Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28676 del 14/03/2016


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 5 Num. 28676 Anno 2016
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: CATENA ROSSELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto ex art. 625 bis, cod. proc. pen., da:
Dell’Utri Marcello, nato a Palermo il 11/09/1941,
avverso la sentenza della Corte di Cassazione, sez. 1, n. 28225/14, emessa in data
09/05/2014;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico ministero, in persona del dott. Giovanni Di Leo, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente il difensore, Avv.to Giuseppe Antonio Gianzi, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata la Corte di Cassazione, sez. 1, rigettava il ricorso proposto da
Dell’Utri Marcello avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Palermo in data
25/03/2013, n. 1353/2013, che, quale giudice di rinviotenuto conto dell’assoluzione
1

Data Udienza: 14/03/2016

irrevocabile pronunciata dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza del 29/06/2010 in
riferimento alle condotte contestate per il periodo successivo al 1992, assorbito il reato di cui al
capo a) – di cui agli artt. 110, 416 bis, commi 1, 4, 5, cod. pen., per il periodo decorso da
epoca imprecisata fino al 28/09/1982 – in quello di cui al capo b) – di cui agli artt. 110, 416
bis, commi 1, 4, 6, cod. pen., per il periodo trascorso dal 28/09/1982 ad oggi – ed avuto
riguardo alle condotte contestate fino al 1992, rideterminava la pena e confermava nel resto
l’impugnata sentenza.

firma del difensore Avv.to Giuseppe Antonio Gianzi, depositati rispettivamente in data
03/02/2016 e 05/01/2016, ex art. 625 bis, cod. proc. pen., si deduce quanto segue:
premesso che il Dell’Utri Marcello è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in
associazione mafiosa per fatti anteriori al 1994, essendo le condotte esaurite al 1992, ed
essendo egli stato assolto in via definitiva per le condotte successive al 1992, si rileva che la
maggior parte della condotta risulta anteriore all’entrata in vigore nel nostro ordinamento
dell’art. 416 bis, cod. pen., con la legge Rognoni – La Torre del 13/09/1982, e che nel corso
dell’esecuzione della pena è intervenuta la sentenza della CEDU pronunciata in data
14/04/2015 sul ricorso Contrada/Italia, in un caso del tutto analogo a quello che riguarda il
Dell’Utri Marcello;
rilevato che la sentenza Contrada afferma indiscutibilmente un principio di carattere generale,
va quindi esaminata la problematica concernente la recessività del giudicato e gli effetti delle
sentenze della Corte europea che abbiano sancito un principio, nei riguardi dei soggetti non
direttamente parti della sentenza CEDU ma che, tuttavia, si trovino nella stessa situazione; a
detta problematica la Corte di Cassazione ha offerto una chiara risposta con la sentenza a
Sezioni Unite Ercolano del 2012, in cui è stato affermato che le decisioni della Corte EDU
quando evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna con la
Convenzione europea, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quelli nell’ambito del
quale sono state pronunciate;
ne consegue, quindi, la richiesta di revocare, ai sensi dell’art. 625 bis, cod. proc. pen., la
condanna inflitta al Dell’Utri per fatti antecedenti al 1994, utilizzando un istituto la cui
applicazione analogica ed estensiva è sicuramente imposta dalla esigenza di salvaguardare i
diritti fondamentali della persona;
si ricorda, altresì, che l’incidente di esecuzione proposto innanzi alla Corte di Appello di
Palermo in data 02/10/2015, è stato rigettato in quanto si è ritenuto che nel caso di specie il
giudice dell’esecuzione non potesse procedere alla revoca o alla declaratoria di ineseguibilità
della sentenza in quanto vietato dall’art. 673 cod. proc. pen., norma non costituzionalmente
illegittima; avverso detto provvedimento è stato proposto ricorso per cassazione in data
09/12/2015, in quanto la sentenza n. 49 della Corte Costituzionale, citata nel provvedimento

2

Con due ricorsi identici nel contenuto, l’uno sottoscritto dal solo Dell’Utri Marcello, l’altro a

della Corte di Appello di Palermo, riguardava un caso del tutto diverso, in cui non si faceva
questione della violazione dell’art. 7 CEDU;
si rileva, infine, che il ricorso all’art. 625 bis, cod. proc. pen., trova precedenti nel caso della
sentenza Drassich, in cui era stata ammessa l’esperibilità del ricorso straordinario per dare
esecuzione alla sentenza stessa; ad analoghe conclusioni è poi giunta la sentenza della Sez. 5
dell’11/02/2010, Scoppola, né il ricorso all’analogia, nel caso in esame, risulta vietato dall’art.
14 delle disposizioni sulla legge in generale, trattandosi non di una norma penale
incriminatrice, ma di applicazione di una norma che avrebbe effetti in

bonam partem, non

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso va dichiarato inammissibile.

