Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28546 del 26/03/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28546 Anno 2013
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Ettore Zagarese, quale difensore di
Straface Francesco (n. il 01/01/1966), avverso la sentenza della Corte
d’appello di Catanzaro — I Sezione penale – in data 18/05/2011.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Alfredo
Pompeo Viola, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito l’Avvocato Graziano Pungi — in sostituzione dell’Avvocato Mariano
Calogero per la Parte Civile Regione Calabria — il quale ha concluso per il
rigetto del ricorso.

Data Udienza: 26/03/2013

Uditi gli Avvocati Francesco Ettore Zagarese e Giuseppe Bruno — difensori di
Straface Francesco — i quali hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.

OSSERVA:

Con sentenza del 22/09/2009, il Tribunale di Rossano dichiarò Straface

traffico di sostanza stupefacente (art. 74 D.P.R. 309/90; capo 16 della
rubrica, esclusa l’aggravante di cui al V comma dello stesso articolo),
detenzione illecita di sostanza stupefacente (art 73 D.P.R. 309/90; capo 21
della rubrica), di estorsione aggravata anche dall’aver agito con il metodo
mafioso e al fine di agevolare il gruppo ‘ndranghetistico coriglianese (artt.
629, 628 cpv. nn. 1 e 3, c.p. e art. 7 L. 203/1991; capo 22 della rubrica),
associazione a delinquere di stampo mafioso denominata “locale” di
Corigliano (art. 416 bis — I, II, III e IV comma — c.p. capo 84 della rubrica), di
tentata estorsione aggravata anche dall’aver agito con il metodo mafioso e al
fine di agevolare il gruppo ‘ndranghetistico coriglianese (artt. 56, 629, 628
cpv. nn. 1 e 3, c.p. e art. 7 L. 203/1991; capo 90 della rubrica),
danneggiamento seguito da incendio aggravato anche dall’aver agito con il
metodo mafioso e al fine di agevolare il gruppo ‘ndranghetistico coriglianese
(artt. 61 n. 2. 424, 425 n. 2 c.p. e art. 7 L. 203/1991; capo 91 della rubrica) e
— ritenuta la continuazione – lo condannò alla pena di anni 23 di reclusione.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame. La Corte d’appello
di Catanzaro, con sentenza del 18/05/2011, in parziale riforma della
sentenza impugnata rideterminava la pena inflitta a Straface, previa
riqualificazione del fatto di cui al capo 91) nel delitto di cui all’ art. 635 cpv. n.
3) cod. pen., in anni 22 e mesi 10 di reclusione. Confermò nel resto la
decisione di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato deducendo la nullità
della sentenza – a norma dell’ art. 606 c. 1 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. per violazione di legge sostanziale e processuale e vizio di motivazione:
1) in relazione all’art. 271 cod. proc. pen. per inutilizzabilità delle
intercettazioni in quanto effettuate con impianti in dotazione della polizia
giudiziaria con decreti autorizzativi dai quali non emergono le ragioni

Francesco responsabile dei reati di associazione a delinquere finalizzata al

dell’insufficienza degli impianti della Procura e le eccezionali ragioni di
urgenza; e comunque perché i difensori non hanno avuto conoscenza dello
svolgimento delle operazioni peritali, della proroga data ai periti per il
deposito dell’elaborato sicché non è stato loro consentito di interloquire nello
svolgimento delle operazioni, in violazione dell’ art. 268, VII comma, cod.
proc. pen.; inoltre perché le trascrizioni delle conversazioni oggetto di
intercettazione sono state depositate successivamente al decreto di rinvio a

giudizio;
2) in relazione all’art. 16-quater L. 81/1992 per inosservanza del
termine di 180 gg. per l’ acquisizione delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia Converso, Alfano e Curato, sanzionata con l’inutilizzabilità che
opera, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, nel
dibattimento;
3) in relazione all’art. 74 D.P.R. 309/90 (capo 16 della rubrica),
relativamente all’attribuzione del ruolo di organizzatore che, sulla base delle
fonti di prova (dichiarazioni dei collaboratori, intercettazioni), non risulta
giustificata. Erroneamente i giudici di appello hanno disatteso le doglianze
relative al mancato riconoscimento dell’ attenuante di cui al comma

6 dell’art.

