Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28756 del 11/05/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28756 Anno 2016
Presidente: DE CRESCIENZO UGO
Relatore: CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE ROBERTO MARIA

SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
1) Bove Vincenzo nato a Napoli il 12/3/1939
2) Celli Giuseppe nato a Portici il 22/8/1945
3) D’Amico Gennaro nato a Venezia il 21/8/1945
4) Ferrara Giuseppe nato a Portici il 1/7/1953
5) Marino Raffaele nato a Napoli 10/7/1949
6) Oliviero Antonio nato a Ercolano il 15/10/1967
7) Ribellino Agostino nato a Napoli il 12/7/1971
8) Sabatíno Carmine nato a Castellammare di Stabia il 11/5/1951
9) Salvatore Ciro nato a Portici il 19/5/1962
10) Staiano Aniello nato a Napoli il 16/7/1953
11) Verzella Ivano nato a Termoli il 30/9/1959
avverso la sentenza del 4/7/2014 della Corte di Appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Roberto Maria Carrelli Palombi di
Montrone;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale, dott.
Alfredo Pompeo Viola che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso proposto da
Bove Vincenzo e dichiararsi inammissibili tutti gli altri ricorsi;

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Data Udienza: 11/05/2016

udito l’avv. Enrico Tuccillo, per l’imputato D’Amico Gennaro, che si è riportato ai
motivi di ricorso, insistendo per l’accoglimento;
udito l’avv. Roberto Afeltra, per l’imputato Salvatore Ciro, che ha concluso
insistendo per l’accoglimento dei motivi di ricorso;
udito l’avv. Emilio Longobardi, per l’imputato Sabatino Carmine, che si è riportato
ai motivi di ricorso chiedendone l’accoglimento, eccependo altresì l’estinzione del
reato ascritto all’imputato per intervenuta prescrizione;
udito l’avv. Alfonso Stabile che si è riportato integralmente ai motivi di ricorso,

udito l’avv. Michele Bruno, per l’imputato Ribellino Agostino, che, in via
preliminare, ha chiesto l’estensione al proprio assistito dei motivi redatti dall’avv.
Afeltra e si è riportato ai motivi di ricorso insistendo per l’accoglimento; ha
depositato altresì la nota spese per la liquidazione dell’onorario, essendo stato
l’imputato ammesso al gratuito patrocinio;
udita l’avv. Raffaella Oggiani in sostituzione dell’avv. Giovanni Briola per
l’imputato Oliviero Antonio, che si è riportata ai motivi di ricorso chiedendone
l’accoglimento;
udito l’avv. Giovanni Cipollone, per l’imputato Oliviero Antonio, che ha concluso
insistendo per l’accoglimento del ricorso;
udito l’avv. Antonio Fusco, per l’imputato Celli Giuseppe, che ha concluso
chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata;
udito l’avv. Giovanni Geremicca, quale sostituto processuale dell’avv. Stefano
Montone, per l’imputato Staiano Aniello, che ha concluso riportandosi ai motivi di
ricorso e chiedendone l’accoglimento;
udito l’avv. Giuseppe Perna, per gli imputati Celli Giuseppe e Ferrara Giuseppe,
che si

è

riportato ai motivi del ricorso insistendo per l’accoglimento e

depositando la sentenza emessa nei confronti di Ferrara Giuseppe dalla Corte
d’Appello di Napoli in data 28/4/2015.

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 4/7/2014, la Corte d’Appello di Napoli, in riforma della
sentenza del Tribunale di Napoli del 5/10/2010, tra l’altro, rideterminava la pena
per:
D’Amico Gennaro in anni sette di reclusione, per il reato allo stesso ascritto al
capo A) 110 – 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen.;
Sabatino Carmine in anni sette di reclusione, per il reato a lui ascritto al capo F)
110 – 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen.;
Marino Raffaele in anni nove di reclusione, per i reati a lui ascritti ai capi A) 110 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen. e D) 81 cod. pen. 9, 10, 12, 14 legge
n. 497 del 1974 e 7 legge n. 203 del 1991;

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insistendo per l’accoglimento;

Celli Giuseppe in anni sette di reclusione ed C 1.600,00 di multa, per i reati a lui
ascritti ai capi H) 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen. ed L) 110 – 629
commi 1 e 2 cod. pen., 7 legge n. 203 del 1991;
Staiano Aniello in anni sette di reclusione, per il reato a lui ascritto al capo H)
416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen.;
Verzella Ivano, per i reati a lui ascritti ai capi L) 110 – 629 commi 1 e 2 cod.
pen., 7 legge n. 203 del 1991 ed N) 110 – 629 commi 1 e 2 cod. pen., 7 legge n.
203 del 1991, ritenuta la continuazione con i reati di cui alla sentenza della

complessiva di anni diciotto di reclusione ed C 180.000,00 di multa;
Ribellino Salvatore e Salvatore Ciro in anni sei di reclusione ed C 1.400,00 di
multa, per il reato loro ascritto al capo R) 110 – 56 – 629 commi 1 e 2 cod. pen..
7 legge n. 203 del 1991;
revocava la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e quella
legale durante l’espiazione della pena applicata a Verzella Ivano;
confermava nel resto la decisione di primo grado con la quale, tra l’altro, Bove
Vincenzo era stato riconosciuto responsabile del reato a lui ascritto al capo E)
110 – 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen. e condannato alla pena di anni
sette di reclusione;
Ferrara Giuseppe era stato riconosciuto responsabile del reato a lui ascritto al
capo H) 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen. e condannato alla pena di
anni sette di reclusione;
Oliviero Antonio era riconosciuto responsabile del reato a lui ascritto al capo h)
416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 cod. pen., sino al 1995, così modificata
l’originaria imputazione e condannato alla pena di anni sei di reclusione.

1.1. La Corte d’Appello di Napoli respingeva le censure mosse dagli imputati
avverso la decisione di primo grado e segnatamente quelle proposte da:
da Bove Vincenzo in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, di qualificazione giuridica del fatto e di trattamento sanzionatorio;
da Celli Giuseppe in punto di assoluzione dell’imputato dai reati allo stesso
ascritti, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per sentire il collaboratore
di giustizia Tutisco Antonio, accogliendole nei termini che precedono, quanto al
trattamento sanzionatorio;
da D’Amico Gennaro in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, accogliendola nei termini che precedono, quanto al trattamento
sanzionatorio;

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ítik.

Corte d’Appello di Napoli del 15/3/2006 irrevocabile il 29/7/2006, nella misura

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da Ferrara Giuseppe in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, di riapertura dell’istruttoria dibattimentale per sentire il collaboratore di
giustizia Tutisco Antonio e di trattamento sanzionatorio;
da Marino Raffaele in punto di assoluzione dell’imputato dai reati allo stesso
ascritti, accogliendole nei termini che precedono quanto al trattamento
sanzionatorio;
da Oliviero Antonio in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, di qualificazione giuridica del fatto contestato e di trattamento

da Ribellino Agostino in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, accogliendole nei termini che precedono, quanto al trattamento
sa nzionatorio;
da Sabatino Carmine in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto e di qualificazione giuridica del fatto, accogliendole nei termini che
precedono quanto al trattamento sanzionatorio;
da Salvatore Ciro in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, accogliendole nei termini che precedono quanto al trattamento
sanzionatorio;
da Staiano Aniello in punto di assoluzione dell’imputato dal reato allo stesso
ascritto, di estinzione del reato per prescrizione, accogliendole nei termini che
precedono quanto al trattamento sanzionatorio;
da Verzella Ivano in punto di assoluzione dell’imputato dai reati allo stesso
ascritti, accogliendole nei termini che precedono quanto al trattamento
sa nzionatorio.

2. Avverso tale sentenza propongono separati ricorsi gli imputati, sollevando i
seguenti motivi di gravame:
Bove Vincenzo ricorso personale
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 157 e 416 bis cod. pen., per essere
maturata la prescrizione del reato, commesso sino al 1995. Evidenzia che
andava applicata la legge previgente alle modifiche intervenute con le leggi n.
251 del 2005 e 125 del 2008 e che non doveva tenersi conto delle aggravanti,
non essendo state specificamente contestate, se non genericamente nel numero
e senza la prova della loro conoscenza o conoscibilità da parte del Bove.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 521 cod. proc. pen. e 416 bis cod.
pen., per contrasto fra la contestazione dell’accusa e la sentenza. Rappresenta,
in proposito, che i pochi episodi, nei quali è stato ravvisato il concorso esterno,

4

‘eCtA-

sanzionatorio;

sono inesistenti, essendo privi di riscontro o essendo smentiti da prova
documentale ovvero non costituenti reato e che al più avrebbero imposto la
derubricazione del reato in favoreggiamento ex art. 378 cod. pen.
2.3. Mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc.
pen., in relazione all’art. 602 comma 4 cod. proc. pen. Ci si duole, in particolare,
all’udienza del 20/2/2013, la Corte d’Appello si era riservata di provvedere in
ordine alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per procedere

anteriore alla discussione finale, eccependosi la mancanza di motivazione alla
relativa eccezione proposta dalla difesa.
2.4. Mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc.
pen., in relazione all’art. 62 bis cod. pen.
Motivi aggiunti dell’imputato depositati in cancelleria in data 4/4/2016
2.5. Rappresenta che il Tribunale di Napoli con provvedimento del 12/5/2015,
che allega, nel rigettare la richiesta di applicazione della misura di prevenzione
della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con
obbligo di soggiorno nel comune di residenza, ha tenuto in considerazione,
contrariamente alla Corte d’Appello di Napoli nella sentenza impugnata, le
memorie e le giustificazioni fornite dall’imputato in ordine al rapporto dallo
stesso intrattenuto con il Vollaro.
Bove Vincenzo ricorso dell’avv. Salvatore Impradice
2.6. Mancanza ed illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett.
b) ed e) cod. proc. pen., in ordine alla ritenuta responsabilità del ricorrente.
Rileva, al riguardo, che la Corte d’Appello si è limitata a recepire in modo acritico
la motivazione della sentenza di primo grado, omettendo di rispondere alle
doglianze formulate dalla difesa con particolare riferimento all’inidoneità del
compendio probatorio, per essere le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
prive di riscontri obiettivi. Contesta la ritenuta sussistenza degli elementi
costitutivi della condotta criminosa di cui agli artt. 110 416 bis cod. pen., per non
essere stato indicato l’apporto stabile e significativo che il ricorrente avrebbe
portato all’organizzazione anche con riguardo all’elemento psicologico.
2.7. Mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione
delle attenuanti generiche ed alla riduzione della pena inflitta.
Bove Vincenzo ricorso dell’avv. Ubaldo Giuliani Balestrino
2.8. Inosservanza od erronea applicazione dell’art. 416 bis cod. pen. nonché
mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta esistenza della
forza intinnidatrice dell’associazione e comunque in ordine al preteso contributo

£(i^

all’esame del Bove stesso, riserva che poi non era stata sciolta nella fase

causale attribuito all’imputato. Rappresenta al riguardo che non può dirsi che il
Bove si sia avvalso della forza intimidatrice del clan Vollaro nei confronti della
Polizia, forza d’intimidazione che l’associazione camorristica non aveva e che, in
ogni caso, non aveva il Bove, semplice concorrente esterno.
2.9. Inosservanza od erronea applicazione dell’art. 416 bis cod. pen. ed ancora
mancanza di motivazione in ordine all’apporto del concorrente esterno.
2.10. Mancanza di motivazione in ordine agli elementi costitutivi
dell’associazione e, ancora, all’apporto alla stessa del concorrente. Eccepisce che

contestata la condizione di assoggettamento di cui all’art. 416 bis comma 2 cod.
pen.
2.11. Illogicità della motivazione con riguardo alla mancata indicazione dei
soggetti che sarebbero stati intimiditi dal Bove nonché rispetto alla condizione di
assoggettamento ed alla mancata indicazione, in proposito, di fatti specifici;
contesta poi la mancanza di motivazione in ordine alla possibile qualificazione
giuridica dei fatti contestati come millantato credito.
2.12. Mancanza ed illogicità della motivazione in ordine all’apporto causale del
Bove all’associazione nonché violazione di legge ed in particolare dell’art. 192
commi 2 e 3 cod. proc. pen. Eccepisce, in proposito, l’assenza di rilevanza
causale dei fatti narrati dai collaboratori di giustizia e la mancata individuazione
delle condotte causali.
2.13. Mancanza di motivazione in ordine all’apporto causale del concorrente
esterno per non essere stato valutato che il Bove possa essersi attivato a favore
di taluni partecipi dell’associazione, perché i suoi amici erano in pericolo e non
per solidarietà con l’associazione camorristica.
2.14. Mancanza di motivazione in ordine alla natura del concorso ipotizzato
nell’imputazione, per essere stata al Bove contestata una condotta individuale.
2.15. Violazione di legge nonché mancanza ed illogicità della motivazione, in
relazione agli artt. 157, 158 e 416 bis cod. pen., per essere il reato estinto per
prescrizione, essendo stato contestato un fatto terminato e concluso nel 1995.
2.16. Violazione di legge nonché mancanza di motivazione, in relazione agli artt.
59 e 416 bis cod. pen. per essere state estese le aggravanti previste dall’art. 416
bis cod. pen. al ricorrente.

Eccepisce, in proposito, la mancanza di ogni

accertamento sulla conoscenza o conoscibilità da parte del Bove delle aggravanti
di cui all’art. 416 bis cod. pen.; fa rilevare che, non potendo il reato considerarsi
aggravato, la prescrizione deve calcolarsi con riguardo alla pena massima di sei
anni; che le aggravanti non sono state descritte nel capo d’imputazione e che di

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nessuna intimidazione è stata indicata nel capo d’imputazione, non essendo

esse non vi è alcuna menzione nella sentenza anche con riferimento alla
conoscibilità da parte del Bove delle stesse; che le stesse non possono essere
estese al concorrente esterno.
2.17. Violazione di legge in relazione agli artt. 15 e 416 bis cod. pen. nonché
mancanza di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto per non
essere stato lo stesso derubricato e qualificato ai sensi dell’art. 418 cod. pen.
2.18. Violazione di legge nonché mancanza di motivazione in ordine all’omessa
concessione delle attenuanti generiche ed alla mancata determinazione della

Celli Giuseppe
2.19. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen.,
in relazione all’art. 420 ter comma 5, 178 comma 1 e 179 cod. proc. pen.
Rappresenta che all’udienza del 2/7/2013 il difensore di ufficio dell’imputato
rendeva noto alla Corte che l’unico difensore di fiducia avv. Giuseppe Perna era
assente, in quanto era sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere
e per il giorno 9/7/2013 era fissata l’udienza per la decisione della sospensione
del predetto avvocato da parte del competente Consiglio dell’Ordine; che alla
successiva udienza del 9/10/2013 la Corte prendeva atto della sospensione
dell’avv. Perna dall’esercizio della professione di avvocato ed invitava gli imputati
Celli e Ferrara a nominare un altro difensore di fiducia; che nella stessa udienza
il dibattimento proseguita con la relazione del giudice e le conclusioni del
Procuratore Generale per la posizione dell’imputato Oliviero Antonio nonché con
la discussione dell’avv. Tuccillo per l’imputato D’Amico Gennaro, venendo, quindi
nominato, quale difensore di ufficio degli imputati Celli e Ferrara, l’avv. Gianluca
Condro; che alla successiva udienza del 26/11/2013 l’avv. Antonio Cirillo,
nominato difensore di fiducia dagli imputati Celli e Ferrara, chiedeva ed otteneva
il rinvio ad altra data della trattazione del processo a carico dei propri assistiti.
Eccepisce, al riguardo, che l’assenza dell’avv. Perna costituiva legittimo
impedimento ai sensi dell’art. 420 ter comma 5 cod. proc. pen. e che ciò
avrebbe imposto la separazione della posizione processuale degli imputati Celli e
Ferrara con rinvio ad altra udienza per consentire agli stessi la nomina di un
difensore di fiducia o di avere l’assistenza di un difensore di ufficio;
ciononostante la Corte ha disposto la prosecuzione del processo, consentendo lo
svolgimento dell’istruttoria dibattimentale in appello con relazione del giudice e
conclusioni del Procuratore Generale per l’imputato Oliviero Antonio e la
discussione del difensore dell’imputato D’Amico Gennaro, posizioni queste
entrambi connesse a quella del ricorrente.

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V6,

pena nel minimo edittale.