1.Va anzitutto rilevato che, in base all’inquadramento fornito dalla giurisprudenza di questa
Corte all’istituto del ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis, cod. proc. pen., se ne deve
escludere la possibilità applicativa in relazione alla vicenda in esame per insussistenza dei
presupposti attuativi, in quanto trattatasi di una questione che inevitabilmente implica una
valutazione di un fatto processuale, di per sé incompatibile con la nozione di errore di fatto
normativamente accolta.
Già le Sezioni Unite, con sentenza n. 37505 del 14/07/2011, Rv. 250527, avevano affermato
che “In tema di ricorso straordinario, qualora la causa dell’errore non sia identificabile
esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque
contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso
dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625 bis cod. proc. pen.”
La sentenza citata aveva esaminato un caso relativo ad un errore di percezione rifluente
sull’accertamento della prescrizione, osservando come fosse consolidato l’orientamento di
legittimità sui limiti della cognizione del giudice di legittimità in materia di ricorso ex art. 625
bis cod. proc. pen., citando quanto già affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 16103
del 27/03/2002, Basile, Rv. 221280, secondo cui l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di
legittimità e oggetto del ricorso straordinario consiste in un errore percettivo causato da una
svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al
giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà,
viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto ad una decisione
diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso.

3

trattandosi neanche di norma eccezionale.

La giurisprudenza successiva di questa Corte si è posta nel solco della citata pronuncia a
Sezioni Unite, ribadendo l’inquadramento dell’errore di fatto verificatosi nel giudizio di
legittimità: si è affermata l’ammissibilità del ricorso di cui all’art. 625 bis, cod. proc. pen.,
riguardante la mancata dichiarazione della prescrizione del reato, a condizione che il rilievo
dell’errore di fatto non comporti una decisione con contenuto valutativo (Sez. 6, sentenza n.
36768 del 20/09/2012, Rv. 253382); è stato chiarito che il ricorso straordinario per errore
materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di cassazione può avere ad oggetto
l’omessa considerazione di una prova esistente, ma non il travisamento della stessa (Sez. 3,

Corte ad una rinnovata valutazione della questione concernente la concessione delle
circostanze attenuanti generiche, è stato ritenuto non ammissibile il ricorso straordinario, in
quanto la decisione impugnata aveva comunque contenuto valutativo, essendo in tal caso
configurabile un errore di giudizio (Sez. 6, sentenza n. 35239 del 21/05/2013, Rv. 256441); è
stato ribadito, in un caso di omessa valutazione da parte della Corte della richiesta di
applicazione della prescrizione e conseguente declaratoria di estinzione del reato, che integra
errore di fatto, ai sensi dell’art. 625 bis, cod. proc. pen., l’omessa considerazione delle
conclusioni difensive, qualora le stesse appaiano decisive ai fini del giudizio di legittimità (Sez.
1, sentenza n. 26697 del 23/05/2013, Rv. 255970); in un altro caso, relativamente a
ricorso proposto per il mancato riconoscimento di un alibi, fondato su testimonianze e
messaggi sms già valutati nella decisione impugnata, si è ritenuto che il ricorso straordinario
per errore di fatto è ammissibile quando la decisione della Corte di cassazione sia la
conseguenza di un errore percettivo, causato da una svista o da un equivoco, e non anche
quando il preteso errore derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o di circostanze di fatto
correttamente percepite (Sez. 6, sentenza n. 28269 del 28/05/2013, Rv. 257031); nella
diversa ipotesi in cui era stato proposto ricorso straordinario avverso la decisione assunta in
assenza del difensore, non ancora comparso, ed in accoglimento di una richiesta di
anticipazione della trattazione avanzata da altro difensore, il ricorso straordinario era stato
dichiarato inammissibile, in quanto la Corte di Cassazione aveva adottato un’interpretazione di
norme e prassi che regolano lo svolgimento delle udienze dinanzi a sé, fondata su dati
correttamente rilevati e valutati e non basata su una fuorviata rappresentazione percettiva,
precisando che sussiste l’onere di essere presenti in udienza sin dall’ora stabilita per il suo
inizio, senza che l’inserimento del processo in una prefissata posizione dell’elenco numerico
predisposto per gestirla determini un vero e proprio ordine di chiamata su cui possa farsi
affidamento (Sez. 6, sentenza n. 44637 del 31/10/2013, Rv. 257154); analogamente è stato
ritenuto che l’omesso scrutinio di particolari deduzioni, contenute in un motivo di ricorso per
cassazione esaminato e trattato dal giudice di legittimità, non dà luogo ad errore di fatto
rilevante a norma dell’art. 625 bis, cod. proc. pen., dovendosi ritenere tali deduzioni
implicitamente valutate e disattese dalla Corte (Sez. 1, sentenza n. 46981 del 06/11/2013);
anche in un caso in cui non vi era in atti una regolare notifica al difensore dell’avviso di cui
4

