Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28733 del 30/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28733 Anno 2016
Presidente: GRILLO RENATO
Relatore: DE MASI ORONZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
GENTILINI MASSIMILIANO, nato a Milano il 29/3/1988

avverso la sentenza dell’ 8/6/2015 della Corte di Appello di Milano
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Oronzo De Masi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mario Fraticelli,
che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Data Udienza: 30/03/2016

RITENUTO IN FATTO

GENTILINI MASSIMILIANO ricorre per cassazione, tramite difensore fiduciario, ed impugna la
sentenza emessa l’ 8/6/2015 dalla Corte di Appello di Milano che, decidendo in sede di rinvio,
in parziale riforma della sentenza emessa il 7/5/2012 dal Tribunale di Lecco, ha rideterminato
la pena nei confronti dell’appellante, con le attenuanti generiche, in mesi 4 di reclusione ed
euro 2.000 di multa.
Con sentenza n. 52664 del 6/11/2014 questa Corte aveva annullato, per effetto del ius

dalla Corte di Appello di Milano di conferma della suindicata pronuncia del Tribunale di Lecco
che aveva condannato il GENTILINI per violazione dell’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del
1990, in riferimento alla coltivazione, sul balcone dell’abitazione dell’imputato, di una piantina
di cannabis indica, dell’altezza di cm 80, con il 2,00% di p.a., pari alla quantità di gr. 0,176,
sufficiente alla preparazione di 20 dosi medie giornaliere.
Ha osservato la Corte territoriale che, in punto di declaratoria di responsabilità, la sentenza
impugnata è passata in giudicato, che la declaratoria di non punibilità del fatto ai sensi dell’art.
131 bis c.p. era da escludere in ragione del numero di d.m.g. ricavabili dalle influorescenze
della pianta, che la pena di giustizia ben poteva essere contenuta entro i minimi edittali di cui
al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.
Avverso la sentenza il GENTILINI, tramite difensore fiduciario, ricorre per cassazione.
Con un primo motivo di doglianza, ai sensi dell’art. 606, c.1, lett. b) ed e), c.p.p., deduce
erronea e falsa applicazione della legge penale, nonché illogicità ed insufficienza della
motivazione, per non avere la Corte di Appello riconosciuto l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p.,
nonostante la particolare tenuità del fatto, sul rilievo del quantitativo di principio attivo
contenuto nella pianta, erroneamente ritenuto sufficiente per il confezionamento di 20 dosi
medie giornaliere, laddove invece le stesse non avrebbero superato il numero di 7,04.
Evidenzia la difesa del ricorrente che la Corte territoriale ha sottovalutato che si trattava di
una sola pianta e che il dato ponderale del THC rinvenuto (mg. 176) appare notevolmente
inferiore al limite di quantità massima detenibile stabilito per legge (mg. 500), circostanze che
avrebbero consigliato di ricondurre la vicenda nella categoria dei fatti particolarmente tenui.
Con un secondo motivo di doglianza, deduce l’illegittimità costituzionale dell’ art. 75 D.P.R. n.
309 del 1990 ed all’uopo richiama la motivazione dell’ ordinanza del 10/3/2015 con cui la
Corte di Appello di Brescia ha investito la Corte Costituzionale della questione della legittimità
costituzionale del trattamento sanzionatorio della coltivazione di piante di cannabis per uso
personale.
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito precisate.