2.20. Violazione di legge nonché mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606
comma 1 lett. c) ed e) cod. proc. pen., in relazione al periodo di contestazione
relativo al capo H) indicato genericamente «nel corso degli anni 80 e 90 con
condotta perdurante». Fa rilevare che nel corso del dibattimento era emersa la
prova relativa alla presunta partecipazione del Celli alla consorteria criminale
Vollaro a partire dal 1989 – 1990 e sino ad inizio 1993, eccependo la mancanza
di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui non individua il

tempus commissi delicti del capo H), ritenendosi, invece, la permanenza del

prescrizione del reato e ritenendosi applicabile la novella legislativa di cui alla
legge n. 125 del 2008; ciò nonostante che l’imputato abbia dato prova della
cessazione della sua condotta avvenuta ben prima dell’entrata in vigore della
predetta normativa.
2.21. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen.,
in relazione all’art. 192 comma 3 cod. proc. pen. con riguardo alla condanna
dell’imputato per il reato allo stesso ascritto al capo L). Rileva al riguardo che le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro e Pariota Francesco, che
hanno attribuito all’imputato il ruolo di iniziale intermediario tra la persona offesa
Coppola ed il clan estorsore, sono risultate prive di riscontri da parte di
eterogenei dati probatori, quali la testimonianza di Coppola Antonio, il quale non
ha mai citato l’imputato Celli Giuseppe e le dichiarazioni del collaboratore Di
Pierno Francesco, parte attiva nell’estorsione ai danni del Coppola stesso, che
neppure ha menzionato il ricorrente. Eccepisce la violazione dell’art. 192 comma
3 cod. proc. pen. in relazione sia al Vollaro Ciro che al Pariota Francesco,
essendo carente quell’ulteriore elemento di prova in grado di confermare
l’attendibilità di quanto riferito dai suddetti.
2.22. Mancanza ed illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. e) cod. proc. pen., in relazione al reato di cui al capo L). Ci si duole, in
particolare, che la Corte territoriale, pur avendo preso atto che la persona offesa
Coppola Antonio non abbia indicato alcun intervento del Celli, ha ritenuto che ciò
non potesse costituire prova contraria all’assunto dei collaboratori di giustizia
Vollaro Ciro e Pariota Francesco; segnatamente si evidenzia come né Coppola
Antonio, né il figlio Coppola Carlo abbiano citato il ricorrente o indicato un ruolo
assunto dallo stesso nella vicenda e che anche il collaboratore Di Perno
Francesco avesse reso un racconto sovrapponibile a quello dei Coppola,
eccependosi un travisamento della prova per omessa valutazione della stessa.
Rappresenta poi che la Corte territoriale non ha considerato che l’imputato era

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reato associativo fino alla sentenza di primo grado e così escludendosi la

stato assolto in primo grado dai reati estorsivi di cui ai capi M) ed N) per carenza
probatoria, il che destituirebbe di fondamento l’assunto del Vollaro Ciro e del
Pariota Francesco circa il ruolo assunto dal Celli di intermediario fra gli estorti ed
il clan camorristico.
2.23. Mancata assunzione di una prova decisiva, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. d) cod. proc. pen., per essere stata respinta la richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale per sentire il collaboratore di giustizia Tutisco
Antonio, vittima di usura e di estorsione da parte del clan Vollaro. Rileva che

vittima di usura da parte del clan e sulle modalità poste in essere dalla
consorteria criminosa nei confronti delle vittime per costringerli di sottomettersi
alle loro richieste al fine di favorire il clan.
D’Amico Gennaro
2.24. Violazione di legge nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione, ai
sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art.
192 cod. proc. pen. per essere state ritenute pienamente credibili ed attendibili
le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco. Ci
si duole dell’omessa valutazione, da parte della Corte territoriale, dei rapporti
esistenti fra il collaboratore Vollaro Ciro ed il ricorrente, con particolare
riferimento all’esistenza di motivi di astio e rancore nutriti dal primo nei confronti
del secondo ed individuato nella scelta forzata cui era stato costretto il Vollaro di
assumere in proprio la responsabilità per l’omicidio Senatore, al fine di
scagionare il fratello innocente Vollaro Antonio, condannato quale esecutore
materiale di tale delitto; ciò era avvenuto in quanto il D’Amico aveva riferito di
avere appreso dal teste oculare Avolio il nome di Vollaro Antonio, quale
partecipante all’omicidio. Si evidenzia come il risentimento del Vollaro Ciro nei
confronti del D’Amico fosse emerso già dalle dichiarazioni del primo; il
collaboratore, infatti, aveva riferito che a versare al D’Amico una somma mensile
in cambio di un atteggiamento accomodante del D’Amico in favore di tutti i
componenti della famiglia Vollaro era cessato in occasione dell’omicidio Senatore
Esposito per via dell’intransigenza manifestata dal D’Amico, che mantenne la sua
versione dei fatti circa la rivelazione del nome di Vollaro Antonio fattagli
personalmente da Avolio. Si eccepisce poi la mancanza di riscontri esterni
all’affermazione del Vollaro Ciro di avere supposto che il D’Amico avesse voluto
aiutarlo incolpando falsamente il fratello, aveva trovato conferma soltanto in
alcune confidenze riportategli da terze persone riconducibili ad Avolio Ciro;
specificamente si rileva che le dichiarazioni Di Pierno Ciro e di Vollaro Ciro in

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costui sarebbe stato in grado di riferire sulla circostanza che anche il Celli era

ordine alla discussa menzogna di D’Amico Gennaro non sono mai per conoscenza
diretta, ma de auditu, laddove la fonte originaria risulterebbe essere sempre
Avolio Ciro. Si rappresenta come la testimonianza della Fontana non possa in
alcun modo considerarsi convergente con le dichiarazioni di Vollaro Ciro, avendo
la stessa riferito esclusivamente sulle confidenze ricevute dal D’Amico sulla
vicenda e cioè che lo stesso, una volta che era intervenuto sulla scena del delitto,
aveva appreso dall’Avolio che l’agguato era stato eseguito da Vollaro Antonio. Ci
si duole ancora della mancanza di motivazione in ordine alla credibilità ed

2.25. Violazione di legge nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione, ai
sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt.
133 e 62 bis cod. pen. per non essere state concesse le attenuanti generiche,
eccependosi al riguardo la mancanza di motivazione in ordine alla permanenza
del reato contestato, essendo stato accertato che il patto criminale con il Vollaro
Ciro si era interrotto alla fine del 1991 e che, quindi, già alla data della pronuncia
della sentenza impugnata il reato era estinto per prescrizione.
Ferrara Giuseppe
2.26. Violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 111 Cost., 192, 193, 546 cod.
proc. pen. Segnatamente si duole dell’utilizzazione da parte della Corte
territoriale delle risultanze processuali in forma distorta al fine di travisare il loro
contenuto e giungere alla formazione della prova della partecipazione del Ferrara
all’associazione camorristica dei Vollaro; rappresenta al riguardo di non avere
mai concluso o tentato di concludere alcun affare con il Vollaro e di essersi
limitato a svolgere la funzione di semplice accompagnatore silenzioso del Celli.
2.27. Mancata assunzione di una prova decisiva, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. d) cod. proc. pen., in relazione alla mancata escussione del teste Tutisco
Antonio richiesta dalla difesa, risultato essere vittima dei Vollaro a causa dei
debiti contratti con esponenti del suddetto clan camorristico.
2.28. Violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. h) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen. e 416 bis
cod. proc. pen. Si duole, in particolare, della valutazione da parte della Corte
territoriale delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la cui attendibilità non
sarebbe stata verificata sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 192 e dalla
giurisprudenza; evidenzia come non sia emerso quale contributo effettivo sia
stato fornito dal ricorrente al mantenimento in vita della struttura o al
perseguimento degli scopi di essa; rileva ancora che all’imputato è contestata

10

1A,–

attendibilità delle dichiarazioni dell’Avolio.

una condotta delittuosa perdurante successiva agli anni 1990 senza alcun
riferimento normativo o probatorio.
2.29. Violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 132, 133, 62 bis cod. pen.
2.30. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione all’art. 157 cod. pen., per essere il reato estinto per prescrizione.
Marino Raffaele
2.31. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 110 416 bis cod. pen.

alla mancata individuazione dei connotati della condotta suscettibile di integrare
la fattispecie contestata con particolare riferimento ai contenuti oggettivi e
soggettivi minimi dell’apporto asseritamente fornito dall’imputato alla vita
dell’associazione ed in relazione al travisamento di dati emersi nel giudizio ed
all’omessa pronuncia su circostanze che erano state devolute alla Corte d’Appello
in sede di gravame. Rappresenta, al riguardo, che la sentenza si limita a
riportare il contenuto delle dichiarazioni della teste Fontana Anna Maria, dei
collaboratori di giustizia Di Pierno e Vollaro Ciro e degli imputati, omettendo di
indicare quali fossero i connotati concreti della fattispecie suscettibili di integrare
il concorso esterno in associazione mafiosa, con particolare riferimento alla
mancata individuazione del contributo causale asseritamente fornito dal Marino
alla vita dell’associazione e delle ragioni per cui le condotte ritenute provate
avessero avuto una concreta efficienza ai fini della conservazione e del
rafforzamento dell’associazione; evidenzia che la Corte d’Appello non ha
verificato se l’agente si sia rappresentato, nella forma del dolo diretto, l’utilità per
la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione.
Segnatamente rileva che dalle dichiarazioni della teste Fontana Anna Maria non
sia emerso alcun dato in grado di chiarire in via autonoma quali fossero i rapporti
fra Marino e Vollaro Ciro; quanto alle dichiarazioni di Vollaro Ciro, rappresenta
come la Corte territoriale non abbia verificato in che modo la condotta ascritta
all’imputato abbia contribuito al rafforzamento dell’attività del clan Vollaro. Sul
piano soggettivo evidenzia come la Corte abbia omesso qualsiasi valutazione in
merito al dolo di agevolazione, essendo stati, invece, rappresentati, nell’atto
d’appello, come, sulla base delle risultanze processuali, i rapporti dell’imputato
con il Vollaro fossero stati sempre tesi a consentire al Marino di conseguire
risultati spendibili nell’attività che lo stesso svolgeva per conto dei Servizi, cioè la
cattura dei latitanti.
2.32. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 110 416 bis cod. pen.

11

nonché mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione

nonché mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione
alla ritenuta compatibilità fra la figura di concorrente esterno del sodalizio
mafioso ed il ruolo di capo, promotore o organizzatore del sodalizio medesimo
contestato al ricorrente al capo C) ed alla violazione del contraddittorio per
l’omessa pronuncia su circostanze devolute alla Corte d’Appello in sede di
gravame. Evidenzia come il meccanismo di incriminazione del concorso
eventuale in una fattispecie associativa fosse radicalmente inconciliabile con il
ruolo di capo, promotore ovvero organizzatore eccependo la mancanza di

2.33. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 192 commi 3 e 4 e 178
lett. c) cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà ed illogicità della
motivazione in relazione all’affermata sussistenza della prova del reato
contestato al capo D), al travisamento della prova per i contrasti insanabili fra le
dichiarazioni in comparazione espressamente evidenziati nei motivi di appello ed
all’omessa considerazione delle critiche dedotte a sostegno del gravame.
Rappresenta sul punto che fra le dichiarazioni del Di Pierno e del Vollaro non
coincidono le coordinate modali, spaziali e soggettivi relative all’episodio
descritto della consegna dei due fucili, essendo stato altresì documentato che la
madre del Marino non aveva mai abitato, né posseduto abitazioni in Pagani o in
Caserta.
2.34. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen.
nonché mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione
alla mancata valutazione dei criteri imposti dalla legge per il giudizio di
commisurazione della pena ed in particolare della condotta successiva al reato
quale criterio da cui desumere la capacità a delinquere del reo ed alla mancata
considerazione delle doglianze che erano state proposte con l’atto di appello con
specifico riferimento alla determinazione della pena ed alla mancata concessione
delle attenuanti generiche.
Oliviero Antonio
2.35. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai
sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 416 bis
cod. pen. Si duole, in particolare, della motivazione apparente in ordine
all’attendibilità dei collaboratori Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco nonché in
ordine alla ritenuta appartenenza del ricorrente al clan Vollaro. Evidenzia come
sia stato recepito acriticamente il contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia, avendo la Corte territoriale integralmente ripreso la motivazione della
sentenza di primo grado senza tener conto delle doglianze che erano state

12

motivazione sulla relativa doglianza sollevata con i motivi di appello.

sollevate con l’atto di appello. In particolare rileva come le dichiarazioni dei due
collaboratori non siano risultate coincidenti in relazione all’episodio della cena al
ristorante La Stalla di Ercolano, laddove Vollaro Ciro non ha mai riferito della
presenza del ricorrente, mentre Di Pierno Francesco si è contraddetto più volte,
prima affermandone o poi negandone la presenza; come non sia stata esaminata
la personalità soggettiva dei due collaboratori ed i rapporti intercorsi dagli stessi
con riferimento alla sudditanza dimostrata dal Di Pierno nei confronti del Vollaro
e non sia stata adeguatamente valutata la ritrattazione del Vollaro stesso. Rileva

quella dell’altro collaboratore e che invece per le singole dichiarazioni sia stato
omesso un vaglio di attendibilità intrinseca. Quanto al giudizio di attendibilità
estrinseca, eccepisce la mancanza di motivazione della sentenza impugnata con
riferimento ai due soli aspetti di ritenuta responsabilità del ricorrente: in primo
luogo sull’asserito aiuto prestato dal ricorrente al Vollaro Ciro nel periodo di
latitanza, non avendo la Corte territoriale considerato la testimonianza della
teste della difesa Oliviero Luisa, che ha escluso che il ricorrente abbia mai
favorito la latitanza di Vollaro Ciro. Quindi sull’asserita circostanza che il
ricorrente fosse prestanome di Vollaro Ciro, eccepisce che non si è tenuto conto
della testimonianza della De Crescenzo Rosa, moglie di Vollaro Ciro, che ha
escluso di avere mai visto o incontrato il ricorrente presso l’abitazione del marito
e della testimonianza di Vollaro Raffaele contrastante con quanto riferito da Di
Pierno Francesco e da Voltam Ciro; evidenzia come non sia stato valutato il
memoriale di Pariota Francesco che, nel dettagliare i nomi ed i ruoli degli accoliti
del clan Vollaro, non ha menzionato il ricorrente. Eccepisce, quindi, la mancanza
di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale per comprovare che non vi era necessità alcuna per Vollaro Ciro di
utilizzare il ricorrente quale prestanome, risultando invece quello del di lui
fratello.
2.36. Omessa motivazione in relazione alla contestazione inerente la formazione
a dibattimento della prova dichiarativa della chiamata di correo con riferimento al
reato di cui al capo H). Si duole, al riguardo, che la Corte territoriale abbia
ritenuto che la presenza in aula di Di Pierno Francesco nel momento in cui
Vollaro Ciro chiamava in reità l’Oliviero non avrebbe compromesso in alcun modo
il narrato del primo, eccependosi la mancanza di motivazione della sentenza
impugnata. Rappresenta, al riguardo, che il Di Pierno si è lasciato condizionare
dalle dichiarazioni del Vollaro, in quanto nel memoriale redatto nell’immediatezza
del suo pentimento lo stesso non aveva fatto il nome dell’Oliviero.