sentenza n. 26635 del 26/04/2013, Rv. 256293); in un caso in cui il ricorrente sollecitava la

all’art. 610 cod. proc. pen., ma dalla sentenza impugnata si evinceva che la Corte aveva
desunto aliunde la conoscenza legale da parte di questi della data dell’udienza, è stata esclusa
la sussistenza di un errore di fatto (Sez. 5, sentenza n. 7469 del 28/11/2013, Rv. 259531); è
stato altresì escluso che fosse riconducibile nell’ambito del rimedio di cui all’art. 625 bis, cod.
pen., un caso di qualificazione come “lettera” di un verbale di dichiarazioni rese al difensore,
reputandolo un semplice “lapsus calami” inidoneo ad influire sul processo formativo della
volontà della Corte di cassazione (Sez. 2, sentenza n. 2241 del 11/12/2013, Rv. 259821); è
stato ritenuto deducibile attraverso il ricorso straordinario l’errore di fatto compiuto dalla Corte

precedenza revocato dall’imputato, anziché a quello nominato in sua sostituzione (Sez. 5,
sentenza n. 40275 del 16/05/2014, Rv. 262548); è stato poi affermato che l’omesso esame,
da parte della Corte di cassazione, di motivi di ricorso non manifestamente infondati, nel caso
in cui sia seguita la declaratoria di inammissibilità, dà luogo ad errore di fatto rilevante a
norma dell’art. 625 bis cod. proc. pen., e alla conseguente rescissione della sentenza di
legittimità impugnata, anche quando i motivi pretermessi siano da rigettare, poiché tale
evenienza assume rilevanza ai fini sia della regolamentazione delle spese, sia, sopratutto, della
possibile prescrizione del reato (Sez. 6, sentenza n. 4195 del 08/10/2014, Rv. 262048); in un
altro caso è stato affermato che non fosse deducibile ai sensi dell’art. 625 bis cod. proc. pen. la
mancata disamina di doglianze non decisive, o che dovessero essere considerate
implicitamente disattese, in quanto incompatibili con la struttura e con l’impianto della
motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche, che compendiano la ratio

decidendi della sentenza medesima, con conseguente onere del ricorrente dimostrare che la
doglianza era invece decisiva, per cui il suo omesso esame è conseguenza di un sicuro errore
di percezione (Sez. 6, sentenza del 10/02/2015, Rv. 263113).
Si è così pervenuti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 18651 del 26/03/2015, Rv. 263686, la
quale ha ribadito che “In tema di ricorso straordinario, qualora la causa dell’errore non sia
identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia
comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come
tale escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625 bis cod. proc. pen.”.
Detto orientamento, pertanto, deve ritenersi pacificamente condiviso dalla giurisprudenza di
questa Corte, che lo ha anche di recente ribadito (Sez. 4, sentenza n. 17178 del 08/04/2015,
Rv. 263443, che ha affermato come l’omesso esame, da parte delle Corte di Cassazione, di
motivi di ricorso non manifestamente infondati, nel caso in cui sia seguita la declaratoria di
inammissibilità, dà luogo ad errore di fatto rilevante a norma dell’art. 625 bis, cod. proc. pen.,
e alla conseguente rescissione della sentenza impugnata, anche quando i motivi pretermessi
siano da rigettare, poiché tale evenienza assume rilevanza ai fini sia della regolamentazione
delle spese, sia, soprattutto, della possibile prescrizione del reato; Sez. 3, sentenza n. 23964
5

di cassazione e consistito nella notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza al difensore in

del 26/05/2015, Rv. 263646, che ha ritenuto inammissibile il ricorso straordinario in un caso di
mancata dichiarazione della prescrizione del reato, ove il dubbio sulla esatta data di
consumazione dello stesso doveva essere risolto in applicazione del principio del favor rei,
poiché in tal caso, l’individuazione del dies a quo non si risolveva nell’apprezzamento di un
dato di immediata percezione ed evidenza, ma in una decisione a contenuto valutativo; Sez. 2,
sentenza n. 41782 del 30/09/2015, Rv. 265248, in cui la Corte ha ritenuto ricorresse un errore
percettivo, rilevante ai sensi dell’art. 625 bis, cod. proc. pen., ed influente sulla qualificazione

parte del collegio della natura pubblica dei fondi oggetto di appropriazione da parte
dell’imputato, laddove emergeva, inequivocabilmente, dalle risultanze processuali la natura
privata degli stessi).
2. Nel caso sottoposto all’esame del Collegio con i ricorsi del Dell’Utri e del suo difensore, si
chiede di revocare la condanna inflitta al Dell’Utri stesso con la sentenza di questa Corte, sez.
1, n. 28225/2014, per i fatti antecedenti al 1994, in applicazione del principio espresso dalla
sentenza CEDU nel ricorso Contrada/Italia, definitiva in data 14/09/2015, secondo cui il delitto
di concorso esterno in associazione mafiosa non era sufficientemente chiaro e prevedibile fino
all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza Demitry
in data 05/10/1994, per cui tutte le condanne per fatti antecedenti il 1994 devono ritenersi
contrastanti con il principio di cui all’art. 7 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo.

