Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28559 del 26/03/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28559 Anno 2013
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA

Sul ricorso proposto dall’Avvocato Emilio Siviero, quale difensore di
Giovenco Nicola (n. il 02/12/1977), avverso l’ordinanza del Tribunale di
Roma, in data 16/10/2012.
Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Adriano !asili°.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Alfredo
Pompeo Viola, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Osserva:

Data Udienza: 26/03/2013

Con ordinanza del 28/09/2012, il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Roma convalidò l’arresto in flagranza e dispose la misura
cautelare della custodia in carcere nei confronti di Giovenco Nicola, indagato
per i reati di tentata rapina aggravata, detenzione e porto illegale di armi
(pistola, arma clandestina, e coltello) e ricettazione.
Avverso il provvedimento di cui sopra l’indagato propose istanza di

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato censurando la
motivazione con la quale sono stati ritenuti sussistenti i gravi indizi di
colpevolezza per il reato di tentata rapina. In particolare — dopo aver citato
una sentenza di questa Corte (Sez. 1, n. 40058 del 2008) che a suo giudizio
fisserebbe principi diversi da quelli citati dal Tribunale (Sez. 2, n. 40702 del
2009 e n. 21955 del 2005) evidenzia che dati gli elementi raccolti emerge
chiaramente che il Tribunale ha ritenuto la sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza sulla base solo dell’intenzione dell’indagato e non sulla
concreta messa in pericolo del bene protetto dall’art. 628 del cod. penale. Il
difensore del ricorrente deduce, inoltre, la mancanza e illogicità di
motivazione in riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari e al
criterio di scelta della misura
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata ordinanza.

motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è infondato. Invero, il Tribunale – con
motivazione esaustiva, logica e non contraddittoria — ha ben evidenziato
perché ritiene sussistente il reato di tentata rapina. Osserva, infatti, il Giudice
di merito che la RG. ha visto l’indagato: fermare il suo motociclo qualche
metro più avanti di una tabaccheria; lasciare il suddetto mezzo acceso;
dirigersi con il casco indossato verso la predetta tabaccheria con la mano
destra all’interno dei pantaloni come se reggesse qualcosa; che accortosi del
sopraggiungere della Polizia tornava precipitosamente verso il suo motociclo
e partiva a tutta velocità. La polizia riusciva, poi, a bloccare l’imputato che
veniva trovato in possesso di un coltello (nella tasca destra dei pantaloni) e di

riesame, ma il Tribunale di Roma, con ordinanza del 16.10.2012, la respinse.

una pistola — arma clandestina – pronta per l’uso occultata all’interno dei
pantaloni ad altezza vita (si vedano le pagine 2 e 3 dell’impugnato
provvedimento). Da tutto ciò il Tribunale ricava — correttamente — la
sussistenza degli atti idonei e diretti in modo non equivoco alla commissione
di una rapina ai danni del tabaccaio; decisione in linea con la condivisa
giurisprudenza di questa Corte citata a pagina 2 dell’ordinanza impugnata. Il

Corte, che — a suo giudizio — afferma un principio di diritto diverso da quello
seguito dal Tribunale e cioè che nel delitto tentato gli atti diretti in modo non
equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti
esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, alla
descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in
quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un
criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue
che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori (nella specie,
in applicazione di tale principio, la Corte ha escluso la sussistenza del
tentativo punibile di omicidio in un caso in cui, essendo stato effettuato un
sopralluogo presso l’abitazione della vittima designata ed essendo stato
compiuto il furto di un’autovettura destinata ad essere utilizzata per il delitto,
era stato rinvenuto un fucile a pompa con relativo munizionamento all’interno
della predetta autovettura, parcheggiata nei pressi dell’abitazione di uno degli
imputati; Sez. 1, Sentenza n. 40058 del 24/09/2008 Ud. dep. 28/10/2008 Rv. 241649; conforme: Sez. 1, Sentenza n. 9411 del 07/01/2010 Ud. – dep.
09/03/2010 – Rv. 246620). Il contrasto, con la sentenza citata dal Tribunale —
di cui si riporterà in seguito il principio — ma soprattutto con la decisone del
Tribunale in realtà è solo apparente. Già da quanto sopra riportato, ma in
particolare dalla lettura della motivazione si comprende l’assoluta differenza
del caso affrontato da questa Corte nella sentenza del 2008, sopra citata, e il
caso di cui ci occupiamo oggi. Infatti, questa Corte nella sentenza del 2008,
evidenzia come il Giudice di merito, per ritenere sussistente il tentativo di
omicidio, abbia considerato solo l’idoneità dei fatti posti in essere senza tener
in nessun conto l’altro elemento essenziale dell’art. 56 del c.p. e cioè
l’univocità degli atti; rileva, infine, che nel caso posto al suo esame manca
del tutto l’iniziale, effettiva aggressione del bene giuridico tutelato dalla

