Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28685 del 12/05/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 28685 Anno 2016
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: CATENA ROSSELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Galati Giuseppe, nato a Castellana Sicula (PA), il 12/05/1971,
avverso l’ordinanza emessa ex art. 310 cod. proc. pen. dal Tribunale del
Riesame di Milano in data 15/03/2016.

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Pasquale Fimiani, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv.to Alessandro Diddi, che ha rilevato come, nel caso in
esame, sia stato violato il principio di devoluzione, avendo il Tribunale del
Riesame di Milano confermato l’impugnata ordinanza per ragioni diverse da
quelle proposte ex art. 310 cod. proc. pen., ed ha concluso per l’accoglimento
del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

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Data Udienza: 12/05/2016

1.Con il provvedimento impugnato il Tribunale del Riesame di Milano, in parziale
accoglimento dell’appello della difesa del Galati Giuseppe, annullava il
provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare ai sensi del’art.
304, commi secondo e terzo, cod. proc. pen., emesso dal giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Milano in data 08/02/2016 nell’ambito del giudizio
abbreviato nei confronti del predetto ricorrente; non disponeva la liberazione
dell’imputato non essendo decorsi i termini di custodia cautelare.
In particolare, l’ordinanza impugnata ha premesso che nei confronti del

14 L. 497/74, 7 L. 20371991 – era stato emesso decreto di giudizio immediato in
data 19/02/2015, e che in data 28/10/2015 era stata ammessa la richiesta di
rito abbreviato avanzata dal Galati Giuseppe e da numerosi altri coimputati, con
prosecuzione del giudizio nelle udienze del 15/12/2015, 20/01/2016,
04/02/2016, 14/04/2016, 21/04/02016; in data 05/02/2016 il pubblico
ministero aveva chiesto l’emissione di ordinanza di sospensione dei termini di
custodia cautelare per complessità, ai sensi dell’art. 304, comma 2, cod. proc.
pen., ed il Giudice dell’udienza preliminare aveva disposto in conformità.
A seguito di appello ex art. 310 cod. proc. pen., ha ritenuto il Tribunale del
Riesame che le doglianze difensive fossero fondate in quanto l’ordinanza di
sospensione dei termini di custodia cautelare era stata adottata in carenza dei
presupposti normativi e, come tale, risultava affetta da nullità ex art. 178, lett.
c), cod. proc. pen., come eccepito dalla difesa; tuttavia non andava adottato
alcun provvedimento di scarcerazione nei confronti del ricorrente, in quanto i
termini di fase di custodia cautelare non risultavano scaduti. Nel caso in esame,
infatti, i termini di fase previsti per il giudizio abbreviato non risultavano scaduti
al momento in cui il Tribunale del Riesame si è pronunciato, trattandosi di
termini decorrenti dal 28/10/2015 e scadenti al 27/04/2016 ai sensi dell’art.
303, comma 1, lett. b bis, n. 2, cod. proc. pen.; la questione, in ogni caso, ha
sottolineato il Tribunale del Riesame, concerne la scadenza del termine di fase
relativo al giudizio, ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. b), n. 2, cod. proc. pen.,
trattandosi di giudizio abbreviato atipico, ossia di giudizio abbreviato disposto a
seguito di decreto di giudizio immediato, con la conseguenza che – esclusa senza
alcun dubbio la possibilità di applicare al termine per la fase del giudizio
abbreviato il c.d. prolungamento di cui all’art. 303, comma 1, lett. 3 bis, cod.
proc. pen. – tuttavia, come desumibile dalla motivazione delle Sez. U., n. 30200
del 2011 e della successiva giurisprudenza della sezioni semplici, tra cui Sez. 6,
sentenza n. 37406 del 2011, l’applicabilità del prolungamento dei termini era
senz’altro possibile in riferimento ai termini della fase del giudizio; ciò in quanto
nel caso di specie non si discuteva dell’applicabilità del c.d. prolungamento ai
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ricorrente – sottoposto a misura cautelare per il delitto di cui agli artt. 9, 10, 12,

termini di fase del rito abbreviato, bensì dell’applicabilità del citato istituto ai
termini di fase del giudizio, ex art. 303, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.,
termini di “chiusura” di cui deve tenersi conto in ipotesi di rito abbreviato
preceduto da decreto che dispone il giudizio; ed infatti, trattandosi di giudizio
abbreviato atipico, è necessario evitare che agli imputati che prescelgano detto
rito si applichi un trattamento deteriore in termini di compressione della libertà
personale rispetto agli imputati che scelgano di procedere con rito ordinario, ma,
in ogni caso, dovrà tenersi conto del segmento dei termini decorsi nella fase del
giudizio precedente quella di ammissione del rito abbreviato, ossia la fase