13

R6)\–

ancora che l’attendibilità di un collaboratore è supportata esclusivamente da

2.37. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ai
sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 378 cod.
pen. per essere stata esclusa la qualificazione del fatto contestato come
favoreggiamento personale del solo Vollaro Ciro, non essendo stato valutato
l’elemento differenziale fra le due fattispecie di cui agli artt. 416 bis e 378 cod.
pen. Rappresenta, sul punto, che dall’istruttoria dibattimentale è emersa solo
una semplice e sporadica attività di soccorso al solo Vollaro Ciro, idonea ad
integrare la fattispecie di cui all’art. 378 cod. pen.

dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., in relazione al mancato
riconoscimento delle attenuanti generiche.
Ribellino Agostino
2.39. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen.,
in relazione agli artt. 192 e 500 comma 3 cod. proc. pen. Rappresenta, in
proposito, che il Vollaro Ciro si è sottratto al contro esame della difesa e che
quindi le sue dichiarazioni non sono utilizzabili nei confronti del ricorrente, non
essendo stato al riguardo prestato alcun consenso da parte della difesa; difatti il
collaboratore, dopo essere stato essente per diverse udienze, si è suicidato
rendendo impossibile il suo controesame, avendo la Corte territoriale errato nel
non considerare il suicidio una causa volontaria di sottrazione all’esame.
2.40. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b), in relazione agli
artt. 56 e 629 cod. pen. in relazione al calcolo utilizzato per la determinazione
della pena, non essendo stata applicata la riduzione per il tentativo.
2.41. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione agli artt. 62 bis e 133 cod. pen. per la mancata concessione delle
attenuanti generiche e la determinazione della pena. Con motivi aggiunti
pervenuti in cancelleria insiste per l’accoglimento del motivo inerente la mancata
concessione delle attenuanti generiche, depositando provvedimento del Tribunale
di Napoli del 5/6/2015 con il quale è stata rigettata la proposta per la
sottoposizione del ricorrente alla misura della sorveglianza speciale di RS. con
obbligo di soggiorno.
Sabatino Carmine
2.42. Violazione di legge e mancanza di motivazione in relazione agli artt. 192
comma 3 e 521 cod. proc. pen. Si lamenta, in particolare, della valutazione di
attendibilità delle chiamate di correo ai fini del giudizio di colpevolezza
dell’imputato, non avendo la Corte territoriale considerato la non soddisfacente
sovrapponibilità del narrato dei dichiaranti e la mancanza di riscontri esterni

14

2.38. Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, ai sensi

confermativi delle dichiarazioni dei collaboratori. Segnatamente, quanto alla
deposizione del Sabelli, ne evidenzia la contraddizione in cui lo stesso sarebbe
incorso in relazione all’incontro dallo stesso avuto con il Sabatino, in relazione al
mancato ricordo da parte del Sabatino stesso se siano state effettuate da parte
dello stesso Sabatino delle perquisizioni a casa sua o a casa del padre dove
saltuariamente viveva, in relazione all’asserita partecipazione all’episodio in cui
Vollaro Ciro si sarebbe recato a sparare nella casa dei fratelli del suocero in una
traversa de mercato di Portici. Quanto alla deposizione del Di Pierno, evidenzia

che quindi appare strano che, a distanza di circa tre anni, possa riconoscere di
notte il Di Pierno; inoltre, sempre in relazione allo stesso episodio, mentre al P.M.
aveva riferito che in macchina aveva cocaina, alla difesa aveva riferito che non si
era fermato perché aveva in macchina pistola; con riferimento all’incontro che il
Di Pierno riferisce di avere avuto con il Sabatino quando quest’ultimo sarebbe
sceso dall’abitazione del Verzella e collocato dal primo nel 1988 1999,
rappresenta come quanto dichiarato dal collaboratore contrasti con la circostanza
che il Verzella è stato ininterrottamente detenuto dal 26/4/1985 sino al
27/12/1989. Evidenzia come pure inattendibili risultino le dichiarazioni del
Pariota, che aveva parlato di una regolarità di pagamenti al Sabatino negli anni
1990 e 1991, quando lo stesso era stato trasferito da Portici. Eccepisce ancora
ulteriori contrasti tra i collaboratori in ordine alle modalità d’incasso delle somme
da parte del Sabatino. Contesta quelli che la Corte territoriale ha considerato
come riscontri, quali riferiti dal mar. Bonarrigo ed individuati in
un’intercettazione telefonica del 10/5/1989 tra Ursano Bruno e Vigilante Oro,
effettuata in un altro procedimento penale e mai acquisita, dalla quale sarebbe
risultato che il Sabatino non avrebbe pagato alcuni capi di abbigliamento;
eccepisce al riguardo che la suddetta intercettazione non fa parte del processo e
non può costituire valido riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori; si duole,
ancora, che sia stata respinta la richiesta di rinnovazione del dibattimento per
sentire Vigilante Ciro, lamentando l’omessa motivazione sulla richiesta avanzata
dalla difesa. Evidenzia poi come le dichiarazioni dei collaboratori fossero risultate
estremamente generiche, non essendo stato indicato alcun fatto specifico in
ordine alle presunte rivelazioni di notizie coperte dal segreto d’ufficio, rilevando
che anche su questo punto manca qualsiasi motivazione. Eccepisce quindi che
non è dato comprendere quale efficienza causale abbia potuto avere l’intervento
del Sabatino ai fini della conservazione e del rafforzamento dell’organizzazione
criminale. Si duole in sostanza che la condotta di agevolazione ascritta

15

che il Sabatino era stato trasferito alla caserma CC di Ponticelli dal 31/7/1989 e

all’imputato sia stata ritenuta penalmente rilevante sulla base di propalazioni di
pentiti generiche e non adeguatamente verificate in sede di merito, né
supportate da idonei riscontri individualizzanti e che non sono stati indicati
comportamenti dell’imputato concreti e specifici, nonché dotati di effettiva
valenza causale ai fini del mantenimento in vita o del rafforzamento
dell’associazione.
2.43. Violazione di legge e mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 606
comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 157 e 160 cod. pen.

processo di secondo grado, essendo emerso con certezza che il Sabatino era
stato trasferito da Portici fin dal 31/7/1989. Rappresenta che dopo tale data, non
vi sono elementi di prova sulla base dei quali ritenere che la condotta del
Sabatino sia continuata dopo che lo stesso era stato trasferito dalla Stazione di
Portici.
2.44. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata
concessione delle attenuanti generiche.
Salvatore Ciro
2.45. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione agli artt. 157, 56 e 629 cod. pen. per essere già maturato al
momento della pronuncia della sentenza di appello il termine di prescrizione.
2.46. Violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 192, 195, 238 bis cod. proc.
pen. e 629 cod. pen. Evidenzia che nella sentenza impugnata si è fatto
riferimento all’appartenenza al clan Vollaro del ricorrente, mentre con sentenza
definitiva emessa in data 7/10/1992 l’imputato era stato assolto dalla contestata
partecipazione all’associazione camorristica del clan Vollaro; evidenzia le
contraddizioni risultanti dalla deposizione del collaboratore Vollaro Ciro con
riferimento alle persone che ebbero a partecipare all’incendio della molazza
nell’ambito della tentata estorsione aggravata nonché i contrasti fra quanto
riferito dal Vollaro Ciro e le dichiarazioni rese dal Di Pierno Francesco in ordine
alle attività alle quali sarebbe stato dedito quest’ultimo. Quanto al
riconoscimento fotografico che la parte lesa avrebbe effettuato in data 3/2/1998,
rileva che la fotografia utilizzata è attribuita a Salvatore Ciro nato ad Ercolano il
19/3/1962, laddove l’imputato è nato a Portici in data diversa. Quanto alla
sentenza emessa dal Tribunale di Nola in data 2/7/1997, dalla stessa non
emerge una partecipazione del ricorrente all’episodio specifico dell’incendio della
molazza.

16

per essere maturato il termine di prescrizione già alla data di trattazione del

2.47. Violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1
lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 62 bis cod. pen. per essere
state negate le attenuanti generiche.
2.48. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione agli artt. 56 e 133 cod. pen. per essere stata irrogata una pena non
sulla base di un reato tentato, ma di un reato consumato.
2.49. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione all’art. 7 legge n. 203 del 1991. Rileva al riguardo che la condotta di

gruppi camorristici Vollaro e Sarno non poteva essere ritenuta sussistente in
capo al Salvatore stante la mancata sua adesione ai suddetti clan.
Staiano Aniello
2.50. Violazione di legge nonché mancanza e manifesta illogicità della
motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in
relazione all’art. 416 bis cod. pen. Si duole, in particolare, che la partecipazione
del ricorrente all’associazione criminosa capeggiata da Vollaro Ciro sia stata
dedotta, quale logica conseguenza, dall’attività di usura svolta dall’imputato e dal
rapporto di questo con il Vollaro Ciro non essendo state, invece, valutate le
dichiarazioni dei capi del clan Vollaro, che avevano escluso che l’imputato avesse
mai condiviso i programmi e gli scopi dell’organizzazione.
2.51. Difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc.
pen., in relazione al capo 2) dei motivi di appello dedicato all’insussistenza della
permanenza dell’ipotesi delittuosa. Ci si riferisce in particolare alla richiesta di
ritenere cessata la partecipazione dello Staiano al clan Vollaro almeno alla data
del 1996, anno del pentimento del capo Vollaro Ciro. Evidenzia che a partire da
quell’anno non vi sono più rapporti fra il Vollaro e lo Staiano e non risulta alcuna
attività illecita a vantaggio del clan.
2.52. Violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen.,
in relazione agli artt. 132, 133 e 62 bis cod. pen. per non essere state concesse
le attenuanti generiche.
Verzella Ivano
2.53. Violazione di legge nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) c) ed e) cod.
proc. pen., in relazione all’art. 192 cod. proc. pen. con riferimento
all’affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi L) ed N), per avere il
giudice di merito attribuito efficacia probatoria al narrato espresso dai
collaboratori di giustizia senza avere proceduto ad una accurata indagine positiva

17

sR(u,

essersi avvalso della forza intimidatrice derivante dalla loro appartenenza ai

sulla loro credibilità accompagnata da un controllo sulla credibilità soggettiva dei
dichiaranti anche in considerazione delle argomentazioni che erano state svolte
nei motivi di appello e che non sono state prese in considerazione dalla Corte
territoriale.
2.54. Erronea applicazione della pena ritenuta in continuazione fra i fatti di cui al
presente giudizio e quelli definiti con sentenza del Tribunale di Napoli del
15/1/2004 parzialmente riformata con sentenza della Corte d’Appello di Napoli
del 15/3/2006 definitiva il 29/7/2006. Lamenta, in particolare, l’omessa

procedimento relativo alla sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli del
15/3/2006.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi proposti devono essere rigettati, per essere infondati i motivi in essi
contenuti.
3.1. Con il primo motivo (2.1.) del ricorso personale Bove Vincenzo ha eccepito
l’estinzione del reato a lui ascritto al capo E), per intervenuta prescrizione,
ritenendo che non dovesse tenersi conto delle aggravanti previste dall’art. 416
bis cod. pen. La doglianza e’ infondata. Rileva, al riguardo, il Collegio che,
correttamente, la Corte territoriale ha respinto l’analoga doglianza proposta con i
motivi di appello, considerando che il reato contestato, tenuto conto della pena
prevista dall’art. 416 bis comma 2 cod. pen. per coloro che promuovono,
dirigono od organizzano l’associazione e della circostanza aggravante prevista
dall’art. 416 bis comma 4 cod. pen. per l’associazione armata; quindi il termine
massimo di prescrizione risulta essere di anni ventidue e mesi sei sulla base della
normativa previgente, che risulta più favorevole rispetto a quella introdotta con
la legge n. 251 del 2005. Ed è indubbio che delle contestate circostanze
aggravanti debba tenersi conto ai fini del calcolo del termine di prescrizione; in
tal senso depone il tenore della contestazione in concreto mossa all’imputato
Bove Vincenzo, laddove allo stesso è ascritto il delitto di concorso esterno in
associazione mafiosa con specifico riferimento all’attività di capi del sodalizio
svolta da Vollaro Ciro e Verzella Ivano. Inoltre nello stesso capo di imputazione si
fa riferimento all’associazione camorristica dei Vollaro che è risultata essere
un’associazione armata, in quanto gli appartenenti alla stessa potevano contare
sulla disponibilità di armi; segnatamente al Vollaro Ciro, anche grazie al

18

CCA-

applicazione della riduzione per il rito abbreviato con il quale era stato definito il

comportamento posto in essere dall’attuale ricorrente, veniva consentito di
muoversi liberamente sul territorio anche armato, nonostante fosse sottoposto
alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con
obbligo di soggiorno nel comune di San Sebastiano.
La soluzione adottata dalla Corte si pone perfettamente in linea con la
giurisprudenza di questa Corte in base alla quale in tema di associazione a
delinquere di stampo mafioso è corretto ritenere sussistente l’aggravante della

associativo sia contestato agli appartenenti di una famiglia mafiosa che
notoriamente esercita la sua forza intimidatorie anche attraverso la dotazione di
armi, utilizzate nei confronti sia di vittime che di avversari, anche nel caso in cui
la disponibilità di armi sia provata a carico di un solo appartenente (sez. 6 n.
5400 del 14/12/1999, Rv. 216149; sez. 6 n. 11194 del 8/3/2012, Rv. 252177).
Ed ancora questa Corte ha avuto modo di affermare che hanno natura oggettiva
le circostanze aggravanti del reato di associazione di tipo mafioso, consistenti
nell’avere l’associazione la disponibilità di armi e nella destinazione del prezzo,
prodotto o profitto dei delitti al finanziamento delle attività economiche di cui gli
associati intendano assumere o mantenere il controllo, sicché dette circostanze
devono essere riferite all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo
partecipe (sez. 6 n. 42385 del 15/10/2009, Rv. 244904); ed appunto, nel caso di
specie oggetto della decisione ora citata era stata riconosciuta l’applicabilità delle
suddette circostanze aggravanti anche al concorrente esterno consapevole dei
fatti oggetto delle medesime o che per colpa le ignori. Ed il principio è stato
recentemente ribadito nel senso la circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis
comma 6 cod. pen., concernente l’illecito finanziamento di attività economiche,
ha natura oggettiva ed è, pertanto, riferibile all’associazione in quanto tale; ne
consegue che essa è valutabile, anche in difetto di formale contestazione, a
carico di tutti i componenti del sodalizio mafioso, ed anche del concorrente
esterno consapevole dei fatti oggetto della predetta aggravante o che per colpa li
ignori (sez. 5 n. 52094 del 30/9/2014, Rv. 261334).
Nel caso di specie, appunto, una volta provato il contributo che l’imputato
ha prestato alla vita ed al rafforzamento dell’associazione camorristica Vollaro,
contributo estrinsecatosi, appunto, nell’avere ricercato e sviluppato il rapporto
collusivo con funzionari appartenenti alla Polizia di Stato e nell’avere così
consentito a Vollaro Ciro di girare anche armato, è ragionevole ritenere che il

19

disponibilità di armi di cui all’art. 416 bis comma 4 cod. pen., quando il delitto

Bove fosse stato a conoscenza della dotazione di armi da parte del sodalizio,
connaturale agli scopi del sodalizio, al cui perseguimento l’imputato aveva
efficacemente contribuito.
Quanto fin qui detto vale anche per ritenere infondate le doglianze
proposte nell’ottavo e nel nono proposti dal ricorrente Bove Vincenzo a mezzo
dell’avv. Impradice (2.15.) (2.16), con i quali pure veniva eccepita l’estinzione