Ciò discende, secondo quanto prospettato in ricorso, dall’obbligo degli Stati a conformarsi alle
sentenze definitive della Corte europea, ai sensi dell’art. 46, par. 1 CEDU, non solo adottando
le riparazioni pecuniarie e le altre misure individuali necessarie per porre fine alla violazione e
per eliminare tutte le conseguenze pregiudizievoli per la vittima, ma anche ad adottare tutte le
misure di carattere generale necessarie e rimuovere le cause strutturali della violazione
riscontrata, qualora essa tragga origine da un difetto sistemico dell’ordinamento interno, ed
evitare, in tal modo, il ripetersi di violazioni analoghe o identiche.

Nel caso in esame, infatti, si sarebbe verificata proprio una situazione del genere, ossia
derivante da un difetto sistemico dell’ordinamento interno, in quanto il Dell’Utri – così come il
Contrada – è stato condannato con sentenza definitiva per il delitto di concorso esterno in
associazione mafiosa per fatti anteriori al 1994, data in cui il percorso di evoluzione
giurisprudenziale del reato citato non era giunto ad un livello di consolidamento sufficiente a
soddisfare il requisito minimo della legalità convenzionale prescritto dall’art. 7 CEDU.
3. Appare pacifico, nella giurisprudenza della Corte EDU, il principio appena illustrato e
costituente uno dei principali argomenti del ricorso, relativo alla necessità per gli Stati
contraenti, di adozione di tutte le misure generali finalizzate alla rimozione delle cause
strutturali di una violazione sistemica dell’ordinamento interno (Scozzari e Giunta/Italia, ricorsi
6

del fatto quale delitto di peculato anziché di appropriazione indebita, nella considerazione da

n. 39221 e n. 41963 del 1998, sentenza GC del 13/07/2000, par. 249; Scordino/Italia, ricorso
n. 36813 del 1997, sentenza GC del 29/03/2006, par. 233; Grande Stevens ed altri/Italia,
ricorsi n. 18640, n. 18647 n. 18663, n. 18668, n. 18698 del 2010, sentenza GC 04/03/2014,
par.233; Oliari ed altri/Italia, ricorsi n. 18766 e n. 36030 del 2011, sentenza GC 21/07/2015,
par. 200); detto principio risulta ribadito dalla Corte Costituzionale con sentenza del
03/07/2013, n. 210 e da questa stessa Corte (Sez. 1, sentenza n. 2800 del 01/12/2006, Rv.
235447, che ha affermato come le sentenze della Corte EDU che dichiarano l’intervenuta

obblighi nei confronti delle parti, vale a dire sia rispetto allo Stato, che è tenuto a conformarsi
al dictum della stessa Corte e ad eliminare tempestivamente le conseguenze pregiudizievoli
della verificata violazione, sia rispetto al cittadino, al quale non può negarsi il diritto alla
riparazione, nella forma pecuniaria ovvero nella forma specifica della restituito in integrum
mediante la rinnovazione del giudizio diretta a ristabilire il diritto del richiedente ad un procès
équitable), anche se con giurisprudenza non assolutamente pacifica (Sez. 1, ordinanza n.
35555 del 02/07/2008, Rv. 240579, secondo cui ai fini del giudizio di legittimità costituzionale
assumono rilevanza le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretate dalla Corte EDU, le quali
rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all’art. 117, comma primo,
Cost., a condizione che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli
interessi costituzionalmente protetti, restando, invece, esclusa la disapplicazione delle
disposizioni di legge ordinaria da parte del giudice che reputi una determinata disciplina non
conforme alle previsioni della predetta Convenzione).

