Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28567 del 01/06/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 28567 Anno 2016
Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

Data Udienza: 01/06/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SALERNO ROSARIO N. IL 11/10/1977
SALLEMI RAFFAELE N. IL 06/12/1959
avverso la sentenza n. 111/2015 CORTE APPELLO di CATANIA, del
29/09/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 01/06/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
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Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Catania, con sentenza in data 29.09.2015, per
quanto rileva in questa sede, confermava la sentenza di condanna resa dal
Tribunale di Ragusa il 27.02.2014, nei confronti di Salerno Rosario e Sallemi
Raffaele, in relazione al reato di lesioni colpose, di cui al capo b). Ai prevenuti, nella
qualità di amministratori della Lapis srl, per colpa consistita nell’aver omesso di
disporre idonee cautele e di impartire istruzioni in ordine alla possibilità per i

caduta di lastre di marmo sollevate da autogru, si contesta di aver cagionato le
lesioni descritte in rubrica al dipendente Campo Biagio, che era intento al carico di
lastre di marmo su un autocarro e che sì trovava in uno spazio intermedio,
insufficiente ad evitare danni fisici a seguito di eventuali cadute delle lastre; lesioni
conseguenti alla caduta addosso al dipendente di lastre scivolate dall’imbracatura
dell’autogru.
La Corte di Appello, richiamato il disposto di cui all’art. 33, comma 13, d.lgs.
626/1994, rilevava che gli imputati non avevano adottato le cautele necessarie
affinché i dipendenti non venissero investiti dal materiale. Segnatamente, il Collegio
evidenziava che i prevenuti non avevano fornito istruzioni ai dipendenti, su come
controllare le lastre, mentre erano ferme, una volta sollevate da terra. Nel
procedere alla ricostruzione della dinamica del sinistro, la Corte territoriale si
soffermava sulla deposizione del teste Peluso, il quale al momento dell’incidente si
trovava con l’apprendista campo Biagio. Ciò posto, la Corte riferiva che il teste
Perremuto, del servizio di prevenzione infortuni, aveva chiarito che nell’azienda vi
era una sottovalutazione dei rischi derivanti dalla caduta delle lastre; e che gli
ispettori del lavoro avevano impartito prescrizioni, all’indomani del sinistro, proprio
al fine di evitare l’accesso dei dipendenti nello spazio ristretto tra i cavalletti. La
Corte distrettuale escludeva che la condotta del dipendente infortunato potesse
qualificarsi come eccezionale o imprevedibile, giacché era stato accertato che
abitualmente gli addetti al controllo delle lastre entravano all’interno degli stretti
corridoi che si formavano tra le lastre medesime.
2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania hanno proposto
ricorso per cassazione Salerno Rosario e Sallemi Raffaele, a mezzo del difensore.
Con il primo motivo i ricorrenti reiterano la censura afferente alla
intervenuta violazione di legge in riferimento al principio di necessaria correlazione
tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza. Le parti osservano che il primo
giudice ebbe a ritenere integrati profili di colpa diversi da quelli descritti nel capo a)
della rubrica ed espressamente richiamati nel capo b), ipotesi di reato per cui oggi
si procede. Osservano, al riguardo, che il Tribunale ha valorizzato una presunta

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dipendenti di abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo di

scorretta modalità operativa di controllo delle lastre in movimento. Sul punto,
rilevano che dalla istruttoria dibattimentale era emerso che le lastre erano ferme.
Ciò posto, i ricorrenti osservano che la Corte di Appello ha individuato un
ulteriore profilo di colpa a carico dei prevenuti, nella mancanza di istruzioni
impartite ai dipendenti, profilo estraneo alla contestazione originaria, ove si faceva
specificamente riferimento alla norme cautelari dettate dal d.lgs. n. 626/94, art. 33,
comma 13; e dal d.P.R. n. 547/1955, art. 389, lett. b). E rilevano che

