-reato in contestazione al capo A)
della rubrica delle imputazioni avrebbero dovuto essere riqualificati come violazione
dell’art. 393 cod. pen. in relazione all’elemento psicologico che ha condotto l’azione

madre (Libera Bani) al fine di recuperare la somme di 7.000,00 C custodita dalla
moglie del fratello Luciano Pinna, e che non le era stata restituita al momento in cui
ebbe a richiederla alla nuora.

2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e) cod. proc.
pen. in relazione agli artt. 393 e 628 cod. pen.
Rileva al riguardo parte ricorrente che anche il reato di rapina contestato al
capo C) della rubrica delle imputazioni avrebbe dovuto essere derubricato in quello
di cui all’art. 393 cod. pen. atteso che la condotta tenuta dall’imputato è stata
originata da una controversia sorta con il fratello finalizzata all’ottenimento di una
retribuzione lavorativa non corrispostagli ed a tutelare la posizione societaria della
propria compagna.
A ciò si aggiunge il fatto, sempre secondo la difesa del ricorrente, che il
proposito di sottrarre l’orologio alla persona offesa sarebbe sorto solo dopo
l’attuazione della violenza il che non consentirebbe di ricondurre la fattispecie né
alla rapina propria né a quella impropria ed inciderebbe anche sull’elemento
soggettivo del reato non essendo provato il dolo specifico di impossessamento del
bene.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va detto subito che non è in contestazione la materiale condotta tenuta
dell’imputato (che di fatto è confesso) ma solo la qualificazione giuridica di fatti
essendo emerso dagli atti processuali che l’azione dallo stesso era asseritamente
finalizzata al recupero di un credito vantato dalla di lui madre nei confronti del figlio
Luciano in relazione ad una somma di denaro di 7.000,00 C che la Bani aveva
materialmente consegnato alla nuora (moglie di Luciano) affinché la depositasse in
banca su di un proprio conto con facoltà di farne uso in caso di necessità.

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dell’imputato essendo emerso che lo stesso agì su richiesta e nell’interesse della

Poiché peraltro era sorta la necessità per la Bani di reperire una nuova
sistemazione abitativa, la donna aveva raggiunto un accordo con il marito
(Francesco Pinna) affinché quest’ultimo provvedesse al conseguente impegno
economico.
Francesco Pinna non mantenne però tale impegno verso la moglie e ciò destò
l’ira dell’odierno imputato che lo portò al compimento dei fatti-reato sintetizzati nel
capo A) della rubrica delle imputazioni.
Alla luce di quanto accertato in fatto (ed a dir del vero neppure contestato in

l’inesistenza di qualsivoglia ragione creditoria della Bani nei confronti del figlio
Luciano e, dall’altro, l’assenza di qualsivoglia mandato della Bani all’odierno
imputato per il recupero del denaro in precedenza consegnato alla nuora.
Premesso quanto accertato in fatto dai Giudici di merito (e non sindacabile in
questa), il Collegio ritiene che sia assolutamente corretta l’osservazione della Corte
distrettuale che ha relegato l’azione dell’imputato ad un’iniziativa del tutto
autonoma tale da escludere in radice la possibilità di configurare a carico dello
stesso il reato di cui all’art. 393 cod. pen. in luogo di quello (in parte tentato ed in
parte consumato) di cui all’art. 629 cod. pen. per il quale è intervenuta pronuncia di
condanna.
In sostanza:
a)

l’imputato non era diretto creditore del fratello nei confronti del quale ha

esercitato la minaccia;
b) l’imputato non aveva ricevuto alcun mandato dalla madre di recuperare il denaro
che la madre aveva consegnato alla nuora;
c) il credito per il quale ha agito era semmai quello che la madre vantava nei
confronti del padre ma l’azione è stata rivolta contro il fratello.
Alla luce di tale situazione è pacifico che l’odierno ricorrente non avrebbe mai
potuto agire in sede giudiziaria per recuperare un credito non proprio e nei
confronti della persona offesa che non rivestiva il ruolo di debitore.
Ciò rende di tutta evidenza che non ricorre nel caso in esame la fattispecie di
cui all’art. 393 cod. pen. ma ci si trova in presenza di una fattispecie estorsiva sia
sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo atteso che sebbene i delitti di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di
estorsione si distinguono in relazione all’elemento psicologico, poiché nel primo,
l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole,
anche se infondata, di esercitare un suo diritto, nel secondo, invece, egli persegue il
conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia, tuttavia non
può che integrare gli estremi del delitto di estorsione la condotta del terzo estraneo