3.2. Con il secondo motivo del ricorso personale di Bove Vincenzo, pur essendo
eccepita la violazione del principio della necessaria correlazione fra accusa
contestata e sentenza di cui all’art. 521 cod. proc. pen, in realtà vengono, in
primo luogo, proposte questioni che attengono al merito della decisione
impugnata, che risulta, invece, immune da vizi di legittimità. In tale direzione
all’esito del giudizio di primo grado il Bove era risultato essere un « referente
esterno» del clan Vollaro, alla cui conservazione e rafforzamento lo stesso
aveva contribuito con diverse modalità analiticamente esaminate dai giudici di
merito. Nel rispondere alla specifica doglianza mossa alla decisione di primo
grado, la Corte territoriale, dopo avere esaminato i contributi dichiarativi resi dai
collaboratori Vollaro Ciro, Di Pierno Francesco e Pariota Francesco nonché quanto
riferito dal teste dott. Vittorio Pisani, all’epoca dei fatti responsabile della
Squadra Mobile della Questura di Napoli, correttamente è pervenuta, attraverso
l’esame di fatti specifici che non possono essere rivalutati in questa sede, alla
conclusione che il ricorrente avesse coscientemente fornito al clan Vollaro un
ruolo di costante supporto grazie alle sue entrature nella Polizia di Stato.
Dalla lettura della sentenza impugnata, integrata con le argomentazioni
contenute nella decisione di primo grado, è dato evincere la ricorrenza dei
presupposti di fatto e di diritto del delitto contestato, non potendo il fatto essere
ricompreso nella meno grave ipotesi di favoreggiamento personale di cui all’art.
378 cod. pen. In tale direzione, appunto, i giudici di merito hanno dato atto che
l’imputato, pur non stabilmente inserito nel sodalizio dei Vollaro, aveva << ... operato in modo sistematico con gli associati al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività criminosa dell'associazione, in tal modo fornendo volontariamente e coscientemente ... uno specifico contributo ai fini della conservazione e del rafforzamento dell'associazione medesima». Del resto questa Corte ha costantemente ritenuto che risponde di concorso esterno nel reato associativo e non di favoreggiamento personale colui che, esterno al 20 PL(A-- del reato contestato per prescrizione. sodalizio, agisce con la finalità di fornire non un aiuto al singolo ad eludere le indagini, ma un contributo alla capacita operativa del sodalizio medesimo, alla sua conservazione ed alla realizzazione di future imprese criminali (sez. 1 n. 33243 del 7/5/2013, Rv. 256987; sez. 1 n. 3756 del 7/11/2013, Rv. 258194). 3.3. Il terzo motivo del ricorso personale di Bove Vincenzo (2.3.) attiene alla mancanza di motivazione in ordine all'eccezione formulata dalla difesa inerente dell'imputato. La doglianza è proposta in modo del tutto generico, non essendo stato, affatto, evidenziato sulla base di quali elementi l'esame dell'imputato rappresentasse una prova essenziale ai fini della decisione. In proposito questa Corte ha stabilito che, in tema di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello, l'esame dell'imputato non assunto in primo grado può essere ammesso soltanto ove ritenuto necessario sulla base di specifiche esigenze, che è onere della parte instante indicare e documentare (sez. 2 n. 36365 del 7/5/2013, Rv. 256875). Ed inoltre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria e tale accertamento comporta una valutazione rimessa al giudice di merito che, se correttamente motivata anche in modo implicito, come nel caso in esame, è insindacabile in sede di legittimità ( sez. 4 n. 18660 del 19/2/2004, Rv. 228353; sez. 3 n. 35372 del 23/5/2007, Rv. 237410; sez. 3 n. 8382 del 22/1/2008, Rv. 239341). Ed infatti la Corte territoriale ha dato ampia e articolata giustificazione in ordine alla completezza dell'istruttoria dibattimentale svolta nel giudizio di primo grado sulla base della quale si è pervenuti all'affermazione di penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato allo stesso ascritto; da tale motivazione scaturiva, implicitamente, che non era assolutamente necessario procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per procedere all'esame dell'imputato. Ciò discende dal principio, costantemente affermato da questa Corte di legittimità, che la rinnovazione del dibattimento in appello costituisce un'evenienza eccezionale e può essere disposta solo quando il giudice ritiene di non potere decidere allo stato degli atti; ciò comporta che, mentre la decisione di procedere alla rinnovazione deve essere specificamente motivata, dovendo il giudice dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dall'acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, al contrario in caso di rigetto della relativa istanza la motivazione 21 guk,- la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per procedere all'esame potrà anche essere implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della decisione, evidenziandosi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguenza assenza di necessità di rinnovare il dibattimento (sez. 5 n. 8891 del 16/5/2000, Rv. 217209; sez. 4 n. 47095 del 2/12/2009, Rv. 245996; sez. 5 n. 15320 del 10/12/2009, Rv. 246859). 3.4. Con il quinto motivo del ricorso personale di Bove Vincenzo (2.5.) ci si duole attenuanti generiche; la medesima doglianza viene sollevata, anche sotto l'aspetto della violazione di legge, nel secondo motivo proposto a mezzo dell'avv. Impradice con il quale ci si duole anche della mancata determinazione della pena nel minimo edittale (2.7.) e nell'ultimo motivo proposto a mezzo dell'avv. Giuliani Balestrino (2.18.). Trattasi di doglianze tutte infondate. Difatti la Corte territoriale, nel rispondere sulla medesima questione formulata nei motivi di appello, all'esito dell'analisi del fatto contestato all'imputato, aveva, ragionevolmente, evidenziato come non fossero emersi elementi positivi di valutazione ai fini della concessione delle attenuanti generiche, avendo a tal riguardo rappresentato, con valutazione di fatto non censurabile in questa sede, che l'apporto fornito dal Bove alla vita del clan non potesse essere considerato caratterizzato da minima offensività; in tal senso si è fatto riferimento al perdurare dei rapporti dell'imputato con l'intera famiglia ed all'individuazione dello stesso come punto di riferimento per la soluzione di problematiche giudiziarie. Il giudice di appello aveva, quindi, ritenuto adeguata la pena determinata dal primo giudice, considerandola bene perequata rispetto al reale disvalore del fatto alla luce dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen., rilevando di non potere concedere le attenuanti generiche alla luce della oggettiva gravità del fatto in considerazione del tipo di apporto arrecato dall'imputato al sodalizio criminoso. E sul punto, conformemente all'orientamento espresso più volte da questa Corte, deve rilevarsi che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6 n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419; sez. 2 n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163). Ed ancora, nel motivare il diniego della 22 VA-\ della mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione delle concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6 n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244). Ed inoltre le valutazioni di merito sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l'argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie. (Sez. U., n. 24 del 47289 del 24.9.2003, Rv. 226074). 3.5. Con i motivi aggiunti pervenuti in cancelleria in data 4/4/2016 (2.5.) viene sollevata una doglianza del tutto generica, e priva di qualsivoglia elemento di collegamento con la vicenda concreta sottoposta all'esame della Corte; in quanto tale, essa si rivela del tutto inidonea ad introdurre legittimamente il ricorso davanti a questa Corte. Viceversa, la motivazione della Corte territoriale, peraltro doverosamente ancorata ai profili fattuali della vicenda, appare esauriente e priva di evidenti vizi logici. Ragionevolmente diversa è la valutazione che il giudice è tenuto a compiere all'esito dell'istruttoria dibattimentale, che ha previsto l'assunzione di numerose prove a carico dell'imputato e quindi in sede di gravame proposto avverso la decisione di primo grado da quella che compete al giudice nel procedimento di prevenzione inerente l'applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. 3.6. Il primo motivo del ricorso proposto da Bove Vincenzo a mezzo dell'avv. Impradice (2.6.) attiene alla riconosciuta responsabilità dell'imputato per il reato allo stesso ascritto; con esso ci si duole del recepimento da parte della Corte territoriale delle argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado con omessa valutazione delle doglianze formulate nell'atto di appello con particolare riferimento alla mancanza di riscontri obiettivi alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa di cui agli artt. 110 416 bis cod. pen. con riferimento all'individuazione dell'apporto che il ricorrente avrebbe recato all'organizzazione ed anche con riguardo all'elemento soggettivo del reato. La doglianza si presta ad essere esaminata congiuntamente con gli ulteriori motivi contenuti nel ricorso dell'avvocato Giuliani Balestrino (2.8., 2.9., 2.10., 2.11., 2.12., 2.13., 2.14., 2.17. ) attinenti tutti, sotto diversi profili, alla ritenuta 23 RICAA„ 24/11/1999, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31.5.2000, Rv. 216260; Sez. U. n. sussistenza del delitto, contestandosi, da un lato, la ricorrenza del requisito della forza intimidatrice dell'associazione e della condizione di assoggettamento che ne deriva e, da un altro lato, il contributo arrecato alla stessa dall'imputato anche con riguardo all'indicazione 'di fatti specifici e nell'ottica di una diversa qualificazione giuridica degli stessi come millantato credito o come ipotesi di assistenza agli associati prevista dall'art. 418 cod. pen.; si eccepisce poi l'assenza di rilevanza, sotto il profilo causale, dei fatti narrati dai collaboratori e Bove essere stato rivolto a singoli partecipi dell'associazione e non al clan nel suo complesso e la mancata individuazione della natura del concorso ipotizzato, essendo stata contestata solo una condotta individuale. Si tratta, in realtà, di questioni che erano già state proposte in appello e sulle quali la Corte si è già pronunciata in maniera esaustiva, senza errori logico giuridici. In particolare, anche attraverso un rinvio alla decisione di primo grado, viene ribadito un giudizio di generale attendibilità soggettiva dei collaboratori di giustizia escussi nell'ambito del procedimento e di ricorrenza degli estremi di fatto idonei ad integrare l'ipotesi delittuosa contestata del concorso esterno in associazione mafiosa. In punto di diritto occorre rilevare che la sentenza di primo grado e quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Pertanto, il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest'ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure (sez. 1, n. 4827 del 18/3/1994, Rv. 198613; Sez. 6 n. 11421 del 29/9/1995, Rv. 203073). Inoltre, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ritiene che non possano giustificare l'annullamento minime incongruenze argonnentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione, sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di decisìvità e non risultino, di per sè, obiettivamente e intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione. In argomento, si è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione concernente l'analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione 24 la mancata individuazione di condotte causali, potendo l'apporto arrecato dal globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell'impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest'ultimo caso, implicitamente confutati. (Sez. 5 n. 3751 del 15/2/2000, Rv. 215722; Sez. 5 n. 3980 del 23/9/2003, Rv.226230; Sez. 5 n. 7572 del 22/4/1999, Rv. 213643). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità rivelano, dunque, che non è considerata automatica causa di annullamento la motivazione incompleta ne' quella implicita quando l'apparato logico relativo agli elementi elementi non menzionati, a meno che questi presentino determinante efficienza e concludenza probatoria, tanto da giustificare, di per sè, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli esiti della valutazione delle prove. In applicazione di tali principi, può osservarsi che la sentenza di secondo grado recepisce in modo critico e valutativo la sentenza di primo grado, correttamente limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di valutazione critica da parte della difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo in applicazione dei principi sopra enunciati, di esaminare quelle doglianze degli atti di appello che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice. Ed in particolare i giudici di appello hanno evidenziato come dalle diverse e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia fosse emerso il ruolo di concorrente esterno ricoperto dall'imputato rispetto al sodalizio criminoso della famiglia Vollaro, ruolo, appunto, consistito nell'assicurare all'organizzazione un supporto finalizzato a consentire agli appartenenti alla stessa di risolvere i problemi che si presentavano con le forze dell'ordine. In tale direzione la Corte territoriale ha, ragionevolmente, considerato attendibili le dichiarazioni accusatorie rese da Vollaro Ciro, ritenendo che le stesse avessero trovato un positivo riscontro nelle dichiarazioni degli altri collaboratori, quali in particolare il Di Pierno ed il Pariota; a tali elementi di riscontro si è aggiunta la testimonianza del funzionario di Polizia Vittorio Pisani, il quale, pure, aveva riferito in ordine alle entrature che il Bove aveva presso le forze di polizia. Con riferimento, poi, all'elemento soggettivo del reato, nella sentenza impugnata è stato evidenziato, in modo esaustivo, come la coscienza e volontà di rafforzare con la propria condotta l'organizzazione criminale fosse, ragionevolmente, evincibile dalla « ... stabile condotta di trait d'union riferita al Bove, aggiunta alla piena consapevolezza di questi del ritorno in termini di costante consenso da parte del clan...». 25 probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed inequivoca confutazione degli E l'affermazione è perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale, in tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il rafforzamento del sodalizio così come connotato dal suo programma delinquenziale, integrante l'evento del contributo causale del concorrente, è oggetto di dolo generico, che deve atteggiarsi come diretto e non come meramente eventuale, nel senso che lo stesso può non avere rappresentato l'obiettivo unico e primario della condotta dell'imputato, ma questi deve averlo bensì certo o comunque altamente probabile della medesima condotta (sez. 5 n. 15727 del 9/3/2012, Rv. 252330). Nel caso di specie, appunto, dalla motivazione della sentenza impugnata, letta congiuntamente con quella di primo grado, emerge che il Bove, sia pure sprovvisto della cosiddetta affectio societatis, intesa quale volontà di fare parte dell'associazione, alla luce della condotta posta in essere e dei rapporti intrattenuti con alcuni membri dell'organizzazione ricoprenti posizioni di vertice all'interno della stessa, era certamente consapevole dei metodi utilizzati e dei fini perseguiti dal sodalizio e si era reso conto dell'efficacia causale derivante dalla sua attività di sostegno e di supporto in momenti particolarmente delicati per la vita di un sodalizio mafioso, quali sono necessariamente i rapporti dei suoi membri con le forze dell'ordine, per la conservazione o il rafforzamento del clan. Significative appaiono a questo riguardo le dichiarazioni rese da Vollaro Ciro, che aveva descritto l'imputato come una persona integrata nel clan e sempre pronto a risolvere i problemi che si presentavano con le forze dell'ordine, affermazione che induceva i giudici di appello a considerare addirittura riduttiva la qualificazione del fatto ascritto al Bove come ipotesi di concorso esterno. Nell'ottica sopra evidenzia di lettura integrata della motivazione della sentenza impugnata con quella di primo grado, rileva il Collegio che, appunto, nella decisione di primo grado si trovano risposte esaustive in ordine alle ulteriori e ripetitive doglianze proposte con il ricorso per cassazione. Ed in tal senso viene evidenziato come il ruolo concretamente ricoperto dall'imputato sia stato quello di referente esterno dell'organizzazione, alla cui conservazione lo stesso aveva contribuito con varie modalità analiticamente esaminate dai giudici di merito. Ciò a conferma, al di la delle valutazioni incidentali contenute nella sentenza impugnata, della correttezza della qualificazione giuridica della condotta come ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa e non di partecipazione alla stessa. Nella ora evidenziata direzione, difatti, questa Corte ha affermato che la 26 previsto, accettato e perseguito come risultato non solo possibile e probabile, distinzione fra la partecipazione ad associazione mafiosa ed il concorso esterno non ha natura meramente quantitativa, ma è collegata all'organicità del rapporto fra il singolo e la consorteria, per cui deve essere qualificato come contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, anche se lo stesso non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre, al contrario, va qualificato come contributo concausale esterno quello dell'extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non può contare, che sia stato più base di autonome determinazioni (sez. 2 n. 34147 del 30/4/2015, Rv. 264625). Del resto, con riguardo specifico alle questioni specifiche dedotte nei motivi di ricorso in esame riferiti alla qualificazione giuridica del fatto, questa Corte ha avuto modo di precisare che l'esistenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa non è esclusa dalla presenza nell'ordinamento del reato di cui all'art. 378 comma 2 cod. pen. (favoreggiamento personale aggravato), che concerne solo una particolare forma di aiuto, prestato per agevolare l'elusione delle investigazioni e la sottrazione alle ricerche della autorità, ne' da quella del reato di cui all'art. 418 cod.pen., che incrimina solo l'assistenza agli associati, ne', infine, dalla previsione di cui all'art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991 n. 152, che è circostanza relativa ai singoli reati, diversi da quello associativo (sez. 5 n. 6929 del 22/12/2000, Rv. 219246). Ed appunto sulla base delle risultanze processuali era stato accertato che il Bove rappresentava una persona di fiducia del clan, al quale si ricorreva ogni qualvolta si presentava un problema di natura giudiziaria o investigativa che coinvolgesse qualcuno degli appartenenti al sodalizio e che la sua attività veniva di volta in volta ripagata con regali o soldi ed anche con aggiudicazione di qualche appalto ottenuto grazie all'interessamento del clan. Il contributo recato dall'imputato non presentava affatto, come sostenuto nei motivi di ricorso, carattere di astrattezza, rivestendo invece un'importanza fondamentale per la sopravvivenza dell'organizzazione criminosa, come dettagliatamente dimostrato in relazione alla vicenda del duplice omicidio Senatore Esposito. Ed inoltre detto contributo veniva a risolversi in un'attività dispiegata a favore dell'intero sodalizio, in quanto l'imputato si era dimostrato disponibile ad aiutare qualunque affiliato che venisse a trovarsi in una situazione di difficoltà. Sui connotati di mafiosità del clan Vollaro, con particolare riquadro all'esistenza della forza intimidatrice del clan stesso cui attengono specificamente 27 volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate sulla i motivi 2.8., 2.10. e 2.11., si è lungamente soffermato il giudice di prime cure, dedicando un apposito paragrafo della motivazione all'associazione a delinquere di stampo camorristico denominata clan Vollaro. Segnatamente veniva evidenziato come con sentenze irrevocabili, acquisite ai sensi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., era stato riconosciuta l'operatività del clan Vollaro nell'ambito della più vasta organizzazione denominata Nuova Famiglia prevalentemente nella zona di Portici e San Sebastiano al Vesuvio, essendo stato, altresì, accertato Ciro e Verzella Ivano, coimputati insieme al Bove nel procedimento di cui al ricorso in esame. Ed appunto ad un'associazione criminosa di questo tipo, che si avvaleva della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, come specificamente evidenziato nella sentenza di primo grado e giudizialmente accertato con le sentenze acquisite ai sensi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., Bove Vincenzo aveva fornito un contributo importante, rivelatosi in concreto, per le ragioni sopra esposte, essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione stessa. Con specifico riferimento al giudizio di attendibilità dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro, Di Perno Francesco e Pariota Francesco, poi, e quanto detto deve intendersi riferito anche ai motivi di ricorso proposti dagli altri imputati attinenti alla medesima questione, la Corte territoriale, all'esito dell'analitico esame del contributo dichiarativo fornito dagli stessi è giunta alla conclusione, puntuale in fatto e corretta in diritto, che le dichiarazioni rese dagli stessi dovessero considerarsi attendibili. A tal fine è stata oggetto di analisi, in linea con i canoni interpretativi dettati da questa Corte di legittimità, la genesi della scelta collaborativa fatta dagli stessi e la tenuta delle loro dichiarazioni nell'ambito di diversi procedimenti nonché l'assenza di intenti calunniosi e di reciproca influenza sul contenuto dei contributi resi. In ciò i giudici di merito si sono correttamente allineati alla giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la convergenza di una pluralità di dichiarazioni accusatorie non postula necessariamente la loro totale e perfetta sovrapponibilità, dovendosi, invece, ritenere necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del thema probandum, fermo restando il potere dovere del giudice di esaminare criticamente gli eventuali elementi di discrasia, onde verificare se gli stessi siano o meno da considerare rivelatori di intese fraudolente o, quanto meno, di suggestioni o condizionamenti di qualsiasi natura, idonei ad inficiare il valore della suddetta concordanza (sez. 1 n. 2328 del 28 il carattere armato dell'associazione, della quale facevano parte anche Vollaro 14/4/1995, Rv. 201294; sez. 1 n. 3070 del 20/2/1996, Rv. 204294), tenendo conto che eventuali discrasie su alcuni punti non necessariamente inficiano l'attendibilità delle dichiarazioni rese da più collaboratori (sez. 2 n. 25795 del 19/6/2012, Rv. 253418). E con specifico riferimento alla all'individuazione dei riscontri esterni alle chiamate in correità, in tema di valutazione della prova, si è affermato che essi possono anche consistere in ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali, tuttavia, devono caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza, intesa condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la cosiddetta convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell'incolpato, sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d'accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l'aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere (sez. 2 n. 13473 del 4/3/2008, Rv. 239744). 3.7. Passando al ricorso di Celli Giuseppe, la doglianza proposta con il primo motivo (2.19.) è infondata, in quanto dall'esame della stessa scansione procedimentale descritta dal ricorrente deve escludersi che si sia integrata la nullità eccepita. Difatti dagli atti risulta quanto segue: all'udienza del 2/7/2013 l'imputato Celli Giuseppe, presente, dichiarava che il suo difensore di fiducia era l'avv. Giuseppe Perna, assente e contestualmente revocava la nomina dell'altro difensore di fiducia, avv. Giovanni Formicola; la Corte, quindi, nominava difensore di ufficio dell'imputato Celli, ex art. 97 comma 4 cod. proc. pen., l'avv. Stabile; quest'ultimo dichiarava che l'imputato gli aveva comunicato che il difensore di fiducia avv. Giuseppe Perna era impedito, in quanto era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere e che per il giorno 9/7/2013 era fissata l'udienza dinanzi al Consiglio dell'Ordine per la sospensione dell'avv. Perna dall'esercizio della professione forense, sospensione poi effettivamente disposta. La Corte, in accoglimento dell'istanza di rinvio avanzata dal difensore di ufficio, rinviava la trattazione del processo all'udienza del 9/10/2013. Quindi alla suddetta udienza, la Corte, preso atto della dichiarazione delll'avv. Stabile, che comunicava che effettivamente l'avv. Perna era stato sospeso dall'esercizio della professione forense, invitava l'imputato a nominare 29 come mancanza di pregresse intese fraudolente o di suggestioni e altro difensore di fiducia, contestualmente attivando le procedure per la nomina di un difensore di ufficio, nel caso l'imputato non avesse provveduto a nomine fiduciarie ed, in accoglimento della richiesta di rinvio formulata dal difensore di ufficio nominato ex art. 97 comma 4 cod. proc. pen., rinviava all'udienza del 26/11/2013. Nello stesso tempo la Corte disponeva la trattazione del giudizio a carico di Oliviero Antonio, la cui posizione era stata inizialmente stralciata nonché la trattazione della posizione relativa all'imputato D'Amico Gennaro. Premesso quanto sopra, la Corte territoriale ha correttamente disposto la rinvio ad altra udienza onde consentire che gli stessi nominassero un difensore di fiducia o che potessero avvalersi dell'assistenza di un difensore di ufficio; a nulla rileva la circostanza che, nell'occasione, la Corte territoriale abbia disposto la trattazione delle separate posizioni processuali relative agli imputati Celli e Ferrara. In sostanza il procedimento a carico dell'attuale imputato non è stato, affatto, trattato, non potendo lo stesso dolersi genericamente dell'avvenuta separazione della posizione processuale relativa ai coimputati, nonostante si trattasse di posizioni connesse a quelle del ricorrente stesso. Deve, al riguardo, ancora rilevarsi che Celli Giuseppe è sempre stato assistito da un difensore di fiducia o di ufficio, avendo lui stesso provveduto alla revoca del secondo difensore di fiducia, allorquando si era verificato l'impedimento dell'avv. Perna; rimasto privo della difesa di quest'ultimo, la trattazione del giudizio a suo carico è stata ritualmente rinviata, non essendo stata effettuata alcuna attività processuale in alcun modo riferibile alla sua posizione. In sostanza deve ritenersi che la Corte, legittimamente, per motivi di economia processuale ha disposto, di fatto, la separazione delle posizioni processuali relative agli imputati Oliviero e D'amico, salvo poi riunirle nell'udienza successiva, pronunciando così un'unica sentenza nei confronti di tutti gli imputati. Ed al riguardo è bene ribadire che l'ordinanza con la quale il giudice di primo o secondo grado dispone la riunione o la separazione dei procedimenti è dettata da ragioni dì mera convenienza processuali, perché mira a realizzare i fondamentali principi dell'economia e della celerità del processo. Trattasi, quindi, di un provvedimento ampiamente discrezionale, a contenuto ordinatorio, insindacabile per sua natura in sede di legittimità, tranne i casi previsti dall'art. 50 cod. proc. pen., relativi alla 30 separazione della posizione processuale relativa agli imputati Celli e Ferrara con competenza funzionale ed alla mancanza di giurisdizione (sez. 1 n. 4903 del 2/6/1988, Rv. 180964). 3.8. Quanto all'eccepita estinzione del reato di cui al capo H), per intervenuta prescrizione di cui al secondo motivo proposto da Celli Giuseppe (2.20.), la Corte territoriale, rifacendosi alla decisione di primo grado, ha dato atto della permanenza del reato, con ciò escludendosi l'avvenuto decorso del termine evidenziato come, da un lato, non sia stata offerta dall'imputato la prova positiva della cessazione della sua partecipazione al clan Vollaro e, da un altro lato, siano emersi, al contrario, elementi, dettagliatamente esaminati, in forza dei quali ipotizzare che la partecipazione dell'imputato al sodalizio criminoso si sia protratta nel tempo anche successivamente all'inizio della collaborazione con la giustizia di Vollaro Ciro. Ed inoltre nella sentenza di primo grado viene evidenziato che dalle sentenze irrevocabili, acquisite ai sensi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., risultava comprovata l'esistenza del clan Vollaro fino al gennaio 2004 e questa affermazione non è stata neppure contestata dal ricorrente; anche prendendo come riferimento, ai fini della cessazione della permanenza, tale data, giudizialmente accertata, il reato a tutt'oggi non è prescritto. Difatti, dovendo applicarsi la disciplina previgente alla legge n. 251 del 2005, più favorevole, stante la previsione contenuta nell'art. 161 comma 2 cod. pen. in relazione ai reati di cui all'art. 51 comma 3 bis cod. pen., il termine massimo di prescrizione per il reato ascritto al ricorrente è pari ad anni ventidue e mesi sei (anni quindici aumentati di un mezzo per l'interruzione), cui vanno aggiunti i periodi di sospensione in primo ed in secondo grado pari a mesi tre e giorni 18 in primo grado e mesi undici e giorni diciannove in appello. In proposito deve poi evidenziarsi che, in tema di partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo fra il singolo e l'organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del carattere permanente della partecipazione soltanto l'avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato in virtù di 31 massimo di prescrizione. Segnatamente nella decisione di primo grado viene condotta esplicita, coerente ed univoca e non in base ad elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli dell'età, del subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in un luogo in cui si assume non essere operante il sodalizio criminoso (sez. 2 n. 25311 del 15/3/2012, Rv. 253070; sez. 5 n. 1703 del 24/10/2013, Rv. 258954). 3.9. Passando al terzo ed al quarto motivo di ricorso proposti da Celli Giuseppe allo stesso ascritto al capo L), in relazione alla mancanza di riscontri alle dichiarazioni rese da Vollaro Ciro e Pariota Francesco, nella sentenza impugnata è contenuta un'esaustiva motivazione in ordine alla riconosciuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del Vollaro Ciro, il quale aveva individuato nell'attuale ricorrente colui che fece da iniziale intermediario tra la persona offesa Coppola ed il clan estorsore; le suddette dichiarazioni hanno trovato conferma in quanto riferito, anche specificamente sul reato in contestazione, dal collaboratore Pariota Francesco. Segnatamente le dichiarazioni dei suddetti collaboratori, intrinsecamente attendibili per le considerazioni sopra svolte al precedente punto (3.6.), si riscontrano reciprocamente sulla base di una valutazione correttamente effettuata dalla Corte territoriale nella parte in cui ha trattato dell'attendibilità dei tre collaboratori di giustizia Vollaro Ciro, Pariota Francesco e Di Pierno Francesco. Del resto vale anche a questo riguardo la costanza giurisprudenza di questa Corte in base alla quale in tema di chiamata in correità, i riscontri dei quali necessita la narrazione possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente e, quindi, anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, ed a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto reato, ma anche la riferibilità dello stesso all'imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova autosufficiente perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (sez. 1 n. 1263 del 20/10/2006, Rv. 235800; sez. 3 n. 44882 del 18/7/2014, Rv. 260607). 32 (g ),), (2.21.; 2.22.), attinenti alla riconosciuta responsabilità dell'imputato per il reato La Corte territoriale si è anche, adeguatamente, confrontata con l'argomentazione difensiva proposta nei motivi di appello ed oggi meramente reiterata nel ricorso per cassazione (2.22.) fondata sulla circostanza che la persona offesa Coppola Antonio, nel ricostruire il fatto di estorsione commesso in suo danno, non aveva fatto riferimento ad alcun intervento del Celli, escludendo che dalle suddette dichiarazioni potesse evincersi una prova contraria rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori Vollaro Ciro e Pariota Francesco. In tale era solito presentarsi presso i titolari delle ditte da taglieggiare, e quindi anche presso il Coppola Antonio, come persona sottoposta egli stesso ad estorsione; egli cioè, sulla base della ricostruzione logica contenuta nella sentenza impugnata non contestabile in questa sede, si poneva dalla parte dei soggetti vittime delle estorsioni ed in questo modo non faceva percepire la sua partecipazione al fatto di reato. Il ricorrente, anche su questo punto, si limita a riproporre questioni di fatto che non sono censurabili in questa sede a fronte di una motivazione priva di contraddittorietà o illogicità manifeste. 3.10. Infondata risulta anche la doglianza contenuta nell'ultimo motivo proposto da Celli Giuseppe (2.23.), attinente alla mancata assunzione di una prova decisiva che sarebbe stata costituita dalla testimonianza del collaboratore Tutisco Antonio. Segnatamente i giudici di primo grado, nel provvedere in ordine alla richiesta del difensore, hanno adeguatamente giustificato l'irrilevanza della suddetta deposizione, evidenziando come anche il preteso ruolo di vittima di usura del Calli non fosse affatto incompatibile con l'assunto accusatorio oggetto del giudizio ed escludendosi qualsiasi collegamento fra i fatti ascritti all'imputato e le vicende nell'ambito delle quali lo stesso sarebbe stato sottoposto ad usura da parte di appartenenti al clan Vollaro. Ed anche nella sentenza impugnata viene dato atto, da parte della Corte territoriale, dell'irrilevanza della testimonianza di Tutisco Antonio, essendosi i giudici di appello riportati alle conclusioni dei giudici di primo grado. Valgono, sul punto, le considerazioni sopra svolte (3.3) circa la natura eccezionale della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello. 3.11. Il primo motivo di ricorso proposto da D'Amico Gennaro (2.24.) attiene alla riconosciuta attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco e risulta infondato. Specificamente, oltre a quanto già 33 direzione i giudici di appello hanno fatto riferimento alla circostanza che il Celli detto in ordine alla generale credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni rese dai suddetti collaboratori di giustizia, i giudici di appello si sono adeguatamente confrontati con le argomentazioni difensive, sviluppate nei motivi di appello e reiterate nel ricorso per cassazione, relative agli asseriti motivi di astio che avrebbe nutrito Vollaro Ciro nei confronti dell'imputato D'Amico, al punto da indurlo ad accusarlo di fatti così gravi. In tale direzione è stato rappresentato che Vollaro Ciro aveva dato una spiegazione del tutto logica sul perché D'Amico ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata, era quello di scagionare proprio Vollaro Ciro, con la consapevolezza di non potere arrecare nessun pregiudizio al fratello Antonio, in quanto quest'ultimo aveva la possibilità di avvalersi di un alibi ed essere poi scagionato dall'accusa di avere partecipato all'azione omicida. Ed ancora è stato, in proposito, evidenziato che la falsità del racconto di D'Amico Gennaro in ordine alla partecipazione all'omicidio Senatore di Vollaro Antonio aveva trovato conferma nell'assoluzione di quest'ultimo proprio dalla partecipazione al suddetto omicidio con sentenza definitiva. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, le dichiarazioni del ferito Avolio, che aveva riferito di non avere mai fatto il nome di Vollaro Antonio, ma di avere visto i due attentatori, appunto Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco, avevano trovato conferma proprio nelle dichiarazioni dello stesso Di Pierno, il quale aveva ammesso di avere commesso il duplice omicidio in danno di Michele Senatore e Fiorenza Esposito nonché il tentato omicidio in danno di Ugo Avolio in concorso con Vollaro Ciro ed un certo «Catiello». La Corte territoriale ha, inoltre, giustificato in modo esaustivo la riconosciuta attendibilità della teste Fontana Anna Maria, la quale aveva riferito di fatti che aveva appreso direttamente da D'Amico Gennaro e, con riferimento all'omicidio Senatore, anche dalla stessa appresi dall'ispettore Maiello, evidenziando altresì come dette dichiarazioni avessero trovato puntuale conferma in quanto riferito sulle medesime circostanze da Vollaro Ciro. 3.12. Con il secondo motivo proposto (2.25.) D'Amico Gennaro si duole della mancata concessione delle attenuanti generiche, evidenziando che i giudici dovevano tenere conto che il patto criminale con Vollaro Ciro si era interrotto alla fine del 1991. La doglianza è infondata, avendo la Corte territoriale, nell'ambito di un giudizio che ha portato al ridimensionamento della pena irrogata in primo grado giustificato sulla base dell'apporto fornito dal ricorrente all'associazione, 34 Gennaro avesse fatto il nome del fratello: l'intento, secondo la ragionevole escluso la possibilità di concedere le attenuanti generiche per l'assenza di elementi positivi cui ancorare detta concessione; al riguardo si è valutato che « ... anche l'ammissione di limitate circostanze di fatto, avvenuta comunque a dibattimento e non come scelta collaborativa, è stata effettuata dal prevenuto esclusivamente per escludere o ridimensionare la propria responsabilità>>.
Trattasi di valutazioni di merito congruamente motivate e come tali insindacabili