sentenza di primo grado.
Con ulteriore motivo le parti denunciano il travisamento della prova,
refluente sulla affermazione di responsabilità.
A sostegno dell’assunto, i ricorrenti osservano che i giudici hanno omesso di
rilevare le plurime discrasie in cui è incorsa la parte civile, rispetto alla ricostruzione
della dinamica del sinistro; e di qualificare come abnorme la condotta posta in
essere dall’operaio apprendista, rimasto infortunato. Gli esponenti riportano, quindi,
stralci delle dichiarazioni rese dalla parte offesa Campo ed altri testi in
dibattimento. Osservano che i giudici di merito hanno confuso l’imbracatura delle
lastre con l’attività di controllo delle lastre; che erroneamente hanno fatto
riferimento agli esiti del sopralluogo effettuato dall’Ispettorato del Lavoro in data
23.01.2008, laddove l’incidente si era verificato il 20.06.2007; e che le nuove
prescrizioni di sicurezza concordate tra la società Lapis e l’Ispettorato riguardano lo
svolgimento della futura attività aziendale e non possono assumere portata
retroattiva, con riguardo al giorno in cui ebbe a verificarsi l’incidente.
Con altro motivo le parti denunciano il vizio motivazionale, osservando che a
carico dei prevenuti non è stata accertata la violazione di leggi o di norme di
comportamento in tema di sicurezza. Osservano di aver impartito ai dipendenti
specifiche istruzioni per garantire la massima sicurezza, anche avvalendosi di
consulente esterno. E considerano che la Corte territoriale non ha rilevato i fattori di
interruzione del nesso causale, discendenti al comportamento dei colleghi di lavoro
dell’infortunato.
Con l’ultimo motivo i ricorrenti osservano che il datore di lavoro, nel caso in
cui le lastre siano ferme, come nel caso di specie, non ha alcuna istruzione da
impartire ai lavoratori. Rilevano che i giudici di merito hanno omesso di considerare
la presenza di vie di fuga laterali rispetto alla posizione delle lastre sollevate; che
neppure è stato considerato il legittimo affidamento riposto dagli esponenti sul
rispetto delle direttive ricevute, da parte dei dipendenti, avuto riguardo al fatto che
il lavoratore infortunato aveva da poco partecipato ad un corso di formazione sulle
corrette modalità di movimentazione dei carichi.

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erroneamente la Corte di Appello, anche su detto punto, ha ritenuto corretta la

Considerato in diritto
1. Il ricorso in esame, muove alle considerazioni che seguono.
2. Occorre primierannente rilevare che il termine prescrizionale massimo
relativo all’ipotesi di reato in addebito, pari ad anni sette e mesi sei, risulta decorso
in data 20.11.2015, tenuto conto delle intervenute sospensioni.
Come noto, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono
rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in

immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. Occorre, peraltro,
considerare che le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno chiarito
che il disposto di cui all’art. 129 cod. proc. pen., laddove impone di dichiarare la
causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato
non lo ha commesso, ecc., deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di
una condanna in primo grado che impone ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. di
pronunciarsi sulla azione civile; e che in tali ipotesi, la valutazione della
regiudicanda non deve avvenire secondo i canoni di economia processuale che
impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della
innocenza non risulti ictu ocu/i. La pronuncia ex art. 578 cod. proc. pen. impone,
cioè, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto il
compendio probatorio, ai fini della responsabilità civile (Cass. Sez. U, sentenza n.
35490 del 28.5.2009, dep. 15.09.2009, Rv. 244273).
3. Tanto ritenuto, è dato procedere all’esame delle diverse questioni affidate
ai motivi di ricorso.
4. L’eccezione processuale relativa alla intervenuta violazione dei principi
dettati dall’art. 521 cod. proc. pen., denunciata con il primo motivo, non ha pregio.
Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che
le norme di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., avendo lo scopo di assicurare il
contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di
difesa dell’imputato, non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione
rispetto all’accusa originaria, ma soltanto da una modificazione dell’imputazione che
pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato. La nozione strutturale di “fatto”,
contenuta nelle disposizioni in questione, va cioè coniugata con quella funzionale,
fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa. Il
principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del
pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice)
risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso
come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Cass.
Sez. 4, sentenza n. 41663 del 25/10/2005, Rv. 232423). In tale ambito
ricostruttivo, si è chiarito che sussiste il mutamento del fatto, quando la fattispecie
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quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere

concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge subisca una
radicale trasformazione nei suoi tratti essenziali, tanto da realizzare un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della
difesa (Cass. Sez. 6, sentenza n. 36003 del 14/06/2004, Rv. 229756).
Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha del tutto correttamente
richiamato il contenuto della originaria contestazione, che fa riferimento alla
mancata adozione di cautele ed istruzioni in ordine alla possibilità per i dipendenti

lastre di marmo sollevate mediante autogru. Muovendo da tale postulato, il Collegio
ha quindi chiarito che la lastra aveva potuto investire il Campo, solo perché
l’innbragatura aveva ceduto, proprio dal lato ove si trovava il predetto lavoratore; e
che, nel momento in cui le lastre erano ferme – specifico segmento dell’attività
lavorativa, certamente ricompreso nell’oggetto della contestazione, sopra
richiamato – era usuale per gli operai entrare nei corridoi tra le lastre per
controllarle sui due lati.
Come si vede, il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale,
nell’escludere la ricorrenza del denunciato difetto di correlazione tra accusa e
sentenza, discende dalla individuazione di profili di colpa, riferibili agli odierni
imputati, che risultano del tutto coerenti rispetto al contenuto descrittivo della
contestazione, come esplicitato negli originari capi di imputazione.
5. In tali termini si introduce l’esame congiunto dei restanti motivi di ricorso,
affidati a censure che involgono la comune doglianza, circa la mancata
qualificazione del comportamento posto in essere dalla vittima come abnorme,
rispetto alle prescrizioni di sicurezza impartite dagli esponenti.
Giova premettere che, secondo il consolidato orientamento della Suprema
Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare
dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie
proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al
controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di
legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, “ex
plurinnis”, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Così delineato l’orizzonte del presente scrutinio, deve osservarsi che la Corte
di Appello di Catania ha escluso che il comportamento posto in essere dal Campo
possa qualificarsi come abnorme, secondo le valutazioni che seguono. Il Collegio ha
chiarito che era condotta usuale quella di rimanere ai lati delle lastre, quando
ancora erano in movimento; e che, nel momento in cui le lastre erano ferme, era
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di abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo di caduta delle