74 D.P.R. 309/90, in contrasto, fra l’altro, con quanto statuito nel parallelo
procedimento a carico di altri coimputati celebrato con rito abbreviato;
4) in relazione all’art. 73 D.P.R. 309/90 (capo 21 della rubrica), perché
la responsabilità per tale reato è stata ritenuta sulla base soltanto di
un’intercettazione telefonica inidonea a provare la contestata detenzione al
fine di vendita di sostanza stupefacente;
5) in relazione all’art. 416-bis cod. pen. (capo 84 della rubrica), perché
la prova è stata desunta dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori, ma senza
tenere conto delle doglianze difensive mosse con l’appello con le quali si era
dato conto di quanto riferito, in senso favorevole al ricorrente, dai vari
collaboratori, dichiarazioni delle quali la sentenza impugnata ha affermato la
non importanza, sulla base della valorizzazione dell’appartenenza
all’associazione finalizzata al narcotraffico, dato di per sé però neutro in
ordine alla dimostrazione della sussistenza dei requisiti di legge in relazione
alla diversa compagine associativa;

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6) in relazione all’art. 629 cod. pen. (capo 22 della rubrica) perché
l’invito a dare dei soldi “per stare tranquillo” è privo di significato minaccioso
(richiesta che comunque non ha avuto alcun seguito e che rientra nell’ art.
56, III comma, cod. pen.), posto che la persona offesa conosceva l’imputato,
che era suo cliente, al quale può essere addebitato l’inadempimento del
pagamento del prezzo della merce acquistata;
7) in relazione all’art. 629 cod. pen. (capo 90 della rubrica) perché

erroneamente è stata ritenuta sussistente la relazione fra l’episodio di
danneggiamento (per il quale non vi è prova della responsabilità del
ricorrente) e la successiva richiesta di danaro, formulata senza alcuna
modalità mafiosa sicché insussistente è l’aggravante di cui all’art. 7 dl.
152/91;
8) in relazione all’art. 635 cod. pen. (capo 91 della rubrica), perché
manca del tutto la prova che autore del danneggiamento sia stato l’imputato;
9) in relazione all’art. 62-bis cod. pen. non essendo state riconosciute le
attenuanti generiche nonostante la sussistente finalità di adeguamento della
pena al fatto.
Il difensore del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione
La doglianza relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni (punto 1 dei
motivi di ricorso) è manifestamente infondata. Invero per quanto riguarda la
presunta effettuazione di intercettazioni con impianti in dotazione della polizia
giudiziaria in forza di decreti autorizzativi non ben motivati, la Corte
territoriale ha correttamente evidenziato – a pagina 30 della sentenza — che
tale doglianza è inammissibile per aspecificità. Infatti, ha rilevato che nell’atto
di gravame non si indica quale sia per data o numero il decreto del P.M. al

