Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28710 del 09/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28710 Anno 2016
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: ACETO ALDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Medina Moreno, nato a Borgomanero (NO) il 12/04/1975,

avverso la sentenza del 12/05/2015 della Corte di appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi,
che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.11 sig. Moreno Medina ricorre per l’annullamento della sentenza del
12/05/2015 della Corte di appello di Milano che, in parziale riforma di quella del
17/12/2014 del Tribunale di quello stesso capoluogo e previa applicazione della
circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen., ha ridotto la pena nella
misura di due mesi e venti giorni di arresto e 1.500,00 euro di ammenda (pena
detentiva sostituita con la corrispondente pena pecuniaria), confermando nel
resto l’affermazione della sua responsabilità per il reato di cui all’art. 256,

Data Udienza: 09/03/2016

comma 4, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, commesso in Robecchetto di Indunio il
01/04/2011.
In particolare, si imputa al Medina, amministratore unico della società
“Officine Ambientali S.r.l.”, esercente attività di raccolta, trattamento e
smaltimento di rifiuti e recupero materiali, di aver effettuato la raccolta di rifiuti
speciali pericolosi e non, senza osservare le prescrizioni imposte dall’art. 4
dell’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali; nella specie, stoccando i
rifiuti decadenti dall’attività di vagliatura nelle aree di stoccaggio dei rifiuti “in

con il solo impianto di vagliatura, lasciando spazio per lo stoccaggio dei rifiuti “in
ingresso”; stoccando presso l’area destinata allo stoccaggio D15 (stoccaggio
preliminare) rifiuti codice CER 191212 destinati all’area di stoccaggio R13 (rifiuti
messi in riserva e/o destinati al recupero); non attivando il previsto impianto di
aspirazione e non identificando i rifiuti con l’apposita cartellonistica.
L’affermazione della responsabilità dell’imputato si fonda, in primo grado,
sugli esiti dell’ispezione effettuata dagli agenti della Polizia Provinciale di Milano e
dai tecnici dell’A.R.P.A. presso la sede della società il 1° aprile 2011, all’esito
della quale furono accertate le violazioni oggetto di successiva diffida dirigenziale
del 27 settembre 2011.
In sede di appello l’imputato aveva devoluto i seguenti temi difensivi: a) la
differenza tra le condotte oggetto di condanna e quelle descritte nella rubrica,
con particolare riferimento al loro oggetto materiale ed alla assenza di rifiuti
pericolosi; b) la conseguente mancata possibilità di definire il processo con
oblazione; c) la rivendicata applicazione del sopravvenuto istituto della
particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis, cod. pen..
Ciò che in buona sintesi lamentava l’imputato era la non totale
sovrapponibilità tra le prescrizioni violate oggetto della diffida del 27 settembre
2011 (che riguardavano anche i rifiuti pericolosi) e le condotte descritte nella
rubrica (che non li contemplano) con la conseguente condanna per la violazione
delle ben più ampie prescrizioni indicate nella diffida che recano elementi di
sostanziale novità rispetto all’editto accusatorio.
A tale tema difensivo si affiancava quello relativo al mancato superamento
dei limiti massimi consentiti per lo stoccaggio dei rifiuti pericolosi o comunque
alla mancanza della relativa prova.
La Corte di appello ha ribadito l’affermazione della responsabilità del Medina
evidenziando che: a) l’imputato aveva potuto difendersi compiutamente dalle
accuse mossegli; b) tali accuse si fondano sui risultati dell’ispezione, compendiati
nella diffida del 27 settembre 2011, che aveva ad oggetto anche i rifiuti
pericolosi ed era perfettamente sovrapponibile alle condotte contestate nella
rubrica; c) da ciò l’impossibilità di accedere all’oblazione (considerata la natura
2

ingresso”; occupando l’area destinata alla vagliatura ed alla triturazione dei rifiuti

congiunta delle pene previste); d) la gravità del fatto impedisce di qualificarlo
come di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis, cod. pen..
1.1.Tanto premesso, con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606,
lett. c), cod. proc. pen., la nullità delle sentenze di primo e secondo grado perché
la condanna è stata pronunciata per fatti diversi da quelli contestati, rinnovando,
in questa sede, la richiesta di essere ammesso all’oblazione.
Ribadisce a tal fine, riprendendo e sviluppando l’analogo tema difensivo
devoluto in appello, che le condotte analiticamente descritte nel capo di

contenute nella diffida del settembre 2011. Erroneamente i Giudici distrettuali
hanno ritenuto che oggetto del deposito preliminare fossero i rifiuti pericolosi
indicati nel punto c) dell’elenco delle prescrizioni della diffida dirigenziale perché,
in realtà, il capo di imputazione li descrive con chiarezza mediante il loro codice
CER (191212) che riguarda i rifiuti non pericolosi.
1.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod.
proc. pen., mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine
all’affermato superamento dei limiti massimi consentiti per il deposito dei rifiuti
pericolosi, superamento ribadito in base a meri riscontri visivi, senza riferimenti
ponderali, senza l’esame complessivo dei documenti aziendali relativi alle
giacenze e ai registri di carico e scarico.
1.3.Con il terzo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. e la mancanza di
motivazione in ordine al rigetto della relativa richiesta che era fondata su
argomentazioni (quali la mancanza di sostanziale lesione o messa in pericolo per
l’ambiente derivante dalla natura tecnica e formale delle prescrizioni violate, lo
scarto minimo delle maggiori quantità di rifiuti stoccati) liquidate dalla Corte di
appello con un mero giudizio di “gravità” dei fatti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.11 ricorso è infondato.