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sede di ricorso), la Corte di appello ha correttamente evidenziato da un lato

al rapporto obbligatorio volta a realizzare di propria esclusiva iniziativa il recupero,
con modalità criminose, di crediti altrui.
Del resto il testo dell’art. 393 cod. pen. è chiaro: la fattispecie ricorre solo
quando il soggetto poteva ricorrere al giudice e certo l’odierno ricorrente non
poteva farlo in proprio non essendo diretto titolare del credito e non avendo
ricevuto alcun mandato ad hoc dalla potenziale creditrice.
Sul punto questa Corte Suprema con un assunto condiviso anche dall’odierno
Collegio ha, infatti, chiarito che «in caso di contestazione del delitto di estorsione,

l’accertamento dell’elemento psicologico impone il previo esame della pretesa
vantata dall’agente, onde verificare se essa presenti i requisiti dell’effettività e della
concretezza che la rendono azionabile in giudizio». (In motivazione, la Corte ha
precisato che, qualora il preteso diritto non sia tutelabile dinanzi all’autorità
giudiziaria, il comportamento andrà qualificato come estorsione, non perché
l’agente abbia esercitato una violenza o minaccia particolarmente grave, ma a
cagione del difetto di uno dei requisiti materiali del reato di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni) (Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831).

2. La manifesta infondatezza investe, poi, anche il secondo motivo di ricorso in
relazione al quale sono sostanzialmente applicabili i medesimi principi di diritto
sopra evidenziati.
Anche in questo caso la Corte distrettuale ha evidenziato la circostanza che
l’imputato ha asserito di vantare un credito nei confronti del fratello (rectius: della
società Fin Welding S.r.l. di cui il fratello era amministratore unico) e di avere agito
in occasione dell’episodio di cui ai capi C) e D) della rubrica delle imputazioni – nel
corso del quale aggredì selvaggiamente il fratello con calci e pugni procurandogli
importanti lesioni ed impossessandosi di un orologio di proprietà dello stesso – per
ottenere il relativo pagamento.
Come chiarito dalla Corte di appello (e la difesa del ricorrente non ha prodotto
od indicato in questa sede elementi certi per ritenere che i Giudici del merito siano
caduti in un travisamento della prova) dagli atti del processo è emerso:
a) che l’odierno imputato al momento dell’aggressione nei confronti del fratello non
fece alcun cenno a pretese economiche derivanti dal lavoro svolto presso la società
Fin Welding;
b) che l’odierno ricorrente non ha provato di aver avanzato formale richiesta di
pagamento alla società di capitali sopra menzionata (che al più poteva essere
l’effettivo debitore e che è soggetto ben diverso dall’amministratore della stessa che
è stato aggredito);

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qualora l’imputato eccepisca di aver agito al fine di esercitare un preteso diritto,

c) che non è neppure stato provato il fatto che l’odierno ricorrente abbia svolto
attività lavorativa continuativa presso l’indicata società;
d) che, in sostanza, non è emersa neppure la prova della effettiva esistenza del
preteso credito alla data in cui si verificò l’azione delittuosa.
Congrua e logica è quindi la motivazione della Corte di appello sul punto
laddove (cfr. in particolare pag. 13 della sentenza impugnata) si è evidenziato che
le ragioni dell’aggressione del giorno 11 aprile 2013 erano ben diverse da quelle del
tentativo di recupero di un credito peraltro rimasto a livello meramente assertivo.

neppure dalla difesa del ricorrente – che l’imputato fu trovato immediatamente
dopo l’aggressione in possesso dell’orologio di proprietà della persona offesa.
L’asserzione contenuta nel ricorso secondo la quale il proposito di sottrarre
l’orologio alla persona offesa sarebbe sorto solo dopo l’attuazione della violenza
rimane a mero livello di assunto difensivo non dimostrato mediante idonea
allegazione in forza del principio dell'”autosufficienza” del ricorso per cassazione.
Del resto è del tutto irrilevante ai fini della configurabilità del reato di rapina il
fatto che l’impossessamento del bene della persona offesa – avvenuto in un unico
contesto e senza soluzione di continuità – sia stato conseguito prima,
contestualmente od immediatamente dopo l’esercizio della violenza.
Assolutamente corretta è stata quindi anche in questo caso la qualificazione
della condotta dell’imputato.

3. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa
delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di C
1.500,00 (millecinquecento) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 1.500,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso il 15/06/2016.

E’ infine una dato oggettivo – anch’esso accertato in fatto e non contestato

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