quale si fa riferimento, né sono state avanzate censure contro la motivazione
della sentenza di primo grado che ha trattato della ritualità dei decreti in
argomento (alla pagina 327). Ebbene nel ricorso si rappresenta la stessa
generica doglianza senza alcuna specificazione. Si deve, in proposito,
sottolineare che in tema di ricorso per Cassazione, è onere della parte che
eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l’inammissibilità
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del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e
chiarirne, altresì, la incidenza sul complessivo compendio indiziario già
valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento
impugnato (Sez. U, Sentenza n. 23868 del 23/04/2009 Cc. – dep. 10/06/2009
Rv. 243416).
Per quanto riguarda, poi, la doglianza relativa al fatto che i difensori non
proroga data ai periti, si osserva che la questione è stata correttamente
risolta fin dalla sentenza di primo grado. L’incarico peritale è stato, infatti,
conferito in occasione di udienza camerale tenutasi a norma dell’ art. 127
cod. proc. pen., con piena assicurazione del contraddittorio, perché
all’udienza del 21.11.2007 di conferimento dell’incarico, i difensori,
regolarmente avvisati, non comparivano. Dei successivi rinvii, tutti disposti
dal Giudice in udienza e comunicati al difensore nominato ex art. 97, IV
comma, c.p.p., non doveva essere data alcuna comunicazione. La facoltà di
non comparire conferisce, alla parte che di essa sì avvale senza addurre
alcun impedimento, l’onere di informarsi sull’attività espletata e sull’eventuale
rinvio. L’esito della procedura non determina la pronuncia di un
provvedimento che debba essere comunicato alle parti che non si sono
presentate (secondo la disciplina dettata dell’ art. 127, VII comma, c.p.p. per
l’ordinanza pronunciata al termine del procedimento camerale), in quanto al
deposito dell’elaborato peritale segue, ex lege, il suo inserimento nel
fascicolo per il dibattimento (si veda la condivisa motivazione a pag. 29
dell’impugnata sentenza).
Per quanto riguarda, infine, l’eccezione di inutilizzabilità delle
intercettazioni poiché la relativa trascrizione è stata depositata solo dopo
l’emissione del decreto dispositivo del giudizio e quindi tardivamente, con
conseguente pregiudizio della difesa per la mancata possibilità di
conoscenza dei flussi di comunicazione, si deve rilevare che la Corte di
appello ha fornito anche per tale generica doglianza una motivazione
incensurabile. Infatti, il Giudice di merito ha ben evidenziato che la mancata
effettuazione della trascrizione delle registrazioni con le forme della perizia
non costituisce causa di inutilizzabilità, nel dibattimento, del contenuto delle
conversazioni intercettate, essendo la prova costituita dalle cassette o bobine

fossero a conoscenza dello svolgimento delle operazioni peritali, né della

contenenti le registrazioni, atteso anche che l’art. 271, comma 1, cod. proc.
pen. non richiama la previsione dell’art. 268, comma 7, stesso codice tra le
disposizioni la cui inosservanza dia luogo a inutilizzabilità e che l’esecuzione
della trascrizione in forme diverse da quelle della perizia non è nè
espressamente prevista come causa di nullità, nè riconducibile alle ipotesi di
nullità di ordine generale di cui all’art. 178 cod. proc. pen. (Sez. 1, Sentenza
Sentenza n. 43606 del 10/10/2003 Ud. dep. 13/11/2003 – Rv. 227676. In
senso conforme anche Corte Cost. 17.7.2012 n. 204). Ed invero la
trascrizione delle intercettazioni telefoniche non costituisce prova o fonte di
prova, ma solo un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto
di prove acquisite mediante la registrazione fonica, della quale il difensore,
secondo l’art 268, VIII comma, cod. proc. pen., può far eseguire la
trasposizione su nastro magnetico. Ne consegue che la mancata esecuzione
di essa nelle indagini preliminari, senza che le parti la richiedano, non
comporta la nullità né l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate. (Cass.
Sez. 6, 22.11.2005-28.3.2006 n. 10890; Cass. Sez. 1, 6.2.2007 n. 7342;
Cass. Sez. 1, 6.5.2008 n. 32851; Cass. Sez. 6, 13.1.2009 n. 1084; Cass.
Sez. 2, 1.2.2012 n. 4243). Correttamente la Corte territoriale evidenzia, poi,
(sempre a pag. 29) che nessuna norma processuale sancisce alcuna
sanzione per il caso di deposito della perizia trascrittiva dopo il rinvio a
giudizio. Infatti, l’udienza cd. stralcio è funzionale a garantire il contraddittorio
sulla selezione del materiale intercettattivo ritenuto rilevante; una volta
avvenuto ciò — e in forza dei principi sopra evidenziati – la trascrizione del
relativo contenuto delle intercettazioni per il successivo inserimento nel
fascicolo del dibattimento, costituisce subprocedimento autonomo rispetto
all’udienza preliminare, nel corso della quale il giudizio ben può fondarsi sul
contenuto stesso delle registrazioni o delle trascrizioni o brogliacci della P.G.
contenuti nel fascicolo (Sez. 6, Ordinanza n. 16823 del 24/03/2010 Ud. – dep.
03/05/2010 – Rv. 247007). Si deve, altresì, ricordare che questa Corte
Suprema ha più volte affermato che nel giudizio abbreviato è utilizzabile la
trascrizione/traduzione di intercettazioni di conversazioni (nella specie,
“ambientali”) depositata successivamente all’ammissione, ma prima del
giudizio, poiché la prova processualmente utilizzabile è costituita dai nastri