Con riferimento, poi, alla permanenza nel reato ed alla conseguente
estinzione dello stesso per decorso del termine massimo di prescrizione, la
questione risultata affrontata marginalmente nell’ambito delle doglianze relative
al trattamento sanzionatorio ed in particolare alla mancata concessione delle
attenuanti generiche; segnatamente il ricorrente, nel dolersi della motivazione
addotta dalla Corte territoriale per negare la concessione delle attenuanti
generiche ad un imputato incensurato e nel riportare passi della motivazione in
cui i giudici di appello hanno fatto riferimento alla condotta ascritta all’imputato,
evidenziando la permanenza nel reato, si è limitata a riportare un passaggio
delle dichiarazioni rese da Vollaro Oro, nell’ambito delle quali lo stesso riferiva
che D’Amico Gennaro, per l’assistenza che avrebbe prestato in favore
dell’associazione, era stato beneficiato fino alla fine del 1991 di una somma
mensile di 3 o 4 milioni; da tale data, assume in modo del tutto apodittico il
ricorrente, si sarebbe interrotto il patto criminale in seguito all’omicidio Senatore.
Per il resto il ricorso contiene stralci di note decisioni di questa Corte nell’ambito
delle quali vengono evidenziate le differenze fra la partecipazione all’associazione
di stampo mafioso ed il concorso esterno nella stessa.
Rileva, sul punto, il Collegio che D’Amico Gennaro si limita a proporre in
Cassazione una questione di fatto relativa all’accertamento della data di
commissione del reato allo stesso ascritto, questione evidentemente preclusa in
sede di legittimità, non essendo stata la stessa neppure sollevata, per quel che
risulta dalla sentenza impugnata, con i motivi di appello. Del resto dalla lettura
della sentenza di primo grado non emerge affatto che la condotta ascritta a
D’Amico Gennaro sia cessata nel 1991, risultando, al contrario, che la stessa