abbreviato, che decorre dall’ordinanza ammissiva dello stesso; ne consegue che
nella fase del giudizio non può decorrere un termine maggiore di quello che la
legge assegna a tale specifica fase, termine le cui articolazioni risultano quelle
declinate dall’art. 303, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in cui viene, quindi,
inserito anche il termine previsto dal n. 3 bis.
Conclusivamente, nel caso in esame, il Tribunale del Riesame di Milano, rilevato
che il termine di fase per il rito abbreviato sarebbe scaduto in data 27/07/2016,
e che in ogni caso dalla data di emissione del decreto che dispone il giudizio non
possono decorrere termini maggiori rispetto a quelli di cui all’art. 303, comma 1,
lett. b), cod. proc. pen., in cui deve essere computato il c.d. prolungamento in
relazione alla tipologia di fattispecie criminosa contestata, ha rilevato che nel
caso in esame il termine di fase per il giudizio sarebbe scaduto il 18/02/2016, ai
sensi dell’art. 303, comma 1, lett. b), n. 2, cod. proc. pen., ma, vertendosi in
materia di reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., si deve
tenere conto del c.d. prolungamento che, tuttavia, non potrà essere applicato
nella sua interessa, ma solo fino alla data di scadenza del termine di fase
previsto per il rito abbreviato ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. b bis, n. 2),
cod. proc. pen., ossia fino al 27/04/2016.
2. Con ricorso il difensore di Galati Giuseppe, Avv.to Michele D’Agostino, ricorre
per violazione di legge ed inosservanza di norme processuali, ai sensi dell’art.
606, lett. b) e c), cod. proc. pen., in relazione all’art. 303, comma 1, lett. b) bis,
cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del Riesame di Milano avrebbe operato una
vera e propria applicazione analogica in

malam partem

applicando il

prolungamento dei termini di fase, proprio del rito dibattimentale, al giudizio
abbreviato, istituto di carattere eccezionale, stante l’autonomia dei termini di
fase per il rito abbreviato, di cui all’art. 303, comma 1, lett. b) bis, cod. proc.
pen., e l’insuscettibilità di applicare ad esso l’art. 303, comma 1, lett. b), n. 3
bis, cod. proc. pen.; a tanto non può, infatti, pervenirsi neanche attraverso
l’assimilazione del giudizio abbreviato a quello ordinario operata dall’art. 304,
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compresa tra l’emissione del decreto che dispone il giudizio e la fase del rito

comma 1, lett. c) bis, cod. proc. pen., norma che disciplina la sospensione dei
termini e non la proroga degli stessi; anche la logica ispiratrice dell’istituto del
prolungamento dei termini non può che far riferimento alle esigenze connesse a
specifiche fattispecie delittuose, di particolare allarme sociale, che
processualmente si risolvono in verifiche dibattimentali destinate a prolungarsi
oltremodo; ciò peraltro, entro i limiti dei termini massimi di custodia cautelare, di
cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., considerando anche la circostanza che
il c.d. prolungamento dei termini, per le indicate categorie di reati, non è

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso va rigettato.

Le doglianze difensive, pur facendo riferimento a condivisibili principi della
giurisprudenza di legittimità in materia cautelare, non colgono nel segno in
relazione alla specifica vicenda processuale.

Come in premessa indicato, nel caso in esame, nei confronti del ricorrente Galati
Giuseppe e di numerosi altri coimputati, era stato emesso decreto di giudizio
immediato in data 19/02/2015, e successivamente, in data 28/10/2015, era
stata ammessa la richiesta di rito abbreviato avanzata dal Galati Giuseppe e da
altri coimputati, con prosecuzione del giudizio nelle successive udienze. Detto
giudizio risulta essersi concluso con sentenza emessa in data 21/04/2016, con
condanna del ricorrente alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, così
determinata per il rito, per il delitto di cui agli artt. 9, 10, 12, 14 L. 497/74, 7 L.
203/1991 ascrittogli.

Pacificamente, quindi, dalla emissione del decreto di giudizio immediato in data
19/02/2015, era iniziato a decorrere il termine di fase di cui all’art. 303, lett. b),
pari ad anni uno in relazione alla pena edittale prevista per il delitto di cui all’art.
416 bis, comma 4, cod. pen., ascritto al ricorrente. Altrettanto pacificamente a
detto termine era applicabile il prolungamento di ulteriori sei mesi, ai sensi del
comma 3 bis dell’art. 303 cod. proc. pen., secondo il meccanismo ivi descritto.

Detta norma, infatti, prevede per taluni gravi reati – attraverso il richiamo alla
formulazione dell’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. – un
prolungamento fino a sei mesi del termine di fase relativo al dibattimento di

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previsto per la fase dell’appello.

primo grado; detto termine va imputato a quello della fase precedente, ove non
completamente utilizzato, ovvero, e per la parte residua, al termine previsto
dalla lett. d), con esclusione, pertanto, sia della fase del giudizio di appello che
della fase che si colloca tra la conclusione del giudizio di primo grado ed il
processo di appello, atteso che la norma non richiama dette fasi (Sez. 2,
sentenza n. 41180 del 26/09/2013, Rv. 257071).

Come ricordato dalla Sez. 5, sentenza n. 30759 del 11/07/2012, Rv. 252938, la
finalità perseguita dal legislatore con la citata disposizione consiste nel

costituisce snodo cruciale del processo penale, per tutte le incombenze istruttorie
ad esso inerenti e per le inevitabili lungaggini – un maggior tempo per la
trattazione, evitando che, in relazione alle più gravi fattispecie di reato, venga a
cessare l’efficacia della misura custodiale per effetto della maturazione
dell’ordinario termine massimo di fase. Per conseguire detto risultato è stato
previsto un termine aggiuntivo fino a sei mesi; detto termine, in concreto, è
imputato a quello della fase precedente, ove non completamente utilizzato,
ovvero ai termini di cui alla lett. d) del primo comma dell’art. 303, cod. proc.
pen., per la parte eventualmente residua e, in quest’ultimo caso, i termini di cui
alla lett. d) sono proporzionalmente ridotti.