3.Sfrondato il ricorso dalle questioni di fatto inammissibilmente proposte con
il primo ed il secondo motivo, le eccezioni proposte con il terzo sono infondate.

4.La Corte di appello afferma con chiarezza (e certamente meglio della
sentenza di primo grado) che le contestazioni oggetto di diffida e rifluite nella
rubrica «riguardavano sia i rifiuti pericolosi che quelli non pericolosi», senza
«poter distinguere gli uni dagli altri».

3

imputazione non esauriscono la più amplia platea delle violazioni alle prescrizioni

>
,

4.1.Ed in effetti la rubrica, a parte lo stoccaggio dei rifiuti codice CER
191212, qualifica l’oggetto delle altre condotte ascritte all’imputato come
«rifiuti», senza ulteriori aggettivazioni che, nell’indistinto oggetto dell’attività
di impresa richiamata in premessa (raccolta di rifiuti speciali, pericolosi e non),
autorizzino a ritenere che l’accusa sia limitata ai rifiuti non pericolosi.
4.2.Le diverse deduzioni difensive si nutrono di inammissibili allegazioni
fattuali che, in assenza di una specifica eccezione del travisamento della prova,
non sono ammesse in questa sede per dar corpo alle eccezioni sollevate con il

4.3.A non diversa censura si espone il secondo motivo, ampiamente
supportato da inammissibili allegazioni fattuali volte a contrastare la netta
affermazione della Corte di appello che, richiamando la testimonianza di uno
degli ispettori che effettuò il sopralluogo, ha chiaramente sostenuto il
superamento dei quantitativi di rifiuti pericolosi.
4.4.0ccorre peraltro evidenziare – ai fini della genericità e non decisività
dell’eccezione – che il superamento dei quantitativi del deposito preliminare dei
rifiuti, pur oggetto della diffida del settembre 2011, è palesemente estraneo
all’editto accusatorio, il Giudice di primo grado infatti non ne parla, lo stesso
imputato ne è consapevole nell’atto di devolvere in appello il tema difensivo oggi
riproposto (pag. 6, 1° capoverso dei motivi di appello).

5.E’ infondato l’ultimo motivo di ricorso.
La Corte di appello ha escluso la particolare tenuità del fatto sul rilievo della
sua oggettiva gravità.
E’ sufficiente, a tal fine, rilevare che l’imputato è stato condannato ad una
pena-base che, ancorché attenuata ai sensi degli artt. 62, n. 6 e 62-bis, cod.
pen., è più elevata del nninir9 edittale (che nel caso in esame è pari a tre mesi di
arresto e 1.300,00 euro di ammenda) ed è coerente, anche sul piano
sanzionatorio, con il giudizio di “gravità” espresso dalla Corte territoriale con
valutazione non sindacabile in questa sede (si veda, al riguardo, Sez. 6, n.
44417 del 22/10/2015, Errfiki, Rv. 265065, secondo cui l’art.131-bis cod. pen.
può trovare applicazione solo qualora, in virtù del principio di proporzionalità, la
pena in concreto applicabile risulterebbe inferiore al minimo edittale,
determinato tenendo conto delle eventuali circostanze attenuanti).
Non è affatto decisiva (ed è in ogni caso totalmente infondata e
contraddittoria con il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art.
62, n. 6, cod. pen.) la dedotta natura “formale”, e dunque sostanzialmente
“inoffensiva” per l’ambiente, del reato in contestazione, sia perché nel concetto
di tenuità dell’offesa è espressamente ricompresa (e non poteva essere
altrimenti) anche l’esiguità del “pericolo” (chiaro il tenore dell’art. 131-bis,
4

primo motivo.

comma 1, cod. pen.), certamente esclusa dalla pluralità delle prescrizioni violate
e, come detto, contraddetta dalla applicazione della circostanza attenuante di cui
all’art. 62, n. 6, cod. pen., sia perché l’istituto della non punibilità per particolare
tenuità del fatto presuppone sempre l’offensività del reato che funge, sul piano
costituzionale, da criterio selettivo delle condotte realmente meritevoli di una
sanzione penale e, sul piano interpretativo, di quelle che pur conformi al “tipo”
non tali non sono.
L’inoffensività in concreto della condotta, infatti, esclude in radice, sul piano

norma qui invocata che, in coerenza con la finalità della pena, legittima la
rinuncia dello Stato alla punizione di un fatto-reato perfetto in ogni suo elemento
(e dunque necessariamente offensivo nei termini sopra indicati) nei limitati casi
cui la condotta non esprima alcuna esigenza rieducativa.
Non v’è perciò contraddizione alcuna con la decisione della Corte di appello
di convertire la pena detentiva in pena pecuniaria, trattandosi di decisione che
sancisce positivamente (e presuppone) proprio quella necessità di reinserimento
sociale del condannato (art. 57, comma 3, legge 24 novembre 1981, n. 689) che
l’istituto della non punibilità invece esclude.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 09/03/2016

oggettivo, la sua punibilità ai sensi dell’art. 49, cod. pen., non certo ai sensi della

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