35

in sede di legittimità.

ebbe a proseguire, come ipotizzato nel capo di imputazione, fino al 1994.
Segnatamente i giudici di primo grado hanno evidenziato un episodio emerso
dalle dichiarazioni di Vollaro Ciro, occorso nel 1994 e sintomatico di una
persistente condotta volta a favorire il capo dell’organizzazione camorristica.
Ora, secondo le costanti affermazioni di questa Corte, il ricorrente che
invochi nel giudizio di cassazione la prescrizione del reato, assumendo per la
prima volta in questa sede che la data di consumazione del reato è antecedente

sue affermazioni, indicando gli atti ai quali occorre fare riferimento, essendo
precluso in sede di legittimità qualsiasi accertamento di merito (sez. 5 n. 46481
del 20/6/2014, Rv. 261525; sez. 4 n. 47774 del 10/9/2015, Rv. 265330). Nel
caso di specie, invece, il ricorrente si limita ad affermare in modo apodittico che
la condotta dell’imputato sarebbe cessata nel 1991, laddove dalla sentenza di
primo grado emerge chiaramente che ancora nel 1994 D’Amico Gennaro aveva
fornito a Vollaro Ciro delle informazioni su investigazioni che si stavano
svolgendo nei suoi confronti.
Deve a questo riguardo evidenziarsi in tema di accertamento della data
del commesso reato, i poteri della Corte di Cassazione non differiscono dagli
ordinari poteri del giudice di legittimità. Nel senso che il giudice di legittimità
deve prendere in considerazione la data del commesso reato contenuta nel capo
d’imputazione ovvero quella accertata dai giudici di merito; non compete infatti
alla Corte una ricostruzione fattuale estranea ai suoi compiti istituzionali (sez. 1
n. 11037 del 30/1/2001, Rv. 218617). Naturalmente il giudice di merito può
errare in questo accertamento fattuale e dunque, in questi casi, è consentito alla
parte che abbia interesse proporre ricorso deducendo o il vizio di motivazione quando l’accertamento della data del commesso reato sia avvenuto con criteri
manifestamente illogici – o il vizio del c.d. travisamento della prova che può
ravvisarsi nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su
una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da
quello reale. Non si tratta, in queste ipotesi, di reinterpretare gli elementi di
prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione ma di verificare se
questi elementi esistano o se l’informazione probatoria sia stata correttamente
introdotta nel processo.

36

rispetto a quella contestata, ha l’onere di indicare gli elementi di riscontro alle

Nel caso in esame, quindi, non può il ricorrente rimettere in discussione
un accertamento fattuale compiuto dai giudici di merito le cui decisioni, sotto
questo profilo, non hanno formato oggetto di impugnazione né di richiesta di
verifica o conferma di un accertamento che non può che essere riservato al
giudice di merito; non essendovi dubbio che esista l’interesse dell’imputato
(anche ai fini di una successiva possibilità di applicazione della causa estintiva

davanti al giudice di merito può svolgersi un effettivo contraddítorio tra le parti
del processo su un punto riguardante un accertamento fattuale.
La soluzione non muterebbe anche nel caso in cui venisse seguito un
orientamento giurisprudenziale di legittimità, apparentemente meno rigoroso,
sulla possibilità, per il giudice di legittimità, di dichiarare la prescrizione del reato
quando possa ritenersi accertata l’anteriorità della data del commesso reato;
questa possibilità, secondo questo orientamento, è subordinata all’indicazione
degli elementi di riscontro delle affermazioni del ricorrente sulla data del
commesso reato (sez. 5 n. 46481 del 20/6/2014, Rv. 261525; sez. 4 n. 47744
del 10/9/2015, Rv. 265330). Deve però aggiungersi che, anche seguendo questa
impostazione del problema, il giudice di legittimità dovrà comunque valutare se
si tratti di elementi di riscontro incontrovertibili; diversamente l’accertamento in
fatto richiesto al giudice di legittimità si scontrerà inevitabilmente con il duplice
ostacolo della formazione della ricordata preclusione e dei limiti del sindacato di
legittimità che non può estendersi ad accertamenti fattuali. Non diversamente
dai casi nei quali viene dedotto il travisamento della prova gli elementi forniti dal
ricorrente che invochi l’estinzione del reato per prescrizione – in contrasto con
quanto fino a quel momento accertato dai giudici di merito – deve indicare
elementi idonei a disarticolare da soli l’accertamento fattuale (anche implicito)
compiuto dal giudice di merito.
Il giudice di legittimità, in questi casi, deve accertare, con criteri
valutativi, che gli elementi di riscontro indicati dal ricorrente siano da soli idonei
a smentire l’accertamento senza alcuna possibilità di una diversa soluzione

37

del reato in esame) ad ottenere una pronunzia sul punto. Tanto più che solo

interpretativa. Ci troviamo infatti in presenza – è opportuno ribadirlo – di una
preclusione che si è formata con la mancata impugnazione del punto della
sentenza che riguardava la data del commesso reato. E’ ragionevole ritenere che
questa preclusione possa ritenersi superata in presenza di una prova
incontrovertibile dell’erroneità dell’accertamento – perché in questo caso si versa
in un’ipotesi di erronea percezione da parte del giudice di legittimità che

dall’art. 625 bis del codice di rito – ma non certo nei casi in cui la parte
introduca, nel giudizio di legittimità, un elemento astrattamente controvertibile.
Insomma è opinione della Corte che l’adempimento dell’onere richiesto dalla
giurisprudenza di legittimità (l’indicazione degli elementi di conferma dell’ipotesi
prospettata sulla data di consumazione del reato) riguardi esclusivamente gli
elementi di conferma incontrovertibili non smentiti né smentibili da altri elementi
di prova acquisiti al processo.
Nel caso in esame non ci troviamo in presenza di elementi dotati di
queste caratteristiche e idonei, da soli, a confermare che il reato è stato
consumato in data anteriore a quella contestata e, pertanto, la doglianza avente
ad oggetto la ritenuta cessata permanenza nel reato al 1991 e la conseguente
eccezione di prescrizione formulata dal difensore in udienza sono entrambe
infondate.

3.13. Con il primo motivo proposto (2.26), Ferrara Giuseppe si duole
dell’affermazione di penale responsabilità in ordine al reato allo stesso ascritto al
capo H), con particolare riferimento al travisamento da parte dei giudici di merito
delle risultanze processuali, in forza delle quali non era affatto emersa la prova
della partecipazione dell’imputato all’associazione camorristica dei Vollaro. La
doglianza è infondata. Rileva, al riguardo, il Collegio che, nel caso di specie, ci si
trova dinanzi ad una “doppia conforme” e cioè doppia pronuncia di eguale segno
(nel nostro caso, di condanna) per cui il vizio di travisamento della prova può
essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti
(con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è
stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione
del provvedimento di secondo grado. Invero, sebbene in tema di giudizio di

38

potrebbe, se del caso, consentire l’applicazione del procedimento previsto

Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e),
introdotta dalla legge n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento
della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione
rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una
prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata
decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d.
doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di
legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei

dal primo giudice (sez. 2 n. 5223 del 24/1/2007, Rv. 236130). Nel caso di
specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio
già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante,
è giunto alla medesima conclusione sulla responsabilità dello stesso per il delitto
di partecipazione all’associazione camorristica dei Vollaro.
Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i
principi suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regge al vaglio di
legittimità, non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della
motivazione, ovvero travisamento del fatto o della prova. Segnatamente nella
sentenza impugnata viene rappresentato come dalle risultanze processuali fosse
emerso un rapporto dell’imputato di stabile ed organica compenetrazione con il
tessuto organizzativo del clan camorristico dei Vollaro, ritenendosi altresì
accertato che lo stesso volesse fornire un contributo utile alla vita
dell’associazione ed alla realizzazione dei suoi scopi.

3.14. Per il secondo motivo proposto da Ferrara Giuseppe (2.27.), attinente alla
mancata assunzione di un prova decisiva costituita dall’assunzione della
testimonianza di Tutisco Antonio valgono le considerazioni sopra svolte al
precedente paragrafo 3.10. in relazione all’analoga doglianza proposta da Celli
Giuseppe (2.23.).

3.15. Il terzo motivo proposto da Ferrara Giuseppe (2.28.) attiene alla
riconosciuta attendibilità dei collaboratori di giustizia ed alla mancata
individuazione del contributo effettivo che il ricorrente avrebbe recato al sodalizio
criminoso dei Vollaro. La doglianza risulta infondata. Quanto alla generale
attendibilità dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco ci si
riporta alle considerazioni sopra svolte in relazione alla posizione di Bove
Vincenzo (3.6.) aventi ad oggetto ed in relazione alle analoghe doglianze

39

motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati

proposte da Celli Giuseppe (3.9.).

Con specifico riferimento alla posizione

dell’attuale ricorrente, Vollaro Ciro ebbe a riferire che Ferrara Giuseppe era parte
integrante della sua famiglia ed intratteneva rapporti non solo con lui, ma anche
con i suoi fratelli Giuseppe ed Ivano e nello stesso senso si era espresso anche il
collaboratore Di Pierno Francesco. Rispetto a queste due dichiarazioni, che si
riscontrano reciprocamente, la Corte territoriale ha individuato un ulteriore serie
di riscontri, in base ai quali era stata considerata, ragionevolmente, fondata
l’ipotesi accusatoria di partecipazione dell’imputato all’associazione mafiosa dei

Giuseppe circa i rapporti di frequentazione dallo stesso intrattenuti con Vollaro
Ciro ed i rapporti di affari intercorsi con Celli ed Oliviero; la deposizione dello
Spedaliere che aveva confermato il suo strettissimo rapporto di frequentazione
con Ferrara stesso; la testimonianza della De Crescenzo in ordine alla riunioni
tenute dal marito con Ferrara e con il Celli ed il sequestro nella disponibilità del
Ferrara di un assegno emesso in favore di Celli Giuseppe. Segnatamente era
stato accertato che il gruppo Vollaro aveva dimostrato nel tempo una notevole
capacita d’infiltrazione dell’organizzazione criminosa nelle attività economiche e
che tale era il ruolo ricoperto dal ricorrente unitamente a Celli Antonio, Oliviero
Antonio e Stajano Aniello. Quanto, infine, alla ritenuta permanenza del reato, ci
si riporta alle considerazioni sopra svolte in relazione all’analoga questione
proposta da Celli Giuseppe (3.8.).

3.16. Il quarto motivo proposto da Ferrara Giuseppe (2.29.) attiene al
trattamento sanzionatorio con riferimento alla determinazione della pena
irrogata ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche. La doglianza è
infondata. Difatti il giudice di appello ha ritenuto adeguata la pena determinata
dal giudice di primo grado considerandola bene perequata rispetto al reale
disvalore del fatto, avendo preso in considerazione, a tal fine, l’assenza di
elementi positivi sui quali fondare un trattamento più favorevole rispetto a quello
irrogato dal primo giudice. Nel ricorso si prospettano esclusivamente valutazioni
di elementi di fatto, divergenti da quelle cui è pervenuto il giudice d’appello con
motivazione sintetica, ma congrua ed esaustiva, previo specifico esame degli
argomenti difensivi attualmente riproposti. E non si presta ad essere valorizzata
nella direzione invocata dal ricorrente il decreto della Corte d’Appello di Napoli
del 28/4/2015, depositato in udienza dal difensore, con il quale veniva annullato
il decreto del Tribunale di Napoli del 10/10/2014, applicativo nei confronti del

40

P(A)

Vollaro. In tal senso sono state valorizzate le parziali ammissioni di Ferrara

ricorrente della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica
sicurezza con obbligo di soggiorno; difatti, prescindendo dalla specificità della
valutazione effettuata nell’ambito del procedimento di prevenzione, l’essere
Ferrara Giuseppe un mero affiliato del clan Vollaro e l’essere stata esclusa una
sua perdurante pericolosità sociale dell’imputato rappresentano circostanze che,
con valutazione non censurabile in questa sede, sono state considerate inidonee

bis cod. pen., essendo, peraltro, stata applicata una pena prossima ai minimi
edittali.
Ed infine anche l’ultimo motivo proposto da Ferrara Giuseppe (2.30.) è
infondato, non essendo affatto il reato estinto per prescrizione, tenuto conto
delle circostanze aggravanti contestate e della permanenza nel reato alla luce
delle considerazioni svolte in relazione all’analoga eccezione avanzata da Celli
Giuseppe.

3.17. Il primo motivo di ricorso proposto da Marino Raffaele (2.31.) attiene alla
ritenuta sussistenza nei confronti dello stesso del reato di concorso esterno in
associazione mafiosa di cui al capo C) dell’imputazione, con riferimento ai
contenuti oggettivi e soggettivi della fattispecie ed all’individuazione del
contributo che il ricorrente avrebbe dato al sodalizio criminoso. Si tratta di una
doglianza infondata, in quanto reiterativa delle analoghe questioni proposte nel
giudizio di appello e rispetto alle quali la motivazione della sentenza impugnata
non presenta profili di illogicità o contraddittorietà manifesta. Segnatamente,
anche attraverso il consentito rinvio alla decisione di primo grado, è stato
evidenziato come l’imputato, pur essendo esterno all’associazione camorristica
dei Vollaro, aveva fornito in più occasioni << ... concreti, specifici, consapevoli e volontari contributi>> che si sono rilevati effettivi ed essenziali, da un punto di
vista causale, per la conservazione ed il rafforzamento delle capacita operative
dell’associazione e della possibilità di realizzazione del programma criminoso
della stessa. Detti contributi sono scaturiti dalle dichiarazioni rese da Vollaro Ciro
e da Di Perno Francesco, ritenute per le ragioni sopra svolte attendibili e
riscontrate sulla base delle dichiarazioni rese dalla teste Fontana Anna Maria;
sulla base di esse i giudici hanno ritenuto sussistenti l’elemento oggettivo e
quello soggettivo del reato di concorso esterno all’associazione mafiosa dei
41

a giustificare una mitigazione del trattamento sanzionatorio ai sensi dell’art. 62

Vollaro. Specificamente, quanto alla contestata assenza di contributi forniti
dall’imputato all’organizzazione criminale, dalla lettura congiunta della sentenza
primo grado e di quella di appello emerge che era l’imputato a provocare
l’incontro fra D’Amico Gennaro ed Vollaro Ciro; a consentire a quest’ultimo di
evadere dagli obblighi impostigli; a consentire che le attività criminose del clan
Vollaro nel gioco clandestino potessero continuare indisturbate senza alcun
controllo; a procurare a Vollaro Ciro le palette delle forze dell’ordine; a rifornire

cui l’imputato faceva uso personale nonché una piccola parte dei proventi delle
attività illecite del clan.

3.18. Quanto al secondo motivo proposto da Marino Raffaele (2.32.) attinente
all’eccepita incompatibilità fra il concorso esterno in associazione mafiosa e la
fattispecie prevista dall’art. 416 bis comma 2 cod. pen. che prevede, come
fattispecie autonoma di reato, il ruolo del capo, promotore ed organizzatore del
sodalizio, la questione non è proponibile dinanzi al giudice di legittimità in
ragione di quanto stabilito dall’art. 606, comma 3 cod. proc. pen.; difatti, pur
essendo la stessa stata prospettata come vizio di motivazione, trattasi soltanto
di un eccepito vizio di violazione di legge che non è stata proposto con i motivi di
appello e che, pertanto, ai sensi del citato art. 606 comma 3 cod. proc. pen., non
può essere sollevato per la prima volta dinanzi a questa Corte di legittimità. Si
tratta, come stabilito da questa Corte nel ritenere manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 606 comma 3 cod. proc. pen. per
asserito contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. (sez. 2 n. 40240 del 22/11/2006,
Rv. 235504), di una ragionevole regolamentazione del diritto di ricorrere per
cassazione per violazioni di legge dettata da ragioni di funzionalità dell’intero
sistema delle impugnazioni, in virtù delle quali tale specifica impugnazione è
ammissibile solo ove la parte abbia inteso adire i tre gradi di giudizio. Ed ancora
rileva il Collegio che nella decisione di primo grado, nella parte relativa alla
determinazione in concreto del trattamento sanzionatorio irrogato all’imputato, si
è fatto riferimento alla sola aggravante prevista dall’art. 416 bis comma 4 cod.
pen., stabilendosi una pena base (anni sette di reclusione), compatibile con la
previsione legislativa fissata nella formulazione dell’art. 416 bis vigente all’epoca
dei fatti (reclusione da quattro a dieci anni).

42

l’associazione di armi; a ricevere da Vollaro Ciro settimanalmente della cocaina di

3.19. Con il terzo motivo (2.33.) Marino Raffaele denuncia travisamento della
prova in ordine alla valutazione delle dichiarazioni rese da Vollaro Ciro e Di
Pierno Francesco, per la sussistenza di contraddizioni che renderebbero il
contributo dichiarativo fornito dai due collaboratori di giustizia inidoneo a fondare
una dichiarazione di responsabilità dell’imputato per il reato allo stesso ascritto al
capo D). Il motivo di ricorso è infondato. Difatti il ricorrente omette di
considerare che nel caso di specie ci si trova di fronte ad una doppia conforme

all’impossibilita di sollevare il vizio di travisamento della prova in sede di
legittimità, se non nel solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica
deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la
prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del
provvedimento di secondo grado, il che nel caso di specie non è avvenuto.
Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi
suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regga al vaglio di legittimità,
non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione, ovvero
travisamento del fatto o della prova in ordine alla riconosciuta responsabilità
dell’impatto per il reato allo stesso ascritto al capo D), essendo stato ritenuto
dalla Corte territoriale che le divergenze nel racconto dei due collaboratori in
ordine alle modalità di consegna delle armi da parte del Marino fosse soltanto
apparente e non tale da inficiare l’attendibilità del narrato da entrambi i
collaboratori.

3.20. Il quarto motivo proposto da Marino Raffaele (2.34.) attiene al trattamento
sanzionatorio ed in particolare alla mancata concessione delle attenuanti
generiche. La doglianza è infondata, avendo la Corte territoriale, con valutazione
in fatto non censurabile in questa sede perché priva di contraddittorietà o di
illogicità manifesta, ritenuto di non concedere le attenuanti generiche in ragione
della particolare gravita dei fatti accertati e della personalità negativa
dell’imputato. Del resto, in ragione di una compiuta valutazione della gravità del
fatto alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la Corte territoriale ha
ritenuto di dovere pervenire ad un ridimensionamento dell’aumento operato per
la continuazione in relazione al reato di cui al capo D), reputando eccessivo
quello determinato dai giudici di prime cure, ma ritenendo di non poterlo
ulteriormente diminuire rispetto a quello sopra riportato in considerazione della
particolare gravita dei fatti, dato che l’imputato consentiva al clan di disporre di
43

sentenza di condanna, per cui valgono le considerazioni sopra svolte in ordine

armi, fornendo cosi un notevole apporto alla vita dello stesso.

3.22. Con il primo motivo del ricorso proposto da Oliviero Antonio (2.35.) si
denuncia vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta attendibilità delle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco ed
alla ritenuta appartenenza del ricorrente al clan Vollaro. Trattasi di questioni
infondate, perché meramente reiterative delle analoghe doglianze sottoposte al
giudice di appello e, rispetto alle quali, la motivazione della sentenza impugnata,

contraddittorietà o d’illogicità manifesta. Segnatamente, quanto all’attendibilità
dei due collaboratori di giustizia Vollaro e Di Perno, oltre a quanto già detto al
precedente punto 3.6., nella sentenza impugnata viene dato atto della
convergenza del contributo dichiarativo offerto dai suddetti collaboratori e del
particolare rigore, in termini di risultato probatorio, con il quale sono state prese
in esame le dichiarazione rese da Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco. In questa
direzione i giudici di prime cure, con valutazione confermata all’esito del giudizio
di appello, hanno ritenuto di prendere in considerazione, ai fini della prova del
reato contestato al ricorrente, nell’ambito del narrato dei due collaboratori, solo
quei fatti, riguardanti l’Oliviero, che erano stati riferiti da entrambi i collaboratori.
Quindi non si è trattato, affatto, di valutare l’attendibilità dei collaboratori in
presenza di un’accertata falsità su un fatto specifico narrato sulla base dei
principi costantemente affermati da questa Corte in tema di valutazione
frazionata dell’attendibilità di quanto riferito da un collaboratore di giustizia (sez.
6 n. 20514 del 28/4/2010, Rv. 247346); ciò in quanto non era stata accertata la
falsità di alcune delle circostanze riferite da Vollaro Ciro o da Di Pierno
Francesco, avendo i giudici di merito preso i considerazione, ai fini
dell’accertamento della responsabilità penale del ricorrente, solo i fatti riferiti da
entrambi i collaboratori; in sostanza, una volta accertata l’attendibilità
estrinseca dei collaboratori Vollaro Ciro e Di Pierno Francesco, sono stati ritenuti
riscontrati solo quegli episodi che hanno formato oggetto di narrazione da parte
di entrambi.
Ciò si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte in base alla
quale le dichiarazioni rese da due collaboratori possono anche riscontarsi
reciprocamente, a condizione che si proceda comunque alla loro valutazione
unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, in
maniera tale che sia verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato,
rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano
44

anche attraverso il rinvio alla decisione di primo grado, non presenta profili di

soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano
sintomatiche di un’insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi (sez. 1 n. 7643
del 28/11/2014, Rv. 262309).
E così specificamente la Corte territoriale ha adeguatamente motivato in
ordine a la ritenuta attendibilità di quanto riferito da entrambi i collaboratori circa
la condotta ascritta al ricorrente di avere favorito la latitanza di Vollaro Ciro,
essendo risultato che lo stesso era stato ospitato presso l’abitazione della sorella
del ricorrente Oliviero Luisa, facendosi carico delle argomentazioni difensive

idonee a minare la credibilità di quanto riferito da Vollaro Ciro e Di Pierno
Francesco in ordine allo specifico episodio in argomento; ha ritenuto inverosimile
la deposizione della De Crescenzo Rosa, moglie di Vollaro Ciro, che ha riferito di
non ricordare il nome dell’Oliviero; ha valutato, ragionevolmente, la circostanza
che il nome dell’Oliviero non era stato inserito nel memoriale consegnato dal Di
Pierno all’inizio della sua collaborazione; ha ritenuto accertata la presenza
dell’Oliviero alla cena presso il ristorante “La Stalla” di Ercolano.
Quanto, poi, al mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale, peraltro riportata nel ricorso in modo
estremamente generico non essendo stata specificamente indicata quale fosse la
prova da assumere nel giudizio di appello (si parla di « … comprovare che non
vi era necessità alcuna per Ciro Vollaro di utilizzare il ricorrente come
prestanome nelle predette attività …>>, dalla lettura della sentenza impugnata
emerge che, anche implicitamente, ed in considerazione della natura eccezionale
del rimedio della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale del giudizio di
appello (ci si riporta sul punto a quanto argomentato al precedente punto 3.3.),
non si è ritenuto necessario svolgere ulteriori accertamenti nel giudizio di
appello, in ordine alla necessita per il Vollaro utilizzare Oliviero quale suo
prestanome.
Le valutazioni fin qui svolte in ordine alla ritenuta attendibilità delle
dichiarazioni rese da Di Pierno Francesco consentono di ritenere infondata anche
la doglianza contenuta nel secondo motivo di ricorso proposto da Oliviero
Antonio (2.36.). Segnatamente dalla lettura della sentenza impugnata, da
effettuarsi, per le considerazioni già svolte unitamente a quella di primo grado,
unitamente a quella di primo grado è stata esclusa qualsiasi possibilità di
condizionamento ed influenza reciproca fra i due collaboratori Vollaro Ciro e Di

45

sviluppate nel gravame e, ragionevolmente, ritenendo che le stesse non fossero

Pierno Francesco.

3.23. Con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto contestato, cui attiene il
terzo motivo proposto da Oliviero Antonio (2.37.), nella sentenza impugnata si è
fatto riferimento all’analitica ricostruzione del ruolo ricoperto dal ricorrente quale
prestanome di Vollaro Ciro, così come emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori

viene, in linea con la giurisprudenza di questa Corte, esclusa la possibilità di
ricondurre i fatti accertati nell’ambito del reato di quello di favoreggiamento
personale, piuttosto che di quello di partecipazione ad associazione di stampo
mafioso, del quale sussistono tutti gli estremi oggettivi e soggettivi. In tale
direzione risulta, ragionevolmente, valorizzato il ruolo ricoperto dal ricorrente
quale prestanome di Vollaro Ciro nello svolgimento da parte dello stesso di
attività economiche proprie del clan, avendo lo stesso così fornito un rilevante
contributo all’esistenza del sodalizio criminoso.
La decisione assunta si pone pienamente in linea con la giurisprudenza di
questa Corte, in base alla quale si è, costantemente, affermato che integra il
delitto di partecipazione ad associazione mafiosa e non quello di
favoreggiamento personale aggravato ex art. 7 legge n. 203 del 1991 l’aiuto
prestato a favore del massimo esponente di vernice di un’organizzazione mafiosa
durante la sua latitanza, consistito in interventi volti a consentirgli il
mantenimento della sua capacita gestionale nell’ambito delle attività economiche
riconducibili al clan (sez. 6 n. 5909 del 6/12/2011, Rv. 252406); ciò è quanto
risulta essere avvenuto nel caso di specie, avendo i giudici di merito, con
argomentazioni in fatto non censurabili in questa sede, rilevato come il ricorrente
avesse, da un lato favorito la latitanza di Vollaro Ciro, che era stato ospitato
presso l’abitazione di Oliviero Luisa, sorella di Oliviero Antonio, e da un altro lato
avesse assunto il ruolo di prestanome dello stesso nello svolgimento di attività
economiche proprie del clan.

3.24. Quanto infine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, di cui
si occupa l’ultimo motivo proposto da Oliviero Antonio (2.38), la Corte territoriale
ha ritenuto che non potessero essere concesse le attenuanti generiche alla luce
dell’assenza di un comportamento

post factum

o processuale valutabile

positivamente ai fini di una mitigazione del trattamento sanzionatorio. E trattasi,

46

di giustizia; in forza di tale valutazione in fatto, non rivedibile in questa sede,

come già detto in relazione alla posizione degli altri ricorrenti, di valutazioni di
merito congruamente motivate che non possono essere riviste in sede di
legittimità.

3.25. Passando all’esame del primo motivo del ricorso di Ribellino Agostino
(2.39), la doglianza si rivela meramente reiterativa dell’analoga questione
proposta con i motivi di appello, rispetto alla quale la risposta resa dalla Corte

come le dichiarazioni rese da Vollaro Ciro siano state legittimamente acquisite
agli atti del dibattimento, non potendo certo considerarsi il suicidio come
un’ipotesi di volontaria sottrazione dello stesso al controesame.
In proposito tempo addietro, ma il principio si presta ad essere oggi
ribadito in relazione alla fattispecie di cui al motivo di ricorso in esame, la
giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare che la disposizione di
cui all’art. 512 cod. proc. pen., secondo la quale può darsi lettura degli atti
assunti dalla polizia giudiziaria, dal RM., dai difensori e dal giudice nel corso
dell’udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne sia
divenuta impossibile la ripetizione, è applicabile anche in caso di morte del
dichiarante dovuta a suicidio, evento che non può essere equiparato alla
volontaria sottrazione all’esame di cui alla disposizione prevista dall’art. 526,
comma 1-bis, stesso codice, la quale presuppone, in ogni caso, la potenziale
attuabilità dell’audizione (sez. 1 n. 2596 del 22/11/2002, Rv. 223252). Nel caso
di specie è avvenuto che non è stato possibile solo il controesame di Vollaro Ciro
da parte del difensore del ricorrente, in quanto nel corso del dibattimento e
prima che potesse svolgersi il controesame da parte del difensore di Ribellino
Agostino, Vollaro Ciro si era suicidato. E certo non è possibile ritenere che le
dichiarazioni di Vollaro Ciro fossero inutilizzabili, per essersi lo stesso sottratto,
volontariamente, con il suicidio, al controesame dibattimentale da parte del
difensore di Ribellino Agostino. Difatti anche nella fattispecie in esame deve
ritenersi applicabile, anche in seguito all’entrata in vigore dell’art. 111 Cost., la
previsione contenuta nell’art. 512 cod. proc. pen., in forza della quale in caso di
morte del dichiarante, anche in seguito a suicidio, può darsi lettura degli atti
assunti dalla Polizia Giudiziaria, dal Pubblico Ministero dal difensore e dal giudice
nel corso dell’udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili,
ne sia divenuta impossibile la ripetizione; nel caso di specie, poi, si trattava di
dichiarazioni già facenti legittimamente parte del fascicolo del dibattimento in

47

territoriale risulta non censurabile in questa sede. Segnatamente è stato rilevato

quanto Vollaro Ciro era stato già ripetutamente esaminato da altre parti
processuali nel corso di precedenti udienza. Il suicidio non può poi essere
equiparato ad una volontaria sottrazione al controesame, in quanto l’art. 526
comma 1 bis cod. proc. pen. presuppone pur sempre che l’audizione sia
comunque potenzialmente attuabile, come quando, ad esempio, il dichiarante si
sia reso volontariamente irreperibile, ipotesi nella quale la sua escussione è

3.26. Quanto al secondo motivo proposto da Ribellino Agostino (2.40), inerente il
calcolo della pena, dalla lettura della sentenza impugnata emerge chiaramente
che la Corte territoriale, nel ridurre la pena rispetto a quella irrogata in primo
grado in considerazione del grado di partecipazione del ricorrente ai fatti, ha
fatto espresso riferimento all’ipotesi di estorsione tentata e la pena applicata
risulta pienamente compatibile con i limiti edittali previsti dagli artt. 56 629
comma 2 cod. pen. Ciò consente di ritenere infondata la doglianza proposta.
Come pure ugualmente infondata è la questione proposta da Ribellino Agostino
con il terzo motivo (2.41.), inerente il trattamento sanzionatorio irrogato e la
mancata concessione delle attenuanti generiche. E difatti la Corte territoriale ha
adeguatamente argomentato in ordine all’impossibilita di concedere le attenuanti
generiche, non avendo ravvisato alcun segno positivo,

post factum

o

processuale, sintomatico di resipiscenza, che possa risultare utile per valutare in
termini più favorevoli la personalità del ricorrente, essendo stata, in proposito,
considerato irrilevante lo stato di incensuratezza. Del resto già si è detto in ordine
all’intervenuta riduzione della pena in rapporto alla partecipazione del Ribellino ai
fatti. A nulla rileva la circostanza, cui si fa riferimento nei motivi aggiunti
pervenuti in cancelleria in data 14/4/2016, relativa al rigetto da parte del
Tribunale di Napoli della proposta di sottoposizione dell’imputato alla misura di
prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di
soggiorno, per la diversità di valutazione che si compie nel procedimento di
prevenzione, come già evidenziato al precedente punto 3.6.

3.27. Il primo motivo del ricorso proposto da Sabatino Carmine (2.42.) attiene,
in primo luogo, alla riconosciuta attendibilità delle chiamate in correità ai fini
dell’affermazione di penale responsabilità del ricorrente per il reato allo stesso

48

comunque astrattamente possibile ove si addivenga al suo rintraccio.

ascritto al capo F). Valgono, al riguardo, le considerazioni già svolte in ordine alla
riconosciuta attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dai
collaboratori di giustizia Vollaro Ciro, Di Pierno Francesco e Pariota Francesco,
alle quali si sono aggiunte quelle di Sabelli Pietro nonchè gli altri elementi di
riscontro emersi dall’attività investigativa. Anche in questo caso il motivo
proposto risulta meramente reiterativo dell’analoga questione prospettata in
sede di appello e rispetto alla quale la risposta fornita dalla Corte territoriale non

conforme, il vizio di travisamento della prova non può essere riproposto in sede
di legittimità, laddove la Corte territoriale abbia esaminato lo stesso materiale
probatorio valutato dal giudice di prime cure. Difatti, quanto alla non perfetta
sovrapponibilità delle dichiarazioni dei collaboratori, nella sentenza impugnata
viene evidenziato come fossero risultate del tutto irrilevanti le eccepite
differenze, a fronte di dichiarazioni cosi convergenti in ordine al contributo
fornito dal Sabatino al sodalizio camorristico. Cosi specificamente dalla lettura
della sentenza impugnata non emergono le denunciate contraddizioni in cui
sarebbe incorso Sabelli Pietro nelle sue dichiarazioni accusatorie rivolte nei
confronti del ricorrente, essendo, invece, emersi riscontri a quanto dallo stesso
riferito dalle dichiarazioni di Pariota Francesco e di Di Pierno Francesco; nè
emergono motivi idonei fare dubitare dell’attendibilità di quanto riferito da Di
Pierno alla luce della circostanza riferita nel ricorso circa il trasferimento del
Sabatino alla caserma di Ponticelli, essendo state inoltre, ragionevolmente,
considerate irrilevanti le eccepite divergenze in ordine alle diverse dichiarazioni
rese dal collaboratore.
Con riferimento poi all’avvenuta utilizzazione di un’intercettazione
telefonica che non farebbe parte del procedimento, dalla lettura della sentenza di
primo grado, richiamata dalla sentenza impugnata, emerge che non si è trattato
affatto dell’ipotesi denunciata nel motivo di ricorso in esame; piuttosto nella
sentenza di primo grado viene dato atto della testimonianza del maresciallo
Bonarrigo Antonio, il quale aveva riferito in ordine ad alcune indagini relative
all’imputato nel corso delle quali erano emerse delle intercettazioni tra Ursano
Bruno e Vigilante Ciro in cui il primo ordinava al secondo di dare al carabiniere,
da identificare appunto nel Sabatino, tutti i capi di abbigliamento di cui aveva
bisogno. E nella sentenza di appello si chiarisce ulteriormente che il maresciallo
Bonarrigo si era limitato a riferire che il Sabatino era stato trasferito per via della

49

presenta profili di illegittimità, tenuto anche conto che, in caso di doppia

sopra richiamata intercettazione fra Ursano ed Vigilante. In sostanza, quindi,
legittimamente, la Corte territoriale ha ritenuto di potere ravvisare un riscontro
esterno alle affermazioni del collaboratore Sabelli che aveva parlato, tra l’altro,
del motivo per cui Sabatino Carmine era stato trasferito, nella circostanza che il
Maresciallo Bonarrigo aveva confermato che proprio quello era stato il motivo del
trasferimento del Sabatino stesso.
Quanto, poi, alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale,
nella sentenza impugnata i giudici di appello hanno evidenziato come il quadro

necessitasse di alcun ulteriore approfondimento istruttorio, essendo stato
accertato in modo chiaro il contributo fornito dal ricorrente al sodalizio criminoso.
Valgono, al riguardo, le considerazioni sopra svolte in ordine alla natura
eccezionale della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello.
Con riferimento alla genericità del contributo dichiarativo dei collaboratori
di giustizia in ordine ai comportamenti concreti e specifici ascritti all’imputato che
avrebbero influito sul mantenimento in vita ed il rafforzamento dell’associazione,
la Corte territoriale ha parlato di un costante apporto illecitamente fornito dal
Sabatino al clan Vollaro; specificamente Di Píerno Francesco ha riferito che
Sabatino Carmine era a libro paga del gruppo criminale per il suo contributo
fornito ab extemo nel settore degli stupefacenti; si è fatto riferimento, da parte
di Vollaro Ciro, allo sfruttamento da parte del clan delle informazioni
investigative che forniva il Sabatino; sono stati narrati, da parte di Sabelli,
episodi di consegna di droga in favore di Sabatino in cambio di armi e munizioni;
il collaboratore Pariota, poi, ha consegnato personalmente il mensile da parte del
clan al Pariota.
Si tratta di numerose dichiarazioni per nulla generiche e risultate tutte
riscontrate in forza delle quali si è ritenuto sussistente, in linea con la costante
giurisprudenza di questa Corte, il delitto di concorso esterno in associazione
mafiosa. In tale senso, infatti, si è ritenuto che integra la fattispecie del concorso
esterno in associazione di tipo mafioso, e non quella di favoreggiamento
continuato, la condotta reiterata e continuativa di rivelazione a membri del
sodalizio criminale di notizie relative ad indagini svolte nei loro confronti
dall’autorità (sez. 5 n. 22582 del 23/3/2012, Rv. 252789). Ed anche
recentemente questa Corte ha affermato che integra il concorso esterno in
associazione mafiosa la condotta di un appartenente alle forze di polizia
giudiziaria che fornisce ripetutamente agli esponenti apicali di una cosca notizie

50

probatorio emerso a carico dell’imputato fosse risultato del tutto granitico e non

in ordine ad indagini in corso, ad operazioni preventive in preparazione e ad
iniziative di polizia in danno degli affiliati, in tal modo rendendo più sicuri i piani
criminali del sodalizio e favorendone l’ideazione e l’esecuzione (sez. 6 n. 11898
del 13/11/2013, Rv. 259442).

3.28. Passando al secondo motivo del ricorso proposto da Sabatino Carmine
(2.43.), deve rilevarsi che dalla sentenza impugnata, letta congiuntamente a

sia cessata con il trasferimento dello stesso dalla stazione di Portici.
Segnatamente nella sentenza di primo grado, il che vale anche in risposta al
precedente motivo di ricorso, viene evidenziato come il contributo esterno del
Carabiniere Sabatino al clan Vollaro fosse stato offerto in diversi momenti, anche
successivamente all’allontanamento dello stesso dalla Stazione di Portici e si
fosse concretizzato sia in condotte attive consistite in informazioni preventive
circa perquisizioni o sequestri ed altre attività d’indagine, sia in condotte
omissive, quali omissione di doverose attività investigative di polizia giudiziaria e
fosse risultato diretto all’organizzazione nel suo complesso e non in favore di
singoli compartecipi. Valgono, in proposito, le considerazioni sopra svolte al
precedente punto 3.12. in ordine alla particolare natura del giudizio di legittimità
che non consente di procedere ad un accertamento in fatto onde verificare una
diversa data di commissione del reato, tenuto anche conto che la stessa non
risulta essere stata neppure prospettata nei motivi di appello.

3.29. Quanto all’ultimo motivo del ricorso proposto da Sabatino Carmine (2.44.),
attinente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la motivazione
della sentenza impugnata non presenta profili censurabili in questa sede, avendo
la Corte territoriale fatto riferimento alla personalità estremamente negativa del
Sabatino, quale emersa dalla contiguità dello stesso al clan in violazione dei
doveri di servizio e dalla persistenza della condotta anche dopo il trasferimento
dalla Stazione Carabinieri di Ercolano.

2.30. Quanto al primo motivo del ricorso proposto da Salvatore Ciro (2.45.),
correttamente la Corte territoriale, sia pure non distinguendo le ipotesi di reato
consumate da quelle tentate, ha escluso che il reato fosse estinto per
prescrizione, non essendo affatto maturato il relativo termine anche in relazione
al reato di cui al capo R). Ora, prescindendo dal precedente citato dal ricorrente,
che si riferisce ad un ricorso in materia di riparazione per ingiusta detenzione e

51

OAA-

quella di primo grado, non emerge affatto che la condotta ascritta all’imputato

non contiene nessun riferimento al termine di prescrizione del delitto di tentata
estorsione aggravata (sez. 4 n. 24631 del 12/3/2014), occorre, sulla base della
normativa previgente, più favorevole rispetto a quella introdotta con la legge n.
251 del 2005, fare riferimento alla pena detentiva massima prevista dall’art.
629 comma 2 cod. pen. fissata in venti anni di reclusione; su detta pena si
calcola la diminuzione di un terzo per il delitto tentato, pervenendosi ad una
pena massima di anni tredici e mesi quattro di reclusione, pena alla quale deve

prevista dall’art. 7 legge n. 203 del 1991; si giunge così ad una pena massima,
da prendere in considerazione solo agli effetti del calcolo del termine di
prescrizione, pari ad anni venti; il termine di prescrizione massimo, quindi, ai
sensi degli artt. 157 e ss cod. pen. nella formulazione previgente all’entrata in
vigore della legge n. 251 del 2005, risulta pari ad anni ventidue e mesi sei (anni
quindici più un mezzo); a detto termine massimo vanno aggiunti i periodi di
sospensione della prescrizione, risultanti dalle sentenze in atti (mesi undici e
giorni diciannove nel giudizio di appello e nel giudizio di primo grado (mesi tre e
giorni diciotto), per un totale di anni uno, mesi tre e giorni sette; ne deriva che il
termine non era affatto decorso alla data della pronuncia della sentenza
impugnata e neppure è decorso oggi.

2.31. Passando all’esame del secondo motivo di ricorso proposto da Salvatore
Ciro (2.46.), rileva il Collegio che al ricorrente non è stata affatto contestata
l’appartenenza al sodalizio criminoso dei Vollaro, quanto, invece, l’avere
commesso la tentata estorsione descritta al capo R) con la finalità di agevolare
l’attività del sodalizio dei Vollaro; a nulla rileva, quindi, la circostanza dedotta nel
ricorso che il Salvatore sia stato mandato assolto, in altro giudizio, con sentenza
definitiva, dalla contestata partecipazione al clan camorristico dei Vollaro,
avendo, invece, la Corte territoriale motivato in modo esaustivo in ordine alla
sussistenza della suddetta finalità di agevolare l’attività del suddetto clan. In tale
direzione i giudici di appello hanno evidenziato come la condotta estorsiva,
accertata, fra gli altri, a carico dell’imputato, rientrava nell’attività di
procacciamento del guadagno propria del clan e come tale si risolveva in
un’attività agevolatrice dello stesso.

52

essere aggiunto l’aumento di un mezzo per l’aggravante ad effetto speciale

Con riguardo alle ulteriori doglianze contenute nel ricorso in esame, la
Corte territoriale ha evidenziato come la responsabilità dell’imputato in ordine al
fatto descritto al capo R) dell’imputazione fosse emersa in modo inequivocabile
dalle dichiarazioni di Vollaro Ciro, il quale aveva spiegato che Salvatore Ciro
aveva partecipato alla tentata estorsione in danno del geometra Di Fiore e dal
riconoscimento operato dalla persona offesa, la quale ha indicato il Salvatore
come uno dei soggetti che avevano avanzato la richiesta di tangente.
Con specifico riferimento al riconoscimento fotografico effettuato dalla

Collegio di dovere, in adesione al costante orientamento di questa Corte
regolatrice (sez. 5 n. 37694 del 15/7/2008, Rv. 241299), verificare se dalla
suddetta prova, fondatamente contestata, si possa prescindere per la decisione.
Ciò sulla base del cosiddetto criterio di resistenza applicabile anche nel giudizio
di legittimità, nel senso di valutare se gli elementi di prova acquisiti
illegittimamente o, come nel caso di specie, travisati abbiano avuto un peso
reale sulla decisione del giudice di merito; si tratta, appunto, di valutare la
struttura argomentativa della decisione impugnata, al fine di stabilire se la scelta
di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa anche senza l’utilizzazione
di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sé sufficienti a
giustificare l’identico convincimento (Sez. 5 n. 569 del 18/11/2003, Rv. 226972;
sez. 6 n. 10094 del 22/2/2005, Rv. 231832). Ed in applicazione di tali principi
rileva il Collegio che dalla lettura della sentenza impugnata emerge come il fatto
contestato risulti compiutamente accertato sulla base delle dichiarazioni rese da
Vollaro Ciro, considerate legittimamente attendibili, in quanto confortate da
ulteriori elementi probatori rappresentanti dalle dichiarazioni resa da Di Pierno
Francesco; in tale direzione dall’argomentare dei giudici di merito risulta che il
riconoscimento in contestazione abbia rappresentato soltanto un ulteriore
elemento di riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori Vollaro Ciro e Di Pierno
Francesco, considerate già, in forza di altri elementi, attendibili. Le su esposte
considerazione ed in particolare il ricorso al sopra enunciato criterio di resistenza
impongono di ritenere infondato il motivo di ricorso dedotto, prescindendosi dal
presunto riconoscimento da parte della persona offesa.
Quanto alla sentenza del Tribunale di Nola del 6/8/1997, rileva il Collegio
che la Corte territoriale si è limitata a dare atto che, con la citata decisione, sono
state definite le posizioni dei coimputati Vollaro Ciro, Barba Giovanni e Accennato
Antonio; detta sentenza è stata, quindi ragionevolmente, valorizzata per
riconoscere l’attendibilità di quanto riferito dai collaboratori Vollaro Ciro e Di

53

0,tA/

persona offesa, che viene ragionevolmente contestato nel ricorso, ritiene il

Pierno Francesco.

2.32. Con riferimento infine al terzo motivo proposto da Salvatore Ciro (2.47.),
la Corte territoriale ha giustificato la mancata concessione delle attenuanti
generiche sulla base della personalità negativa del ricorrente, risultato in stretto
rapporto con Vollaro Ciro nonché sulla base dell’assenza di elementi positivi
ulteriori da valutare ai fini di una mitigazione del trattamento sanzionatorio.

questa sede, non essendo ravvisabile alcun vizio di legittimità, a nulla rilevando il
rigetto da parte del Tribunale di Napoli della richiesta di applicazione nei
confronti dell’imputato della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di
pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza;
segnatamente il giudizio espresso sulla mancanza di attualità della pericolosità
sociale di Salvatore Ciro espresso dal Tribunale di Napoli non incide affatto sulla
ragionevole negazione della concessione delle attenuanti generiche sulla base
delle argomentazioni sopra riportate. A ciò consegue l’infondatezza della
doglianza proposta.
Ugualmente infondata è la questione posta con il quarto motivo proposto
da Salvatore Ciro (2.48.), attinente alla mancata applicazione nel calcolo della
pena irrogata in concreto della riduzione prevista per il delitto tentato; la pena
assunta come base del calcolo per il delitto tentato di cui agli artt. 56 629
comma 2 cod. pen. risulta pienamente compatibile con la sanzione
astrattamente prevista nella fattispecie incriminatrice. Del resto dalla lettura
della sentenza di primo grado emerge chiaramente, dal riferimento alla pena
irrogata ai soggetti che rispondevano del medesimo reato di cui al capo R), che i
giudici hanno ritenuto riferirsi alla pena prevista per il delitto di tentata
estorsione aggravata.
Quanto, infine, alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di
cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, cui attiene l’ultimo motivo proposto da
Salvatore Ciro (2.49.), rileva il Collegio che all’imputato è stato contestato di
avere commesso il fatto al fine di agevolare le attività camorristiche del clan. Il
provvedimento impugnato contiene un’articolata ed esaustiva motivazione,
puntuale in fatto e conforme ai principi di diritto più volte affermati da questa
Corte di legittimità, in ordine alla ritenuta configurabilità a carico del ricorrente
della circostanza aggravante di cui all’art. 7 legge 203/1991.

54

Trattasi di una valutazione di merito che non si presta ad essere censurata in

Rileva, al riguardo, in via preliminare, il Collegio che l’art. 7 legge n. 203
del 1991 configura due diverse ipotesi di circostanze aggravanti: la prima si
applica al reato commesso da un soggetto, appartenente o meno all’associazione
di cui all’art. 416 bis c.p., che si avvale del metodo mafioso; tale è quella
condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica fatta di
intimidazione su un numero determinato o indeterminato di persone. Non deve
formare oggetto di prova ai fini dell’integrazione dell’aggravante l’esistenza
dell’associazione mafiosa, essendo sufficiente avere ingenerato nella vittima del

senso si è espressa questa Corte nell’individuare la ratio della circostanza
aggravante in argomento: <

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