La logica di tale previsione non può essere colta se non alla stregua del rinvio
alla norma dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen. – non a caso richiamata
dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. – sul limite massimo complessivo della
durata della custodia cautelare, secondo le scansioni temporali dettate dalla
stessa disposizione in rapporto alla pena edittale prevista per il reato per cui si
procede, che rappresenta la norma di chiusura con cui vengono indicati i limiti
invalicabili di durata complessiva della custodia cautelare.

Appare quindi evidente che il richiamo alla disposizione da ultimo citata renda
palese come, fermo restando il limite massimo, complessivo per tutte le fasi del
processo, di durata della custodia cautelare, nell’ambito della relativa
decorrenza, il giudice del dibattimento può disporre di un ulteriore termine di
mesi sei in presenza di determinati reati di particolare gravità, che,
ordinariamente, comportano maggiore complessità di accertamento istruttorio,
come si evince anche dai lavori preparatori della novella, introdotta con d.l.
24/11/2000, n. 341, convertito con modificazioni nella legge 19/01/2001, n. 4:
l’intendimento del legislatore, infatti, appare quello di offrire al giudice del
dibattimento un termine aggiuntivo di trattazione, per impedire la scarcerazione
di persone imputate di reati di particolare allarme sociale, precisandosi che detto
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permettere al giudice del dibattimento di primo grado – che, notoriamente,

termine va sommato al termine di fase, pur se raddoppiato, anche se, a sua
volta, non è ovviamente suscettivo di raddoppio.

Considerando che ai sensi dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., il termine
massimo complessivo non può essere superato, è stato quindi elaborato un
particolare meccanismo di applicazione di quel termine aggiuntivo, caratterizzato
da una peculiare flessibilità, nel senso dell’utilizzazione dell’eventuale frazione
residua del termine della fase precedente, ove non interamente utilizzato, ovvero
dell’imputazione del tempo necessario ai termini di fase relativi al giudizio di

proporzionale della relativa durata. Il che significa che spalmando il termine
aggiuntivo, sino a sei mesi, su fasi diverse, utilizzandone l’eventuale eccedenza
ovvero imputandone l’intero o quanto necessario al termine di una fase
successiva, il giudice del dibattimento può disporre di un ulteriore periodo di sei
mesi, senza che cessi la custodia cautelare di fase, secondo l’ordinaria
previsione, e nel rigoroso rispetto del termine complessivo dell’art. 303, comma
4, cod. proc. pen., che rappresenta un limite invalicabile. Ne consegue che tale
termine di sei mesi non comporta, in realtà, alcun aggravio per la complessiva
custodia cautelare, in quanto l’eventuale prolungamento della custodia durante
la fase del dibattimento di primo grado sarà compensato o da una minore durata
nella fase precedente delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, ovvero
da una minor durata in pendenza del giudizio di cassazione.

Pacificamente, infatti, in relazione alla durata della custodia cautelare riferibile ad
uno dei delitti di cui all’art. 407, comma secondo, lett. a), cod. proc. pen.,
qualora il termine di fase sia stato sospeso per la particolare complessità del
dibattimento o del giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 304, comma secondo,
cod. proc. pen., il termine massimo di durata della custodia, fissato nel doppio
dei termini di fase dal sesto comma del predetto art. 304, non può essere
superato sommando ad esso l’ulteriore termine eventualmente utilizzato, nella
fase del giudizio per uno dei delitti citati, ai sensi dell’art. 303, comma primo,
lett. b), n. 3 bis, cod. proc. pen. (Sez. U., sentenza n. 29556 del 29/05/2014,
Rv. 259176; Sez. 6, sentenza n. 46482 del 30/10/2013, Rv. 257710; Sez. 6,
sentenza n. 45626 del 18/07/2013, Rv. 258152).

Tanto premesso in relazione all’operatività dell’art. 303, comma 1, lett. b), sub 3
bis), cod. proc. pen., altrettanto pacificamente il legislatore ha escluso la
possibilità di far ricorso al descritto meccanismo di prolungamento nel caso in cui
il processo venga definito con rito abbreviato, avendo adottato una autonoma
previsione, quella di cui alla lettera b bis) della norma citata, secondo cui
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cassazione, per intero o per la frazione necessaria, con conseguente contrazione

dall’emissione dell’ordinanza con cui viene disposto il rito abbreviato, o dalla
sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare, viene fissato il decorso di
diversi termini di fase, e precisamente di termini ridotti della metà in relazione a
ciascuna delle tipologie di reati previsti alla lettera b) della norma citata. Non vi è
dubbio, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, sentenza n.
12907 del 25/02/2003, Rv. 224157), che il meccanismo di recupero previsto
dall’art. 303, comma primo, lett. b), n. 3 bis, cod. proc. pen., abbia carattere
eccezionale, derivante dal particolare allarme sociale dei delitti ai quali si applica,
e tuttavia non possa estendersi al caso previsto dalla lettera b bis) del medesimo

quale non vi è cenno alcuno, neanche indiretto, a tale eccezionale sistema di
recupero, la cui utilizzabilità non può nemmeno farsi discendere dalla
assimilazione del giudizio abbreviato a quello ordinario disposta dall’art. 304,
comma 1, lett. c bis, stesso codice, dato che quest’ultima disposizione si riferisce
alla sospensione, e non alla proroga, dei termini di durata massima
della custodia cautelare.