n. 12082 del 06/10/2000 Ud. – dep. 23/11/2000 – Rv. 217345; Sez. 2,

registrati, non già dalla loro trascrizione, che costituisce operazione
puramente rappresentativa in forma grafica del contenuto della prova già
acquisita attraverso la registrazione fonica; d’altro canto, anche l’attività di
traduzione non presenta carattere additivo o manipolativo rispetto alla fonte
probatoria originaria (Sez. 2, Sentenza n. 4243 del 25/10/2011 Ud. dep.
01/02/2012 – Rv. 252202).
(tardività delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia) è
manifestamente infondata (punto 2 dei motivi di ricorso). Invero la Corte di
appello ha in primo luogo ben evidenziato che tale doglianza è priva di
specificità non essendo stati evidenziati quali dichiarazioni fossero,
eventualmente, estranee al verbale illustrativo della collaborazione. Inoltre,
ha richiamato il principio di diritto più volte affermato da questa Corte
secondo il quale la sanzione di inutilizzabilità che, ai sensi dell’art. 16-quater,
comma nono, del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella L. 15 marzo
1991, n. 82, come modificata dall’art. 14 della L. 13 febbraio 2001, n. 45,
colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di
centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei
contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle
dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese nel corso del
dibattimento (Sez. 6, Sentenza n. 16939 del 20/12/2011 Ud. – dep.
07/05/2012 – Rv. 252632; Sez. U, Sentenza n. 1150 del 25/09/2008 Cc. dep. 13/01/2009 – Rv. 241885). Anche per tale questione nel ricorso si
rappresenta la stessa generica doglianza senza alcuna ulteriore
specificazione.
Anche il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato per la sua
genericità; infatti, a fronte dell’articolata motivazione della sentenza in punto
di giustificazione del ruolo apicale ricoperto dal ricorrente nell’ambito
dell’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico (pag. 86-89; si
vedano anche le pagg. da 83 a 85) il ricorrente si limita ad affermare che
dalle dichiarazioni dei collaboratori “sembra del tutto indimostrato il ruolo di
organizzatore” e a rimarcare anche la sua posizione di “sudditanza”, senza
tenere conto della parte della sentenza nella quale si evidenzia il rapporto sia
con Alessio che con Semeraro (la Corte indica il primo come sovraordinato al

Anche la dogbanza relativa alla violazione dell’art. 16-quater I. 81/1992

ricorrente perché riveste un più elevato grado criminale all’interno della
cosca. Il secondo come capo della cosca; cosca per conto della quale lo
Straface organizza e dirige l’associazione di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90; si
vedano le pagg. 88 e 89 dell’impugnata sentenza). Ma proprio la possibilità di
avere rapporti diretti con questi ultimo (vertice della cosca), nonché il
riconosciuto ruolo di organizzatore dell’attività di spaccio in una determinata
area territoriale, sono stati considerati come elementi dimostrativi del

contestato riconosciuto ruolo direttivo. Si deve, infine, rilevare che la Corte
territoriale spiega correttamente (nell’affrontare la doglianza relativa alla
sovraordinazione di Semeraro, Alessio e Trebisonda rispetto al ricorrente)
come una cosa sia il ruolo di vertice rivestito dallo Straface in seno
all’associazione dedita allo spaccio di droga per conto della cosca
‘ndranghetosa, e un’altra cosa sia la collocazione gerarchica dello Straface in
seno al sodalizio mafioso (si vedano le pagine 94 e 95 dell’impugnata
sentenza). A tal proposito si deve ricordare che la qualifica di
“organizzatore”, all’interno di un’associazione criminosa dedita al traffico di
sostanze stupefacenti, spetta a chi assume poteri di gestione, quand’anche
non pienamente autonomi, in uno specifico e rilevante settore operativo del
gruppo (Sez. 4, Sentenza n. 45018 del 23/10/2008 Ud. dep. 03/12/2008 Rv. 242032). Inoltre, in tema di associazione per delinquere, la qualifica di
organizzatore spetta all’affiliato che, sia pure nell’ambito delle direttive
impartite dai capi e non necessariamente dalla costituzione del sodalizio
criminoso, esplica con autonomia la funzione di curare il coordinamento
dell’attività degli altri aderenti ovvero l’impiego razionale delle strutture e delle
risorse associative o di reperire i mezzi necessari alla realizzazione del
programma criminoso (Sez. 5, Sentenza n. 37370 del 07/06/2011 Ud. – dep.
17/10/2011 – Rv. 250491). Anche di ciò il ricorrente non tiene alcun conto nel
ricorso e ripropone gli stessi argomenti che risultano, pertanto, generici. Ad
analoghe conclusioni deve pervenirsi in riferimento alla critica attinente il
mancato riconoscimento dell’attenuante di cui al comma 6 dell’art. 74 D.P.R.
309/90, perché nessuna critica specifica viene mossa alla congrua
motivazione svolta sul punto nella sentenza (si veda pag. 161 dell’impugnata
sentenza).