parimenti usuale che i lavoratori entrassero nei corridoi formatisi tra le lastre. La
Corte distrettuale ha quindi chiarito che presso l’azienda di cui si tratta, se pure ben
organizzata, c’era una sottovalutazione del rischio che i dipendenti addetti al
controllo delle lastre potessero essere investiti dalle lastre cadute accidentalmente;
con la precisazione che l’organizzazione del piazzale non era adeguata a garantire
le vie di fuga ai dipendenti nel caso di caduta accidentale delle lastre e che, proprio
per tale ragione, gli ispettori del lavoro aveva prospettato, all’indomani del sinistro,
diverse soluzioni organizzative relative alle modalità di controllo della lastre.

all’acquisito compendio probatorio e logicamente conferenti, la Corte di Appello ha
evidenziato che la condotta tenuta dal Campo non presentava i caratteri
dell’eccezionalità e dell’imprevedibilità; e che, al contrario, risultava accertato che i
dipendenti addetti al controllo delle lastre erano soliti entrare all’interno degli stretti
corridoi tra le lastre medesime, al fine di procedere ai compiti loro assegnati; e che
tale procedura non garantiva uno spazio sufficiente per darsi alla fuga, in caso di
caduta delle lastre.
A margine di tali rilievi, il Collegio chiariva che era risultato assodato che al
momento in cui ebbe a verificarsi l’incidente non erano state adottate le opportune
cautele; e che specifiche cautele erano state poste in essere solo successivamente
all’infortunio, al fine di evitare il ripetersi di incidenti di tale natura. Preme
evidenziare che la Corte di Appello ha considerato che le linee guida adottate dalla
regione Toscana non hanno valore normativo generale, come sottolineato dalla
difesa degli imputati; e che, non di meno, l’attività di controllo delle lastre di
marmo, di cui si tratta, implica un evidente fattore di rischio per i dipendenti e
richiede l’adozione di cautele e la consegna di specifiche istruzioni relative alle
modalità di effettuazione delle operazioni di controllo.
Ebbene, la valutazione effettuata dalla Corte territoriale si colloca del tutto
coerentemente nell’alveo del consolidato orientamento espresso dalla
giurisprudenza di legittimità, sul tema di interesse. La Corte regolatrice ha da
tempo chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del
datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo
lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da
ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero
valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento
imprudente. Sul punto, si è pure precisato che le norme antinfortunistiche sono
destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione
della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Deve
perciò rilevarsi che le richiamate considerazioni, svolte in sede di merito, si
collocano appieno nell’alveo dell’orientamento espresso ripetutamente dalla Corte
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Sulla scorta di tali plurimi e conferenti rilievi, saldamente ancorati

regolatrice, in riferimento alla valenza esimente da assegnare alla condotta colposa
posta in essere dal lavoratore, rispetto al soggetto che versa in posizione di
garanzia. Questa Suprema Corte, infatti, ha affermato che, nel campo della
sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro
risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri
imprudente o negligente verso la propria incolumità; e che può escludersi
l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata
l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio

considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità,
si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte
all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Deve
pure osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che
l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia
esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi
responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Sez. 4,
sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. il 20.03.2000, Rv. 215686); e ciò con
specifico riferimento alle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore – come
certamente è avvenuto nel caso di specie – rientri pienamente nelle attribuzioni
specificamente attribuitegli (Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, dep.
9.03.2007, Rv. 236109).
Deve conclusivamente rilevarsi che le valutazioni effettuate dai giudici di
merito, in ordine alla non abnormità del comportamento imprudente posto in essere
dal lavoratore infortunato, risultano immuni dalle dedotte censure.
6. Per quanto detto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio, ai fini penali, perché il reato è estinto per prescrizione. Il ricorso, infatti, se
pure non meritevole di accoglimento, per le ragioni sopra esposte, non presenta
profili di inammissibilità. Di converso, il ricorso deve essere rigettato a fini civili,
con conferma delle relative statuizioni.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali perché il reato è
estinto per prescrizione.
Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso in Roma in data 01.06.2016.

questa abnormità abbia dato causa all’evento. Nella materia che occupa deve, cioè,

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