Il carattere di eccezionalità del citato meccanismo, conseguentemente, è
estraneo anche al sistema del decorso dei termini massimi di custodia cautelare,
come definitivamente sancito dalle Sez. U, sentenza n. 29556 del 29/05/2014,
Rv. 259176, secondo cui “In tema di durata della custodia cautelare nei
procedimenti per uno dei delitti di cui all’art. 407, comma secondo, lett. a), cod.
proc. pen., qualora il termine di fase sia stato sospeso per la particolare
complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 304,
comma secondo, cod. proc. pen., il termine massimo di durata della custodia,
fissato nel doppio dei termini di fase dal sesto comma del predetto art. 304, non
può essere superato sommando ad esso l’ulteriore termine eventualmente
utilizzato, nella fase del giudizio per uno dei delitti citati, ai sensi dell’art. 303,
comma primo, lett. b), n. 3 bis, cod. proc. pen.”

Detti principi, assolutamente pacifici, non vengono in alcun modo contraddetti
dalla pronuncia del Tribunale del Riesame di Milano, atteso che, nel caso di
specie, come più volte detto, il giudizio abbreviato è stato instaurato in un
secondo momento rispetto all’emissione del decreto di giudizio immediato, in
quanto, a seguito di emissione del decreto di giudizio immediato in data
19/02/2015, solo successivamente, e precisamente in data 28/10/2015, era
stata ammessa la richiesta di rito abbreviato avanzata da svariati imputati, tra
cui l’odierno ricorrente.

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comma, concernente il regime applicabile in caso di giudizio abbreviato, nel

Come noto, costituisce ius receptum il principio sancito dalle Sez. U. sentenza n.
30200 del 28/04/2011, Rv. 250348, secondo cui “I termini di durata massima
della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, anche nella ipotesi di
rito non subordinato ad integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta
di giudizio immediato, decorrono dall’ordinanza con cui si dispone il giudizio
abbreviato e non dall’emissione del decreto di fissazione dell’udienza di cui
all’art. 458, comma secondo, cod. proc. pen.” (in tal senso anche Sez. 1,
sentenza n. 41380 del 14/10/2009, Rv. 245072; Sez. 6, sentenza n. 25058 del

La sequenza procedimentale che, nel caso di specie, si è verificata, quindi, ha
implicato due ben distinte scansioni all’interno della medesima fase: una prima
scansione – compresa tra l’emissione del decreto di giudizio immediato e
l’ordinanza ammissiva del rito abbreviato – ed una seconda scansione conseguente all’ordinanza annmissiva del rito abbreviato – relativamente alle
quali la individuazione dei termini di fase non può che essere disciplinata
dall’applicazione delle norme che, specificamente basate sulla struttura
ontologica della tipologia di rito prescelto e sulle peculiari esigenze ad esso
connesse, hanno diversamente calibrato i termini stessi.

Ne deriva che dall’emissione del decreto di giudizio immediato e sino
all’emissione dell’ordinanza ammissiva del rito abbreviato – che nel caso in
esame risulta intervenuta in data 28/10/2015, a poco più di dieci mesi dal
decreto di giudizio immediato – deve essere applicata la disposizione di cui
all’art. 303, lett. b), n. 2, cod. proc. pen., nonché quella di cui all’art. 3 bis della
medesima norma, in relazione alla natura dell’imputazione, compresa tra quelle
di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.

La disposizione inerente l’aumento dei termini, infatti, si applica unicamente alla
porzione di fase precedente l’instaurazione del giudizio abbreviato, apparendo
del tutto fuorviante e non rispondente alla concreta operatività del meccanismo
la doglianza difensiva secondo cui nel caso de quo si sarebbe fatto ricorso ad
un’analogia in malam partem.

Peraltro il Tribunale del Riesame di Milano ha fatto corretta applicazione della
sentenza della Sez. 6, n. 9088 del 22/11/2012, Rv. 254582, la quale, proprio a
seguito di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza da ultimo citata secondo cui i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del
giudizio abbreviato, anche nella ipotesi di rito non subordinato ad integrazione
probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono
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09/05/2006, Rv. 235133).

dall’ordinanza con cui si dispone il giudizio abbreviato e non dall’emissione del
decreto di fissazione dell’udienza di cui all’art. 458, comma secondo, cod. proc.
pen. – ha ripercorso, al fine di individuare il termine

ad quem relativo alle

indagini preliminari, un passaggio della motivazione della predetta sentenza delle
Sezioni Unite, in cui è stato affermato che “quando vi è un decreto che dispone il
giudizio, ordinario o immediato che sia, si apre la fase del giudizio e, quindi, il
decreto costituisce termine ad quem per la fase delle indagini preliminari e
termine a quo per la fase del giudizio”. Anche nell’ipotesi di rito abbreviato che si
innesti dopo che sia stato adottato un decreto che dispone il giudizio – ha

dubbio, quindi, che il decreto di giudizio immediato abbia chiuso, comunque, la
fase delle indagini preliminari, essendosi aperta la ulteriore fase del giudizio,
benché in detto momento sia ancora incerto lo sviluppo di detta fase, se in base
al rito dibattimentale ordinario ovvero al rito speciale abbreviato.