4.Ciò che appare necessario verificare, tuttavia, è l’idoneità del rimedio processuale richiesto
per pervenire alla rimozione dei citati effetti pregiudizievoli, derivanti da un difetto qualificato
sistemico dell’ordinamento interno, atteso che l’esigenza di conformarsi ai principi sanciti da
una sentenza della Corte EDU deve pur sempre passare attraverso il rinvenimento di uno
strumento processuale conforme non solo alla finalità indicata dalla pronuncia sovranazionale,
ma altresì coerente con la struttura ontologica e con le finalità riconosciute dall’ordinamento
nazionale allo strumento processuale prescelto, nel quadro delineato dai principi costituzionali;
qualora poi si dovesse ritenere che l’ordinamento consenta il ricorso a più strumenti
processuali, astrattamente idonei a perseguire lo scopo indicato, l’interprete dovrà poi
valutare, in concreto, quello più adeguato al caso in esame, sempre nel quadro di riferimento
normativo dei principi costituzionali e del diritto processuale interno.
Tanto premesso appare evidente prima facie come l’istituto del ricorso straordinario ex art. 625
bis, cod. proc. pen., sia del tutto inadeguato nel caso in esame, non essendosi affatto verificata una
fuorviata rappresentazione percettiva nella sentenza della Sez. 1, n. 28225 del 2014, non

7

violazione delle disposizioni della Convenzione sono direttamente produttive di diritti ed

avendo neanche i ricorsi in esame evidenziato alcun errore di fatto in cui sarebbero incorsi i
giudici di legittimità.

Per la verità, all’affermazione della possibilità di pervenire ad un’applicazione della così detta
recessività del giudicato, nel caso in esame, si giunge, secondo quanto prospettato in ricorso,
attraverso i principi affermati dalla sentenza della Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich,
Rv. 241753, e dalla sentenza della Sez. 5, n. 16507 del 11/02/2010, Scoppola, Rv. 247244.

giuridici per la concreta esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che
abbiano rilevato, nei processi penali, violazioni dei principi sanciti dall’art. 6 della Convenzione,
ponendo però in rilievo che il giudice ha il dovere di ricercare, in considerazione della specificità
della violazione, le modalità di restitutio in integrum. E’ stata, inoltre, posta in risalto la
specificità del decisum della Corte e la sua incidenza sul caso concreto, che non postulava una
“revisione” della sentenza resa all’esito del giudizio di merito, essendosi realizzata l’iniquità del
giudizio di legittimità attraverso la modificazione ex officio della definizione giuridica del fatto,
il cui principale effetto era stato costituito dal permanere della condanna, cancellata dalla
declaratoria di estinzione del reato.

Del resto – aveva proseguito la sentenza in esame – la Corte costituzionale, nel dichiarare
inammissibile la questione di legittimità delle disposizioni in tema di revisione nella parte in cui
non prevedevano la riconducibilità a tale istituto delle decisioni penali della Corte di cassazione
per errore di fatto, ha sottolineato che l’istituto della revisione è un “modello del tutto
eccentrico rispetto alle esigenze da preservare nel caso di specie, avuto riguardo: sia alla
diversità dell’organo chiamato a celebrare tale giudizio (la corte di appello); sia alla duplicità di
fase (rescindente e rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze; sia alle stesse funzioni che
tale istituto è chiamato a soddisfare nel sistema” (sentenza n. 395 del 2000).
Nella recente sentenza n. 129 del 2008, poi, è la Corte costituzionale a porre in rilevo che il
legislatore “… per soddisfare le esigenze e le lacune poste in luce nella pronuncia richiamata ha introdotto, con l’art. 625 bis c.p.p., un nuovo istituto per rimuovere gli effetti di quel tipo di
errori commessi dalla Corte di cassazione, denominandolo significativamente ricorso
straordinario per errore materiale o di fatto; ed assegnandogli una collocazione sistematica ed
una disciplina avulse (e logicamente alternative) rispetto a quelle che caratterizzano la
revisione”. In tal modo, definito il contesto nel quale si chiedeva di intervenire, ad avviso del
Collegio lo strumento giuridico idoneo a dare attuazione alla sentenza europea poteva essere,
nel caso di specie, quello del ricorso straordinario contro le sentenza della Corte di cassazione,
previsto dall’art. 625 bis c.p.p. Detta norma, ha argomentato il Collegio – sebbene realizzata
per colmare vuoti di tutela definiti e tassativi, errore materiale o di fatto – ampiamente
giustifica un ragionamento per analogia, non incorrendo nei divieti posti dall’art. 14 disp. gen.,
9

8

La prima sentenza ha affermato come sia compito primario del legislatore prevedere strumenti

ciò in quanto, anzitutto, non si è in presenza di una norma penale incriminatrice e, in ogni
caso, il ragionamento che si vuole sviluppare per similitudine conduce a effetti in

bonam

partem; la norma, inoltre, non si caratterizza per eccezionalità rispetto al sistema processuale,
poiché realizzata per colmare un vuoto normativo dovuto all’inadeguatezza della precedente
disciplina a tutelare anomalie e violazioni riconducibili al diritto di difesa, pur configurabili con
ordìnarietà nel giudizio di legittimità. Il detto ragionamento per similitudine, dunque, aveva
condotto ad applicare all’ipotesi