difensore del Giovenco a sostegno della sua tesi cita una sentenza, di questa

norma (nel caso di cui sopra la vita umana, visto che si trattava di un tentato
omicidio). Nel caso posto oggi alla nostra attenzione, invece, il Tribunale ha
ben evidenziato che l’attività dell’indagato tesa all’aggressione del bene
giuridico tutelato era iniziata ed era diretta in modo non equivoco alla
commissione di una rapina aggravata. Chiarito ciò, appare con evidenza che
la decisione del Tribunale e il suo richiamo giurisprudenziale — contestato,
consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, condivisa dal Collegio.
La sentenza di questa Corte richiamata dal Tribunale afferma, infatti, che
integra il tentativo di rapina anche il mero possesso di armi, pur se di fatto
non utilizzate, in quanto l’univocità della condotta va apprezzata, senza
tenere conto della distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, nelle sue
caratteristiche oggettive, così da verificare se sia tale da rivelare le finalità
attraverso l’apprezzamento, secondo le regole di comune esperienza, della
natura e dell’essenza degli atti compiuti e del contesto in cui si inseriscono
(Sez. 2, Sentenza n. 40702 del 30/09/2009 Ud. – dep. 22/10/2009 Rv.
245123; si veda anche il precedente conforme: Sez. 2, Sentenza n. 21955
del 10/02/2005 Ud. dep. 09/06/2005 – Rv. 231966). Ed ancora questa Corte
ha specificato che per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti
esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come
preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo
definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato
ad attuarlo — come, appunto, nel caso di specie e come sostanzialmente
affermato anche nella sentenza del 2008 di questa Corte evocata dal
ricorrente – che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire
l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di
eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 2, Sentenza n.
46776 del 20/11/2012 Ud. – dep. 04/12/2012 – Rv. 254106; si veda anche
precedente conforme: Sez. 2, Sentenza n. 36536 del 21/09/2011 Ud. – dep.
11/10/2011 – Rv. 251145).
Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Il Tribunale
espone, invero, in modo chiaro ed esaustivo — dopo aver richiamato e fatte
proprie le motivazioni del G.I.P. – perché ritenga sussistente l’esigenza
cautelare del pericolo di reiterazione del reato di cui all’articolo 274, lettera C,

come detto, dal difensore del ricorrente — siano in perfetta linea con l’ormai

del c.p.p.: gravità e modalità del fatto, precedenti penali e carichi pendenti
dell’imputato (si veda pagina 3 impugnato provvedimento); elementi dai quali,
correttamente, ricava la pericolosità sociale del Giovenco.
Sulla correttezza di tali considerazioni del Tribunale è sufficiente
richiamare il principio giuridico, più volte ribadito da questa Corte e condiviso
dal Collegio, che in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione del
reato può essere desunto dai criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., tra i quali

sono ricompresi le modalità e la gravità del fatto, sicché non deve essere
considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità, bensì devono essere
valutate — come congruamente è stato operato nel caso di specie – situazioni
correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della
pericolosità dell’indagato. (Sez. 4, Sentenza n. 34271 del 03/07/2007 Cc. dep. 10/0912007 Rv. 237240). Inoltre, in tema di misure cautelari, nella
verifica sulla sussistenza delle esigenze cautelari legate al pericolo che
l’indagato o l’imputato commetta alcuni gravi delitti o comunque delitti della
stessa specie di quello per cui si procede, il giudice deve tenere conto anche
dei precedenti giudiziari, che, rilevano, oltre che nel giudizio sulla capacità a
delinquere, in ogni altro caso in cui occorra procedere ad una valutazione
della personalità dell’indagato o dell’imputato. (Sez. 6, Sentenza n. 29405 del
11/07/2006 Cc. – dep. 24/08/2006 – Rv. 234974).
Anche la generica doglianza relativa all’adeguatezza della misura
disposta è manifestamente infondata. E’ utile ricordare, in proposito, che in
tema di scelta e adeguatezza delle misure cautelari, ai fini della motivazione
del provvedimento di custodia in carcere non è necessaria un’analitica
dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, ma è
sufficiente che il giudice indichi, con argomenti logico-giuridici tratti dalla
natura e dalle modalità di commissione dei reati nonché dalla personalità
dell’indagato, gli elementi specifici (come sopra indicati) che inducono
ragionevolmente a ritenere la custodia in carcere come la misura più
adeguata al fine di impedire la prosecuzione dell’attività criminosa,
rimanendo in tal modo assorbita l’ulteriore dimostrazione dell’inidoneità delle
altre misure coercitive (Sez. 6, Sentenza n. 17313 del 20/04/2011 Cc. – dep.
05/05/2011 Rv. 250060).

5

A fronte di tutto quanto sopra esposto, come si è già detto, il ricorrente
contrappone, quindi, solo generiche contestazioni in fatto. In proposito
questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è
inammissibile il motivo di ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione
della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e
quelle dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
(Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 rv 230634).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata
al pagamento delle spese del procedimento; inoltre, poiché dalla presente
decisione non consegue la rinnessione in libertà del ricorrente, deve disporsi ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter, delle disposizioni di attuazione del
codice di procedura penale – che copia della stessa sia trasmessa al direttore
dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perché provveda a
quanto stabilito dal comma 1 bis del citato articolo 94.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Si provveda a norma dell’articolo 94 delle disposizioni di
attuazione del codice di procedura penale.

Così deliberato in camera di consiglio, il 26/03/2013.

provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che

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