Si evidenzia ancora, proseguendo nell’analisi della citata motivazione delle
Sezioni Unite con riferimento al termine di fase per il giudizio, che “se
successivamente al decreto che dispone il giudizio venga emessa ordinanza
ammissiva del giudizio abbreviato, i termini di custodia relativi alla fase del
giudizio si commisurano a quelli propri di questo rito…”. Ne deriva, secondo la
sentenza della Sez. 6, che “le Sezioni unite non hanno affermato che l’ordinanza
ammissiva del giudizio abbreviato, innestato su quello immediato, segna la
conclusione della fase delle indagini preliminari, ma al contrario hanno ribadito
che questa fase è, in ogni caso, conclusa con l’emanazione del decreto che
dispone il giudizio, e che dallo stesso decreto decorre la fase del giudizio,
dibattimentale o abbreviato a seconda che quest’ultimo sia o no ammesso con
successiva ordinanza. La presenza o meno dell’ordinanza annmissiva del rito
abbreviato costituisce il discrimine per applicare i tempi più lunghi o più brevi
previsti dall’art. 303 cod. proc. pen. per la durata di fase (giudizio di primo
grado) della custodia cautelare.”

Ciò che appare necessario sottolineare è che il mutamento del rito,
evidentemente determinato da una precisa scelta dell’imputato, non solo nell’an
ma anche nel quando, non può incidere sulla precedente porzione di fase
regolata dalle disposizioni vigenti per il giudizio ordinario, nel senso di far
retroagire le disposizioni relative al calcolo dei termini previsti per il giudizio
abbreviato anche alla precedente porzione di fase, in cui il detto giudizio
abbreviato non era stato ancora instaurato. Specularmente, nella fase
instauratasi a seguito dell’emissione del decreto di citazione a giudizio immediato, nel caso in esame – la disciplina dei termini non può che essere

proseguito la sentenza in esame – come verificatosi nel caso di specie, non vi è

quella di cui all’art. 303, comma 1, lett. b), n. 2 e 3 bis, cod. proc. pen., atteso
che nel caso in esame si procede per uno dei delitti per i quali è specificamente
previsto il meccanismo del prolungamento dei termini di fase, né si comprende
per quale ragione, ovvero in base a quale disposizione, l’eventualità che nel
corso della fase del giudizio possa essere instaurato un rito speciale, in base alla
legittima scelta dell’imputato, debba determinare una disapplicazione della
norma di cui alla lett. b), sub 3 bis, del citato articolo, in relazione ad un
momento dello sviluppo della sequenza interna alla fase giudizio in cui non si era

L’autonomia dei termini a seguito della scelta del rito abbreviato – come prevista
dall’art. 303, comma primo, lett. b bis, come modificato dalla L. 5 giugno 2000
n. 144 – implica senza dubbio che il nuovo termine di fase inizi a decorrere
dall’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, ma non può incidere né
riflettersi sulle altre disposizioni normative, che disciplinano la diversa ed
antecedente sequenza del giudizio ordinario, regolata da termini parimenti
autonomi e rispondenti ad esigenze del tutto peculiari, soprattutto se riferibili a
reati di particolare allarme sociale, rispetto alla quale l’eventualità di un rito
speciale non può avere alcuna incidenza, neanche nel caso in cui detta
eventualità si concreti attraverso la scelta dell’imputato che, per le più varie
ragioni, può intervenire in un momento non immediatamente successivo
all’emissione del decreto che dispone il giudizio, come verificatosi nel caso di
specie, in cui la richiesta di definizione del processo con il rito alternativo risulta
formulata dall’imputato – per sua insindacabile scelta – svariati mesi dopo
l’emissione del decreto di giudizio immediato.
Sotto altro aspetto detta autonomia dei termini derivante dalla scelta del rito è
stata chiarita da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, che ha ricordato come
le modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare introdotte dal d.l.
7 aprile 2000 n. 82, convertito nella legge 5 giugno 2000 n. 144, per la fase del
giudizio abbreviato, non si riferiscono solo all’ipotesi che esso venga disposto
nell’udienza preliminare, ma hanno carattere generale e riguardano tutti i casi
nei quali il giudice lo disponga, e perciò anche quelli in cui l’istanza dell’imputato
sia stata presentata nel giudizio di appello, a norma dell’art. 4 ter della legge 5
giugno 2000 n. 144. Ne consegue che, in quest’ultima ipotesi, ai termini ordinari
di fase si sostituiscono quelli previsti dall’art. 303, comma 1, lett. b bis, cod.
proc. pen. (come modificato dall’art. 1 della legge citata), che decorrono
dall’emissione dell’ordinanza dispositiva del giudizio abbreviato (Sez. 1, sentenza
n. 17474 del 16/03/2001, Rv. 218723; analogamente, per la fase del giudizio
abbreviato disposto in sede di giudizio dibattimentale di primo grado, Sez. 1,
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ancora verificato il mutamento del rito.