de qua

uno strumento giuridico modellato sull’istituto

analoghe, nel senso che l’elemento che le accomunava era l’identità di ratio, consistente nel
rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse
nell’ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni, che
avevano resa invalida per iniquità la sentenza della Corte della cassazione. Per di più, si era
ritenuto che nel caso specifico si fosse in presenza di violazione affermata dalla Corte europea,
che trova la sua immediata tutela nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
nell’art. 111 Cost., comma 2. In conclusione, vi era stata una parziale “rimozione” del
giudicato, nella parte in cui esso si era formato nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al
diritto di difesa, tradottosi in una “iniquità” della sentenza, “iniquità” che non era scaturita da
preclusioni processuali addebitabili al ricorrente, bensì dal “governo” del processo da parte del
giudice. Infine – a completamento dell’area degli argomenti giuridici – era stato ricordato come
nel bilanciamento di valori costituzionali, ossia, da un lato, quello della funzione costituzionale
del giudicato e, dall’altro, quello del diritto a un processo “equo” e ad una decisione resa nel
rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire
sull’accusa, non può che prevalere quest’ultimo; e proprio la prevalenza di quest’ultimo valore
ha determinato il legislatore a introdurre il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. contro le
sentenze della Corte di cassazione.
Tuttavia va rilevato che nel caso esaminato dalla sentenza Drassich, la Corte, facendo
ricorso all’art. 625 bis cod. proc. pen., aveva revocato una sua precedente sentenza,
limitatamente alla diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, ostativa alla
declaratoria d’estinzione per prescrizione, peraltro operata ex officio in sede di legittimità,
ravvisando come non fosse stato consentito alla difesa il contraddittorio sulla diversa
imputazione, verificatasi senza alcuna preventiva informazione dell’imputato.
Evidentemente si tratta di una vicenda del tutto eccentrica rispetto a quella oggetto del
presente ricorso, in cui non può ipotizzarsi – né è stata prospettata – alcuna violazione del
contraddittorio, né è ipotizzabile – e per la verità neanche ipotizzato – che si sia in alcun modo
pervenuti ad una sentenza resa all’esito di un processo non “equo”.

9

introdotto dall’art. 625 bis c.p.p., in quanto si era ritenuto trovarsi in presenza di situazioni

La seconda sentenza ha ritenuto ammissibile il ricorso straordinario preordinato ad ottenere in esecuzione di una sentenza della Corte EDU che aveva accertato la non equità del
trattamento sanzionatorio determinato, con sentenza definitiva, in violazione degli art. 6 e 7
C.E. – la sostituzione della pena inflitta con quella ritenuta equa dalla Corte europea,
sussistendo il diritto del ricorrente ad ottenere una modifica della pena in attuazione della
legalità della Convenzione ed il corrispondente obbligo positivo del giudice – che, investito del
ricorso, abbia preso atto dell’iniquità e dell’ineseguibilità del giudicato per il fatto nuovo

rispondente alla legalità della Convenzione europea. Nel caso di specie era stata revocata

in

parte qua la sentenza della Corte di cassazione che aveva formato il giudicato, con pronuncia
di annullamento senza rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio, in relazione alla
sentenza del giudice di merito che aveva modificato la pena inflitta al ricorrente – a seguito di
giudizio abbreviato, originariamente determinata in trent’anni di reclusione – in quella
dell’ergastolo, in virtù dell’entrata in vigore dell’art. 7, comma secondo, D.L. n. 341 del 2000,
conv. con modif. nella L. n. 4 del 2001, che ha modificato l’art. 442, comma secondo, ultimo
periodo, secondo un’applicazione ritenuta retroattiva dalla Corte europea – ed, infine, era stata
determinata direttamente la pena in trent’anni di reclusione.

In motivazione la sentenza ha affermato che affidare al giudice dell’esecuzione il compito di
sostituire la pena inflitta con la sentenza di merito è pienamente conforme alla normativa
vigente; ha ritenuto, tuttavia, la Corte che, in ossequio al principio dell’economia dei mezzi
processuali e allo speculare principio costituzionale della ragionevole durata del procedimento,
si potesse evitare questa ulteriore fase, a fronte dell’estrema chiarezza della sentenza della
Corte di Strasburgo e dell’esigenza di dare immediato riconoscimento all’efficacia nel nostro
ordinamento della normativa e delle decisioni delle istituzioni europee.
Pertanto, questa Corte, nel caso citato – preso atto dell’iniquità e
dell’ineseguibilità del giudicato per il fatto nuovo costituito dalla sentenza della Corte EDU,
pronunciata il 17 settembre 2009, che ha accertato che la sua formazione fosse avvenuta in
violazione dei principi ex artt. 6 e 7 della Convenzione, e preso atto della conseguente
esigenza di provvedere all’immediata caducazione della decisione viziata e della immediata
modifica della pena inflitta con sentenza del 10/01/2002 della Corte di Assise di Appello di
Roma – ha revocato in parte qua la sentenza emessa da questa stessa Corte, n. 2592/03 del
25/09/2002, che aveva formato il giudicato, annullando senza rinvio la citata sentenza della
Corte di Assise di Appello di Roma, limitatamente al trattamento sanzionatorio nei confronti del
ricorrente Scoppola Franco, determinandolo in anni trenta di reclusione.