2

superveniens, limitatamente al trattamento sanzionatorio, la sentenza emessa il 2/5/2003

Con il primo motivo di doglianza il GENTILINI ripropone la questione dell’applicabilità dell’art.
131 bis c.p., in considerazione della particolare tenuità del fatto, in quanto nel caso in esame
sussisterebbero tutti i presupposti richiesti dal citato articolo del codice penale per il
riconoscimento della relativa causa di non punibilità atteso che si è in presenza di una sola
pianta di cannabis indica e che il dato ponderale del THC rinvenuto sarebbe notevolmente
inferiore al limite di quantità massima detenibile stabilito per legge.
La Corte di Appello territoriale, per quanto riportato nella motivazione della impugnata
sentenza impugnata, ha ravvisato elementi che escludono la particolare tenuità del fatto atteso

coltivata sul proprio balcone dall’imputato.
In effetti, la questione concernente la offensività della condotta di cui al capo d’imputazione
risulta essere già stata oggetto di esame da parte di questa Corte tant’è che nella sopra
richiamata sentenza n. 52664 del 6/11/2014 si legge: “la Corte di Appello, in particolare, nel
confermare l’affermazione di responsabilità penale del prevenuto, ha valorizzato il dato inequivocamente accertato – relativo alla efficacia drogante derivante dall’apprezzabile
quantitativo di principio attivo, estratto dalla singola pianta in sequestro. Il riferito
apprezzamento del compendio probatorio risulta conferentemente ancorato alle richiamate
circostanze di fatto ed immune da aporie di ordine logico, di talché sfugge al sindacato di
legittimità. Non è infatti consentito, alla Corte regolatrice, sostituirsi al giudice di merito
all’apprezzamento del materiale probatorio, né dare corso ad una rilettura delle prove, secondo
una diversa – ed alternativa – prospettiva motivazionale. Come si vede, l’applicazione dei
principi di diritto sopra richiamati, in ordine alla necessaria verifica della offensività in concreto
della condotta, conduce al rigetto del ricorso”.
Dunque, secondo quanto già statuito da questa Corte di legittimità, sulla base dell’insindacabile
apprezzamento dei giudici di merito, la coltivazione della pianta di cannabis indica oggetto di
sequestro “oltre ad essere in astratto conforme alla condotta tipica richiamata dalla norma
incriminatrice risulta, in concreto, lesiva del bene protetto, per la capacità drogante della
sostanza da essa ricavata”.
Ne consegue che la Corte territoriale, nuovamente sollecitata dalle doglianze dedotte in sede di
giudizio di rinvio dal GENTILINI, anziché rilevare che non si profilava l’ipotesi di esclusione
della punibilità per particolare tenuità del fatto perchè la coltivazione, come realizzata
dall’imputato, aveva certamente determinato una effettiva lesione del bene giuridicamente
protetto, in ragione della disponibilità di droga ottenuta dalla coltivazione medesima, avrebbe
dovuto arrestarsi davanti al definitivo accertamento della responsabilità penale, ossia del reato
e della sua attribuibilità all’odierno ricorrente, riguardando l’annullamento parziale della
sentenza pronunciata il 2/5/2003 dalla Corte di Appello di Milano – di conferma della pronuncia
di condanna del Tribunale di Lecco – statuizioni diverse ed autonome rispetto al
riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato.

il numero, pari a 20, di dosi medie giornaliere ottenibili dalla pianta, alta 80 centimetri,

E’ appena il caso di ricordare che questa Corte ha più volte sostenuto la configurabilità del
“giudicato progressivo” che comporta che l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione
della pena possano intervenire in momenti distinti (Sez. 3, n. 50215 del 8/10/2015, Rv.
265434, Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640).
Passando all’esame del secondo motivo di doglianza, la questione di legittimità costituzionale
del trattamento sanzionatorio della coltivazione di piante di cannabis per uso personale, in
relazione al disposto di cui all’art. 75 D.P.R. n. 309 del 1990, oggetto della richiamata

dal Giudice delle leggi con pronuncia dell’8/3/2016 (cfr. comunicato stampa in pari data della
Corte Costituzionale) e la difesa del GENTINI non ha allegato ragioni nuove o comunque
diverse rispetto a quelle scrutinate, sicché l’ eccezione proposta si appalesa manifestamente
infondata.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso,
l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del
procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro
1.500,00, così equitativannente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento della spese processuali
e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 30 marzo 2016.

ordinanza della Corte di Appello di Brescia in data 10/3/2015, è stata dichiarata non fondata

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