sentenza n. 24818 del 12/04/2001, Rv. 219545; inoltre, Sez. 2, sentenza n.
32978 del 12/06/2001, Rv. 220865, in senso conforme: “In tema di termini di
durata massima della custodia cautelare, la disciplina dettata, per la
fase dell’eventuale giudizio abbreviato, dalla lettera b bis) del primo comma
dell’art. 303 cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 1, primo comma, lett. b) del d.l.
7 aprile 2000 n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000 n.
144), trova applicazione indipendentemente da quale sia l’organo giudicante che
abbia disposto il giudizio abbreviato e, quindi, anche nel caso in cui
tale giudizio sia stato disposto dal giudice del dibattimento, ai sensi della

Appare appena il caso di rilevare come in nessuna delle ipotesi esaminate dalla
giurisprudenza appena citata si è mai ritenuto che nelle fasi processuali
precedenti l’ammissione del rito abbreviato non fossero applicabili le norme
relative ai termini di fase proprie del rito ordinario celebrato sino all’introduzione
di quello abbreviato. Ne consegue che anche nel caso in esame non può che
sottolinearsi che non sussiste alcun argomento giuridicamente fondato per
diversamente opinare.

In realtà l’autonomia reciproca dei termini tra la scansione procedimentale
compresa tra l’instaurazione del giudizio ordinario e l’ammissione del rito
abbreviato e la successiva scansione conseguente all’ordinanza ammissiva del
rito abbreviato, si chiarisce proprio dall’analisi delle esigenze poste a base del
d.l. 24 novembre 2000, n. 341, come in precedenza chiarito, di ridurre il numero
di scarcerazioni per il decorso dei termini di fase; non a caso detta esigenza
venne posta a base del requisito “di necessità e d’urgenza” di cui all’art. 77,
secondo comma, della Costituzione.
A differenza di quanto si potrebbe ritenere ad un’analisi superficiale dell’impianto
normativo, come risultante dalle disposizioni innestate dal decreto-legge, e come
chiarito dalle Sez. Unite con la sentenza n. 29556 del 29/05/2014, Rv. 259176,
in precedenza citata, il raggiungimento della finalità indicata non si è tradotto in
un allungamento dei termini complessivi di custodia cautelare preventiva, bensì
in una significativa flessibilizzazione dei termini di fase fino a rendere la loro
funzione, se non irrilevante, sicuramente marginale. Questo risultato – che nel
testo originario prevedeva la possibilità generalizzata di utilizzare i termini non
decorsi nella fasi precedenti – è stato raggiunto attraverso una soluzione meno
drastica sul versante del “recupero”, ossia limitando le ipotesi di “recupero” (che
il decreto-legge aveva previsto in modo generalizzato) ai soli reati di maggior
allarme sociale, e quindi ai delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), ed

11

disposizione transitoria dì cui all’art. 4 ter del citato d.l. n. 82 del 2000″).

altresì limitando la possibilità di “recupero” alla sola fase precedente (a quella di
primo grado) e al giudizio di legittimità, con conseguente impossibilità, come già
detto, di recuperare nel giudizio di appello un periodo non utilizzato nella fase
delle indagini preliminari o nel giudizio di primo grado.

Tuttavia la legge di conversione ha operato anche sotto un ulteriore profilo, ossia
introducendo, nell’art. 304, comma 6, dopo il primo periodo – che prevede la
possibilità di superare il limite dei termini di fase, ma non oltre il doppio – la
norma di chiusura già più volte ricordata “senza tenere conto dell’ulteriore

esplicita come, nel calcolo per verificare l’eventuale superamento del doppio del
termine di fase in caso di sospensione dei termini stessi, non si debba tener
conto di quell’aumento. Evidentemente la disposizione evidenzia la necessità di
lasciare immutati i termini complessivi di custodia cautelare in base ai principi
fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 299 del 2005, che ha
riaffermato la “natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione
preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle
esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel
bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della
libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva”.
La sentenza del Giudice delle leggi, partendo dalla premessa della necessità di
rispettare i “principi di adeguatezza e di proporzionalità, operanti anche in
relazione ai limiti che devono incontrare la durata della custodia cautelare”
precisa che “ove siano previsti termini massimi in relazione alle varie fasi del
procedimento, la relativa disciplina deve essere tale da assicurare in ogni modo
un ragionevole limite di durata della custodia, in conformità d’altra parte ai
parametri di proporzionalità e adeguatezza interni allo stesso precetto sancito
dall’ultimo comma dell’art. 13 Cost.”. E ribadisce che “nel sistema attuale, la
durata ragionevole è, appunto, assicurata anche dai termini massimi di fase, in
quanto proporzionati alla effettiva evoluzione della situazione processuale
dell’imputato”.