Detta seconda sentenza presenta maggiori profili di affinità con il caso in esame, apparendo
del tutto condivisibile quanto in linea di principio da essa affermato in ordine al rimedio
esperibile, individuato nell’incidente di esecuzione.
10

costituito dalla sentenza della Corte europea – di determinarne la quantificazione in misura

Ed infatti, nel caso esaminato dalla sentenza Scoppola, la Corte EDU ha stabilito che l’art. 442
cod. proc. pen., nella parte in cui concorre a determinare la pena irrogabile, è norma di diritto
sostanziale e non processuale e, come tale, è soggetta al principio della irretroattività a danno
dell’imputato. Ovviamente nel caso esaminato dalla sentenza Scoppola era stato possibile
evitare l’ulteriore fase processuale che avrebbe dovuto necessariamente essere instaurata con
l’incidente di esecuzione – qualificato come strumento giuridico a cui far ricorso per la
determinazione della pena in concreto – in applicazione del principio dell’economia dei mezzi
processuali e dello speculare principio costituzionale della ragionevole durata del

Ne deriva, quindi, come sia sicuramente indiscusso il principio stabilito dall’art. 46 della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che stabilisce una chiara obbligazione giuridica per
gli Stati contraenti, di conformarsi – sotto il controllo del Comitato dei Ministri – alle sentenze
definitive della Corte pronunciate nelle controversie in cui sono parti.
Tuttavia ciò che la citata sentenza Scoppola aveva messo in evidenza è come l’assenza di un
rimedio procedurale ad hoc nel nostro ordinamento rendesse necessario affrontare il relativo
problema, in quanto l’ordinamento non prevede forme di riapertura del processo in caso di
violazione di diritti fondamentali accertata dalla Corte di Strasburgo, non apparendo possibile
risolvere il problema con applicazioni analogiche, incompatibili con il principio di tassatività
delle impugnazioni.

La peculiarità del caso esaminato dalla sentenza Scoppola era costituito dalla circostanza che
l’iniquità della decisione non attenesse né al profilo della formazione della prova in
contraddittorio, né a quello dell’accertamento della responsabilità penale o della qualificazione
giuridica dei fatti, non sostenendosi, cioè, che il giudice avrebbe dovuto giudicare in maniera
differente o che l’imputato avrebbe potuto difendersi diversamente, se fossero stati rispettate
le garanzie processuali fondamentali, essendo rilevante la non equità solo sul piano del
trattamento sanzionatorio; anche in tale caso, comunque, sussistevano le ragioni di coerenza
interna dell’ordinamento, che impedivano di considerare legittima la quantificazione della
sanzione inflitta allo Scoppola con una sentenza di condanna pronunciata in un giudizio nel
quale era stata violata una regola del giusto processo, come accertato dalla Corte Europea.
Non apparendo, di conseguenza, necessario procedere ad un nuovo giudizio di merito, essendo
sufficiente solo la modifica della pena nel senso indicato dalla sentenza, ed in ossequio al
principio dell’economia dei mezzi processuali e allo speculare principio costituzionale della
ragionevole durata del procedimento, si era quindi ritenuto possibile evitare la ulteriore fase
processuale che, altrimenti avrebbe dovuto essere instaurata con l’incidente di esecuzione.
La vicenda del Dell’Utri presenta, come detto, maggiori affinità con la sentenza Scoppola,
rispetto al caso esaminato con la sentenza Drassich, del tutto diverso per le ragioni in
11

procedimento, anche a fronte dell’estrema chiarezza della sentenza della Corte di Strasburgo.

precedenza illustrate; anche nel caso del Dell’Utri, infatti, la rimozione del giudicato
deriverebbe da una pronuncia che non riconosce cittadinanza nel nostro ordinamento penale
alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa in relazione ai fatti commessi in
epoca precedente l’anno 1994, a seguito della pronuncia della sentenza Demitry da parte delle
Sezioni Unite.

Tuttavia, anche volendo prescindere dalla circostanza che la sentenza da cui detto principio
scaturisce, ossia la sentenza Contrada, non è una sentenza definitiva della Corte EDU

nel caso in esame non si tratterebbe solo di modificare la pena nel senso indicato dalla
sentenza della Corte EDU, bensì di “rimuovere” il giudicato in relazione ad una precisa
qualificazione giuridica dei fatti, ritenuti non penalmente rilevanti in quanto non
sufficientemente specifici in considerazione dell’epoca di loro commissione.