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Il quarto motivo di ricorso, che denuncia violazione dell’art. 73 D.P.R.
309/90 in riferimento all’ipotesi di reato di cui al capo 21) dell’imputazione, è
manifestamente infondato. Invero, proprio in applicazione del principio di
diritto invocato dallo stesso ricorrente, secondo il quale in tema di valutazione
della prova, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, il
giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni
e assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle
conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della
conversazione, la sentenza impugnata ha valutato il risultato della
conversazione in cui si dà atto che Straface si trovava a detenere “roba” per
il valore di settecento euro, valutazione avvalorata nel suo inequivoco
significato sulla scorta sia delle dichiarazioni dei collaboratori sia delle altre
conversazioni intercettate, sia degli accertamenti e sequestri eseguiti dalla
Polizia Giudiziaria (questa Corte nell’enunciare il principio di cui sopra ha
chiarito che qualora la conversazione captata non sia — ma non è accaduto
nel caso che oggi si tratta – connotata da queste caratteristiche – per
l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità
dell’intercettazione, per la cripticità del linguaggio usato dagli interlocutori,
per la non sicura decifrabilità del contenuto o per altre ragioni – non per
questo si ha un’automatica trasformazione da prova a indizio, in quanto è il
risultato della prova che diviene meno certo con la conseguente necessità di
elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti,
Sez. 6, Sentenza n. 29350 del 03/05/2006 Ud. dep. 21/08/2006 – Rv.
235088). Peraltro l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti
intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa
all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se
la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate
(Sez. 6, Sentenza n. 17619 del 08/01/2008 Cc. – dep. 30/04/2008 – Rv.
239724) posto che gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche
possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e
non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni,
qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi
attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non

intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati

suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti,
cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi
(Sez. 6, Sentenza n. 3882 del 04/11/2011 Ud. – dep. 31/01/2012 – Rv.
251527).
L’ulteriore motivo di ricorso (punto 5 dei motivi di ricorso) che denuncia
violazione di legge in relazione al delitto di cui all’ art. 416-bis cod. pen. (capo
ampiamente giustificato il convincimento dell’appartenenza dello Straface
anche alla compagine associativa di stampo mafioso (pagg. 89 e 92-93)
desumendolo, oltre che dalle dichiarazioni dei collaboratori, anche dalla
dimostrata responsabilità per il reati-fine di estorsione. Su quanto sopra il
ricorrente nulla osserva, limitandosi a riportare astratti principi relativi agli
elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis del c.p. e a genericissime
contestazioni. Si deve, poi, rilevare che il difensore dell’imputato contesta la
decisione della Corte di appello anche con un generico richiamo alle
doglianze contenute nell’appello. Orbene questa Suprema Corte ha più volte
affermato il principio — condiviso dal Collegio — che è inammissibile per la
genericità dei motivi il ricorso che si limiti a richiamare i motivi d’appello (Sez.
2, Sentenza n. 11126 del 26/06/1992 Ud. – dep. 18/11/1992 – Rv. 192556;
Sez. 5, Sentenza n. 116 del 19/01/1995 Cc. – dep. 17/02/1995 – Rv. 200661;
Sez. 6, Sentenza n. 43207 del 12/11/2010 Ud. dep. 06/12/2010 – Rv.
248823).
La denuncia di violazione dell’art. 629 cod. pen., in relazione al delitto di
estorsione in danno di Alessandro Curia di cui al capo 22) (punto 6 dei motivi
di ricorso), è manifestamente infondata. L’assunto per il quale non vi sarebbe
stata minaccia è contrastato nell’ambito dello stesso ricorso, allorché si
rammenta che la richiesta di danaro era stata avanzata al Curia “per stare
tranquillo”, con l’ulteriore specificazione che si trattava di richiesta per conto
di terze persone (la P.O. specificava di sapere che l’imputato aveva avuto
problemi con la giustizia, per cui non ottemperare alle sue richieste poteva
significare avere dei problemi; la P.O. aggiungeva che il Semeraro era
persona a lui nota. Si veda pag. 90 dell’impugnata sentenza). Va confermato
che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed
esplicita, può essere manifestata anche in maniera implicita ed indiretta,