Proprio alla luce dei principi sin qui esaminati, quindi, deve ritenersi del tutto
corretto il percorso logico seguito dal Tribunale del Riesame di Milano, che dopo aver ritenuto violato il principio del contraddittorio in relazione all’ordinanza
adottata ex art. 304, comma 2, cod. proc. pen. – si è posto il problema
dell’adozione dei provvedimento scaturenti dalla pronuncia di annullamento
dell’ordinanza di sospensione dei termini, qualora detti termini siano nel
frattempo scaduti, rilevando come detta ipotesi non si fosse verificata in base
alle argomentazioni in premessa indicate.
12

termine previsto dall’art. 303, comma 1, lettera b), n. 3 bis)”. Insomma la frase

Il Tribunale del Riesame, quindi, non ha negato la natura eccezionale della
disposizione di cui all’art. 303, comma 1, lett. b), n. 3 bis, cod. proc. pen., ma ha
ritenuto che essa fosse applicabile alla fase del giudizio precedente l’ammissione
del rito abbreviato, facendo espresso riferimento alla sentenza delle Sez. U., n.
30200 del 2011, con particolare riguardo all’inciso secondo cui, in ipotesi di rito
abbreviato atipico, il termine di fase decorre dall’ordinanza annmissiva del rito,
con la precisazione che “essendo in precedenza decorsi quelli della normale fase
del giudizio (a seguito di decreto che lo dispone) da tale momento non può

(termini indicati nelle varie articolazioni dell’art. 303 comma 1 lett. b, cod. proc.
pen.)”, rilevando come tra le articolazioni di detta norma non possa che
ricomprendersi anche quella di cui al n. 3 bis, nelle ipotesi particolari a cui la
norma si riferisce.

Fatta questa premessa, il Tribunale del Riesame ha dato atto che, nel caso in
esame, i termini di fase propri del rito abbreviato, pacificamente, sarebbero
scaduti in data 27/04/2016 e che, in ogni caso, dalla data di emissione del
decreto di giudizio immediato non sarebbero potuti decorrere termini maggiori di
quelli di cui all’art. 303, comma 1, lett. b, cod. proc. pen., in tutte le sue
articolazioni, inclusa quella di cui alla lettera b sub 3 bis della norma citata, che
prevede il così detto prolungamento. Il termine di fase per il giudizio ordinario,
quindi, ai sensi del n. 2 della lettera b) della norma, sarebbe scaduto, in ragione
dei limiti edittali del reato ascritto al ricorrente, in data 18/02/2016, e tuttavia a
detto termine andava applicato il prolungamento per effetto dell’art. 303, lett. b,
sub 3 bis, cod. proc. pen.; detto prolungamento, considerata la contestuale
decorrenza del termine concernente il rito abbreviato nel frattempo instaurato,
non avrebbe potuto essere applicato nella sua interezza, ma solo fino alla data
del 27/04/2016, data di scadenza del termine di fase previsto per il rito
abbreviato.

Appare quindi evidente come non vi sia stata alcuna analogia in malam partem
nel caso in esame, atteso che il Tribunale del Riesame non ha prolungato affatto
il termine di fase per il rito abbreviato oltre il 27/04/2016, non utilizzando in
alcun modo in tale fase il prolungamento di cui all’art. 303, lett. b, sub 3 bis,
cod. proc. pen.; ed infatti l’ordinanza di custodia cautelare, emessa in data
22/10/2014, era stata eseguita, nei confronti del ricorrente, in data 28/10/2014,
per cui il termine di fase per le indagini preliminari sarebbe scaduto in data
27/04/2015; in data 19/02/2015, tuttavia, era intervenuto il decreto di giudizio
immediato, con conseguente scadenza del termine di fase per il giudizio
13

decorrere un tempo maggiore rispetto a quello che la legge assegna a tale fase

ordinario in data del 18/8/2016; in data 28/10/2015, inoltre, era stato ammesso
il rito abbreviato, quindi in epoca precedente la scadenza del termine di fase per
il giudizio ordinario, calcolato in base alla disciplina di cui all’art. 303, lett. b 3
bis, cod. proc. pen., ed a decorrere dalla trasformazione del rito il termine di fase
non avrebbe potuto essere prolungato oltre la data del 27/04/2016, ossia del
termine calcolato unicamente ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. b bis, cod.
_
.05
proc. pen; in data
-5″
tuttavia, risulta intervenuta sentenza di primo grado,
con condanna del Galati Giuseppe, tra gli altri, alla pena di

per il delitto a lui

ascritto, con conseguente applicazione dell’ulteriore termine di fase ai sensi

In tal senso il percorso logico seguito dal Tribunale del Riesame di Milano appare
assolutamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte, ed in particolare
con la citata Sez. 6, sentenza n. 9088 del 22/11/2012, Rv. 254582 che, come
detto, ha affermato che “I termini di durata massima della custodia cautelare,
nel caso di giudizio abbreviato ammesso dopo il decreto che dispone il giudizio,
si commisurano a quelli propri della fase del giudizio dibattimentale per il periodo
antecedente all’ordinanza ammissiva del rito alternativo, e a quelli previsti per
quest’ultimo in relazione al periodo successivo, con la precisazione che gli stessi,
complessivamente considerati, non possono estendersi per un tempo maggiore
rispetto a quello che legge assegna alla fase del giudizio ex art. 303, comma
primo, lett. b), cod. proc. pen.”