Ne deriva, proprio seguendo il percorso argomentativo tratteggiato dalla sentenza Scoppola,
che il rimedio esperibile sarebbe quello dell’incidente di esecuzione, non a caso
immediatamente utilizzato dal ricorrente, che ha investito la Corte di Appello di Palermo quale
Giudice dell’esecuzione; da ciò appare quindi evidente che la praticabilità di un rimedio
specifico, peraltro individuato in concreto dal ricorrente come idoneo in termini processuali,
non offra alcuno spazio ad un ricorso analogico al diverso rimedio di cui all’art. 625 bis, cod.
proc. pen., per la semplice ragione che manca il presupposto della lacuna normativa che possa
giustificare il ricorso all’applicazione analogica richiamata in entrambi i ricorsi.

Che poi la Corte di Appello di Appello di Palermo, con ordinanza del 18 – 23/11/2015 allegata
al ricorso, abbia dichiarato inammissibile l’incidente di esecuzione, è circostanza che attiene ad
un diverso aspetto, ossia alla legittimità della motivazione del citato provvedimento, che sarà
eventualmente vagliata a seguito di ricorso per cassazione, ma certamente non riguarda la
corretta scelta della strada processuale intrapresa.

pronunciata nella controversia in cui il ricorrente Dell’Utri è parte, ciò che va sottolineato è che

Ciò che in ogni caso occorre considerare è l’assoluta incongruenza tra i presupposti qualificanti
il ricorso alla procedura ex art. 625 bis, cod. proc. pen., come delineati dalla giurisprudenza di
questa Corte, in precedenza illustrata, e la specifica vicenda esaminata nel caso in esame, che
palesemente prescinde da qualsivoglia fuorviata rappresentazione percettiva.
Anzi, va ricordato come sia stato affermato, in un caso che presentava profili di somiglianza
con quello in esame – ossia una fattispecie relativa a ricorso ex art. 625 bis, cod. proc. pen.,
proposto per la riqualificazione del reato di concussione nella nuova ipotesi di indebita
induzione a dare o promettere utilità, di cui all’art. 319 quater, cod. pen. – l’inammissibilità del
ricorso straordinario per errore di fatto proposto al fine della riqualificazione giuridica di un
fatto, già deciso con sentenza passata in giudicato, in applicazione di una normativa più
12
E
[

favorevole sopravvenuta alla decisione di legittimità (Sez. 6, sentenza n. 49877 del
29/11/2013, Rv. 258362).

A detta conclusione può giungersi, inoltre, anche ricordando la sentenza della Corte
Costituzionale, n. 113 del 2011, che, nel dichiarare la illegittimità dell’art. 630 cod. proc. pen.
– nella parte in cui non contempla un diverso caso di revisione, rispetto a quelli espressamente
regolati, volto specificamente a consentire la riapertura del processo quando essa risulti
necessaria, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza

riapertura andrà apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione
accertata – tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui
esecuzione si tratta, nonché nella sentenza “interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte
di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della CEDU., ed
affermando che in tal caso l’ipotesi di revisione comporta, nella sostanza, una deroga imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al principio per cui i vizi processuali
restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche
come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre,
appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo
giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.
Anche sotto detto ultimo aspetto, quindi, il rimedio di cui all’art. 625 bis, cod. proc. pen., non
appare in alcun modo percorribile né, quindi, prospettabile nel caso in esame.
5. In ogni caso, e sotto un ulteriore aspetto, va ricordato come i ricorsi del Dell’Utri Marcello e
del suo difensore appaiano inammissibili anche sotto il profilo della non tempestività,
considerato che il termine di centottanta giorni, fissato dal comma secondo dell’art. 625 bis,
cod. proc. pen., per la presentazione del detto ricorso, decorre dal momento del deposito del
provvedimento pronunciato dalla Corte di Cassazione, a nulla rilevando il momento in cui la
parte interessata ha avuto effettiva conoscenza del contenuto del provvedimento medesimo
(Sez. 2, sentenza n. 29050 del 27/06/2014, Rv. 260264).
Nel caso in esame la sentenza di questa Corte, sez. 1, risulta depositata in data 01/07/2014,
ed i ricorsi ex art. 625 bis, cod. proc. pen., risultano depositati in data 03/02/2016 e
05/01/2016, ben oltre, quindi, il predetto termine, pur tenendo conto della generale
sospensione dei termini processuali nel periodo feriale a norma dell’art. 1 della legge 7 ottobre
1969, n. 742. (Sez. U., sentenza n. 32744 del 27/11/2014, Rv. 264047).
Ne deriva, pertanto, l’inammissibilità del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

13

definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo – ha ricordato come la necessità di detta

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 14/03/2016

Il Presidente

Il Consigliere estensore

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA