Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28735 del 30/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28735 Anno 2016
Presidente: GRILLO RENATO
Relatore: DE MASI ORONZO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da

LA MATTINA GIOVANNA nata a Catania il 23/4/1960

avverso la sentenza in data 22/4/2015 della Corte di Appello di Catania;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Oronzo De Masi;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mario
Fraticelli, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

Data Udienza: 30/03/2016

RITENUTO IN FATTO

LA MATTINA GIOVANNA ricorre per cassazione, tramite il difensore fiduciario,
impugnando la sentenza emessa, in data 22/4/2015, dalla Corte di Appello di
Catania che ha parzialmente riformato quella resa, in data 17/11/2014, dal
G.I.P. del Tribunale di Catania, a seguito di giudizio abbreviato, con la quale
l’odierna ricorrente veniva dichiarata responsabile del reato di cui all’art. 73, c.
4, D.P.R. 309/1990 e condannata alla pena di anni tre, mesi sei e giorni dieci di

Alla predetta imputata è contestato di aver detenuto a fini di spaccio sostanza
stupefacente del tipo marijuana, del peso di Kg. 1,100, e la Corte territoriale,
con l’impugnata sentenza, ha rideterminato la pena inflitta per il reato, escluso
l’aumento per la recidiva, ad anni due e mesi otto dì reclusione ed euro
3.000,00 di multa.
La ricorrente propone due motivi di doglianza.
Con il primo, deduce, ai sensi dell’art. 606, c..1, lett.

b) ed e), c.p.p, in

relazione agli artt. 192 c.p.p. e 530 c.p.p., l’errata valutazione delle prove in
ordine alla sussistenza della penale responsabilità dell’imputata “al di là di ogni
ragionevole dubbio”, nonché motivazione carente e contraddittoria sia in punto
di fatto che di diritto. Evidenzia la difesa della LA MATTINA che la decisione si
basa essenzialmente sulla percezione sonora di alcuni rumori da parte degli
agenti che erano intervenuti presso l’abitazione della donna, cui era stata
ricondotta la disponibilità delle due buste di plastica di colore rosa rinvenute sul
tetto sottostante le finestre dell’abitazione medesima, elemento certamente
suggestivo ma non univoco, come pure quello del ritrovamento nella casa di tre
buste simili, trattandosi di comuni buste di plastica per la spesa.
Con il secondo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, c..1, lett. b) ed e), c.p.p,
in relazione all’art. 62 bis c.p., la carente, insufficiente e contraddittoria
motivazione sul diniego di concessione delle attenuanti generiche e sul mancato
contenimento della pena entro i minimi edittali, avendo la Corte territoriale dato
rilievo all’assenza di segni positivi di emenda, all’entità della droga sequestrata,
alla desumibile consistenza dell’attività di spaccio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.
Quanto al primo motivo di doglianza, giova premettere che dall’articolo 192,
comma 2, c.p.p., si ricava il principio in base al quale al giudice non è precluso

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reclusione ed euro 3.000,00 di multa.

trarre elementi di convinzione da indizi, vale a dire da circostanze note, non
direttamente rappresentative del fatto da provare.
Il giudice ha, peraltro, il dovere di scegliere tra gli elementi probatori offerti al
suo esame quelli ritenuti più idonei al conseguimento della giusta decisione,
purché, ove non direttamente rappresentativi del fatto da provare, risultino
gravi, precisi e concordanti.
La Corte dì appello ha desunto che il reato è stato commesso dall’imputata 4 da
una serie di circostanze e considerazioni: gli agenti che si erano appostati sotto

del portone per entrare nell’edificio,

colleghi avevano suonato al citofono

avevano sentito un rumore metallico proveni

da una delle finestre e poi un

tonfo; essi avevano poi accertato che la grata di una finestra era accostata, che
sul davanzale c’erano una catena ed un lucchetto e che nell’aprire la finestra e
togliere la catena si provocava lo stesso rumore metallico che avevano udito
poco prima; gli stessi agenti avevano infine riferito che sul tetto sottostante le
predette finestre vi erano due buste di colore rosa con all’interno marijuana e
che nell’abitazione della donna c’erano altre buste del tutto uguali.
E’ di tutta evidenza l’idoneità delle anzidette circostanze a dimostrare che fosse
stata proprio l’odierna ricorrente a disfarsi delle due buste contenenti la sostanza
stupefacente, apparendo implausibile, data la descritta situazione dei luoghi e
l’orario notturno in cui l’intervento delle forze di polizia fu eseguito, che esse
potessero essere state gettate sul tetto sottostante le finestre della sua
abitazione da altri, posto che “l’unica finestra che dava sul tetto e che era aperta
era quella della La Mattina la quale, dopo avere sentito bussare al citofono, si
disfaceva repentinamente della droga gettandola dalla finestra (tonfo
chiaramente percepito dagli agenti) e poi apriva agli agenti”.
Nessun dubbio era stato nutrito neppure dal Giudice di primo grado, che aveva
evidenziato non solo come l’imputata avesse avuto tutto il tempo necessario per
compiere “detta operazione attraverso la finestra della sua abitazione prima di
aprire la porta ai poliziotti” atteso che questi ultimi avevano attestato nel
verbale di arresto di aver “per qualche minuto” e senza risposta “suonato
ripetutamente al citofono”.
Ed anche il rinvenimento, in un cassetto della cucina, di tre buste di plastica
“identiche a quelle ove era custodita la sostanza stupefacente gettata dalla
finestra”

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mito per avere una indubbia valenza indiziaria.

La ricostruzione dei fatti, come sopra descritta, è stata ampiamente e
coerentemente giustificata dal Giudice d’appello e la motivazione dell’impuganta
sentenza si caratterizza per la chiarezza dimostrativa delle ragioni per le quali è
stata confermata l’affermazione di responsabilità della ricorrente.
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le finestre poste sul retro dell’abitazione della La Mattina ed allorché i loro

La gravità del quadro indiziario a carico della donna appare evidente e questa
Corte non può che limitarsi a controllare la congruenza della motivazione
riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica
e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.
Va peraltro posto in rilievo che la giurisprudenza di legittimità si è più volte
espressa nel senso che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione,
l’impostazione della struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con
quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo,

dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando
frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino
nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della
decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/7/2013, Sez. 4, n. 38824 del 17/9/2008, Sez.
1, n. 8868 del 26/6/2000, Rv. 216906).
L’integrazione tra le due motivazioni si realizza non solo allorché i giudici di
secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri
omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle
determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico – giuridici della decisione, ma
anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato
elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed
ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926
del 1/12/2011,dep.12/4/2012).
Quanto al secondo motivo di doglianza, concernente il diniego di concessione
delle attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., la Corte territoriale ha considerato
l’assenza di “positivi segni di emenda”, la “personalità” della LA MATTINA e
“l’entità della droga sequestrata che denota una attività consistente di spaccio” e
la decisione si pone in una linea di sostanziale continuità con il giudizio all’uopo
espresso dal GIP del Tribunale di Catania, fondato sul “comportamento
complessivamente tenuto dall’imputata”, niente affatto collaborativo.
Orbene, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al
diniego della concessione delle attenuanti generiche, come più volte ribadito da
questa Corte, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli
elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è
sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque
rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione. (Sez.
3, n. 23055 del 23/4/2013, Rv. 256172).
Il giudice ben può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art.
133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il
riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla

allorquando i Giudici del gravame, esaminando le censure proposte

personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di
esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Rv.
249163; Sez. 6, n. 7707 del 4/12/2003, dep. il 23.2.2004, Rv. 229768).
Ed il dovere di motivazione sulla ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento
delle circostanze attenuanti generiche può ritenersi adempiuto dal giudice ove,
con una pur sintetica espressione, abbia dato dimostrazione di avere valutato
la gravità del fatto, che è uno degli indici normativi per la determinazione del
trattamento sanzionatorio (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737).

non è tenuto a motivare il diniego delle circostanze attenuanti generiche sia
quando nei motivi di impugnazione si ripropongano, ai fini del riconoscimento, gli
stessi elementi già sottoposti alla attenzione del giudice di primo grado e da
quest’ultimo disattesi ,sia quando si insista per quel riconoscimento senza
addurre alcuna particolare ragione (Sez. 4, n. 5875 del 30/1/2015, Rv.
262249).
Il motivo é manifestamente infondato anche in punto di trattamento
sanzionatorio l in quanto la Corte d’Appello ha ridotto la pena inflitta dal primo
Giudice escludendo la recidiva ed ha determinato la pena base in ragione del
quantitativo di droga oggetto di sequestro.
La determinazione della pena da irrogare in concreto rientra nelle attribuzioni
esclusive del giudice di merito che, per l’articolo 132 c.p., l’applica
discrezionalmente, indicando i motivi che giustificano l’uso di tale potere
discrezionale.
In sede di legittimità è consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso
del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici ed
abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.
Orbene, nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati
e ha reputato adeguata quella inflitta dal primo giudice richiamandosi alla gravità
dei fatti, desunta essenzialmente – ma non esclusivamente – dalla disponibilità di
un consistente quantitativo di marijuana.
Si tratta di rilievi fattuali corretti, idonei a spiegare che non si è ritenuta
l’imputata meritevole di un più mite trattamento sanzionatorio e, d’altra parte,
l’esercizio del potere di cui si è detto deve essere motivato nei soli limiti atti a far
emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’adeguamento
della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il
ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento
delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della

Anzi, questa Corte ha di recente avuto modo di precisare che Il giudice di appello

Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1.500,00, così equitativannente
fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento della
spese processuali e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso in Roma il 30 marzo 2016.

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