Ne deriva quindi, che, pur a seguito dell’annullamento dell’ordinanza emessa ai
sensi dell’art. 304, commi 2 e 3, cod. proc. pen., dal Giudice per le indagini
preliminari in data 08/02/2016, ossia in epoca in cui era già stata emessa
l’ordinanza di ammissione del rito abbreviato, i termini complessivi per la fase
del giudizio certamente non possono essere calcolati oltre la data di scadenza del
termine di cui all’art. 303, comma 1, sub b bis), cod. proc. pen., ossia oltre la
scadenza del 27/04/2016, né oltre detta data gli stessi avrebbero potuto essere
in alcun modo prolungati, e tuttavia deve considerarsi che il rito abbreviato si è
comunque instaurato in una fase processuale già introdotta a seguito di decreto
di giudizio immediato, con la conseguenza che la frazione temporale
intercorrente tra la data di adozione dell’ordinanza di sospensione dei termini,
poi annullata – 08/02/2016 – e la data di scadenza del termine di fase per il rito
abbreviato – 27/04/2016 – deve essere ritenuta già recuperata con imputazione
alla precedente fase delle indagini preliminari.

Detto meccanismo appare del tutto coerente con la disciplina complessiva
dell’istituto, in quanto da un lato esso non ha determinato alcun prolungamento
14

dell’art. 303, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.

dei termini di fase previsti per il giudizio abbreviato, dall’altro non ha
determinato alcun aumento dei termini massimi ai sensi dell’art. 304, comma 6,
cod. proc. pen.

A ciò deve essere aggiunta la considerazione che, come risulta dalla motivazione
dell’impugnata ordinanza, il ricorrente era stato sottoposto ad altra misura
cautelare in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis, cod. pen., con ordinanza ex
art. 310 cod. proc. pen. emessa all’udienza del 25/11/2014 dal Tribunale del
Riesame di Milano che aveva accolto l’appello del pubblico ministero, ordinanza

Tuttavia alla pag. 2 dell’ordinanza in esame il Tribunale ha specificato che il
decreto di giudizio immediato era stato emesso solo in relazione al delitto di cui
agli artt. 9, 10, 12, 14 L. 497/74, 7 L. 203/1991, e che in data 28/10/2015 il
processo era stato riunito ad altro processo pendente innanzi al medesimo
Giudice – n. 58423/14 R.G.N.R. -, specificando che dagli atti non risulta se il
detto processo riunito concernesse, per la posizione del Galati Giuseppe, la
fattispecie di cui all’art. 416 bis, cod. proc. pen.

E, conseguentemente, alla pag. 5 dell’ordinanza, il Tribunale del Riesame, dopo
aver spiegato le motivazioni dell’annullamento dell’ordinanza emessa ex art.
304, commi 2 e 3, cod. proc. pen., ha specificato che la conseguente valutazione
della questione concernente i termini di custodia cautelare, in relazione alla
posizione del Galati Giuseppe, andava quindi effettuata solo in riferimento alla
fattispecie di violazione alla normativa sulle armi, non emergendo quale fosse lo
stato del procedimento in relazione alla fattispecie di cui all’art. 416 bis, cod.
pen.; inoltre per detto ultimo reato la misura coercitiva risultava eseguita solo in
data 23/06/2015, una volta divenuta definitiva l’ordinanza ex art. 310 cod. proc.
pen., di accoglimento dell’appello del pubblico ministero.

Tanto premesso, va ricordato che la difesa, all’udienza del 12/05/2016 innanzi a
questa Corte, ha affermato che il processo per il reato di cui all’art. 416 bis, cod.
pen., era stato riunito, ma detta circostanza non appare in alcun modo
documentata e, in ogni caso, la stessa appare del tutto ininfluente alla luce delle
considerazioni appena riportate, contenute nell’impugnata ordinanza.

Parimenti appare non fondata la doglianza difensiva rilevata all’udienza innanzi a
questa Corte – secondo cui il Tribunale del Riesame avrebbe confermato
l’impugnata ordinanza per ragioni diverse da quelle poste a sostegno del ricorso
ex art. 310 cod. proc. pen. – in quanto, come si evince chiaramente dal tenore
della motivazione, il Tribunale ha accolto le doglianze difensive ritenendo che
15

divenuta esecutiva il 23/06/2015, a seguito di rigetto del ricorso per cassazione.

l’ordinanza di sospensione dei termini ex art. 304, commi 2 e 3, cod. proc. pen.,
fosse stata adottata in carenza dei presupposti, con annullamento della stessa.
In aderenza ai pacifici principi sanciti da questa Corte (Sez. U, sentenza n.
40701 del 31/10/2001, Rv. 219948; Sez. 1, sentenza n. 29066 del 12/06/2002,
Rv. 22096) il Tribunale del Riesame ha poi valutato la sussistenza degli estremi
per adottare i conseguenti provvedimenti, tra cui la scarcerazione dell’imputato,

L
[

ove risultino decorsi i termini, rilevando che – per le ragioni descritte – nel caso
in esame i termini non fossero decorsi.

616 cod. proc. pen., del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda la Cancelleria per quanto di competenza, ai sensi dell’art. 94, comma 1
ter, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso in Roma, il 12/05/2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Ne consegue, pertanto, il rigetto del ricorso e la conseguente condanna, ex art.

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