84) è manifestamente infondato, perché la sentenza impugnata ha

essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la
volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla
personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle
condizioni ambientali in cui questa opera (Sez. 2, Sentenza n. 19724 del
20/05/2010 Cc. – dep. 25/05/2010 – Rv. 247117).
Le successive condotte (prelievo di merce senza pagare, ovvero
quella iniziale, con giustificazione non manifestamente illogica per la
sussistenza del reato di estorsione e quindi non censurabile in questa sede.
Quanto all’aggravante delle più persone riunite va confermato che nel
reato di estorsione, la circostanza aggravante speciale delle più persone
riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo
ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia (Sez. U,
Sentenza n. 21837 del 29/03/2012 Ud. – dep. 05/06/2012 – Rv. 252518).
Ma è incontestato che almeno in una circostanza il ricorrente si presentò in
compagnia di Semeraro (capo cosca e noto alla P.O.) e questi avevano
prelevato merce senza neppure interpellare il proprietario del negozio. Tale
passaggio argomentativo non è oggetto di specifica critica e quindi resiste
come valida giustificazione della decisione adottata sul punto.
Per quanto riguarda l’aggravante del metodo mafioso vale ricordare che
la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152,
convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi
delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo) è legittimamente
desumibile di per sé, sul piano indiziario, dalla appartenenza degli autori del
fatto ad un sodalizio di stampo mafioso, salvo che non ricorrano elementi
indicativi della riconducibilità degli episodi ad un alveo “intimidatorio” di
tutt’altra natura (Sez. 2, Sentenza n. 47404 del 30/11/2011 Cc. – dep.
21/12/2011 – Rv. 251607). Ma nel caso di specie si deve rilevare che oltre a
quanto sopra evidenziato, nella sentenza impugnata si sottolinea il fatto del
coinvolgimento nella vicenda del Semeraro (capo della cosca ‘ndranghetosa;
fatto riferito dal collaboratore Converso e riscontrato da quanto riferito dalla
P.O. sul prelievo degli occhiali dal suo negozio da parte dello stesso
Semeraro); e che la P.O. aveva compreso che “l’altra gente” evocata dallo

pagando solo in parte) sono state motivatamente poste in relazione con

Straface era il gruppo criminale ‘ndranghetoso operante nel territorio. La
Corte di appello, infine, evidenzia che il collaboratore Converso riferisce
dell’interesse nell’estorsione che aveva la cosca, propalazioni che trovano
conferma dalla dinamica complessiva dell’episodio narrato dalla P.O. e che
dimostra — come già detto — il diretto coinvolgimento del capo cosca
Semeraro (si veda pag. 91 dell’impugnata sentenza). In proposito si deve
delitto di tentata estorsione, con l’aggravante del metodo mafioso, nel caso in
cui si costringa la persona offesa a stipulare un contratto per essa non
vantaggioso, quanto al prezzo e alle modalità, con l’attivo intervento nella
trattativa di un pregiudicato ben noto per la sua caratura criminale (Sez. 1,
Sentenza n. 5783 del 22/01/2010 Cc. – dep. 12/02/2010 – Rv. 246626). Come
si vede nel caso di specie trova piena applicazione il condiviso principio di
diritto evocato dal ricorrente secondo il quale in tema di estorsione, la
circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n.152 del 1991 conv. nella L. n.
203 del 1991 è configurabile qualora si siano accertati una attività
intimidativa caratterizzata da “mafiosità” e l’esplicamento di condotte che, al
di là degli interessi personali dei soggetti che le attuano, siano altresì
riconducibili agli interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio
ovvero siano rese possibili con l’ausilio degli appartenenti al sodalizio (Sez.
1, Sentenza n. 12882 del 17/12/2007 Ud. dep. 26/03/2008 – Rv. 239846).
Quanto all’aggravante di cui all’ art. 628 c. 3 n. 3) cod. pen.
l’appartenenza di Straface all’associazione di stampo mafioso è stata oggetto
di specifico accertamento.
Gli ulteriori motivi di ricorso, che denunciano violazione degli artt. 629 e
635 cod. pen. in relazione all’ imputazione di cui ai capi 90) e 91) (punti 7 ed
8 dei motivi di ricorso), sono anch’essi manifestamente infondati. La
relazione tra il danneggiamento e la condotta estorsiva (per la minaccia
implicita alla base della richiesta di danaro al fine di “stare tranquillo”) è stata
logicamente desunta dalla successione dei fatti e dalle specifiche parole
dello Straface riferite dalla persona offesa (“tu l’avviso l’hai ricevuto, perché
non ti sei messo a posto?”), cui ha fatto seguito la richiesta di danaro per
stare “tranquillo” e da ciò la P.O. ha capito di dover pagare “per chiedere
protezione… per stare tranquilli” (si veda pag. 91 impugnata sentenza)
6) 12

ricordare che questa Suprema Corte ha affermato che è configurabile il

La circostanza che l’autore materiale del danneggiamento sia stato
indicato in altra persona non è stata ritenuta significativa dell’estraneità a tale
fatto da parte del ricorrente. La motivazione adottata sul punto (che ha
valorizzato il comportamento serbato dal ricorrente nel successivo momento
della richiesta del danaro) in quanto non manifestamente illogica sfugge a
qualsiasi censura in questa sede.
contestate e ritenute: le critiche difensive sono generiche a fronte di una
corretta motivazione della Corte che ha ben evidenziato gli elementi da cui
trae il convincimento della sussistenza delle aggravanti (per le quali valgono
gli stessi richiami giurisprudenziali evidenziati per l’altra estorsione; si veda
anche pag. 92 dell’impugnata sentenza).
L’ultimo motivo di ricorso, che denuncia violazione dell’ art. 62-bis cod.
pen. (punto 9 dei motivi di ricorso), è inammissibile perché è svolto con
generiche considerazioni in fatto e con la pretesa di ottenere in questa sede
una non consentita valutazione di merito. Infatti, la Corte di appello ha con
esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato i motivi che
sorreggono il diniego delle attenuanti generiche. Invero, la Corte territoriale
valuta correttamente i vari elementi fissati dall’articolo 133 del c.p. per la
concessione delle predette attenuanti. Questa suprema Corte ha più volte
affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di
cui all’art. 62 bis cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art.
133 del codice penale, ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti,
essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento
(gravità del fatto e anche precedenti penali come indicato a pag. 162
dell’impugnata sentenza; si veda sul punto ad esempio Sez. 2, Sentenza n.
2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 Rv. 230691; Sez. 6, Sentenza
n. 34364 del 16/06/2010 Ud. dep. 23/09/2010 – Rv. 248244).
Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte — condivisi dal
Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al
diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto
a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato
essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale
conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla

Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in relazione alle aggravanti

concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Ad esempio
in un caso posto all’attenzione di questa Suprema Corte – che ha considerato
corretta la relativa motivazione – il giudice di merito aveva ritenuto che non
potessero concedersi le attenuanti generiche in relazione alla gravità del fatto
e ai precedenti penali (Si veda Sez. 1, Sentenza n. 3772 del 11/01/1994 Ud.
dep. 31/03/1994 – Rv. 196880; Sez. 1, Sentenza n. 1666 del 11/12/1996
Ud. – dep. 07/01/2010 – Rv. 246045). Infine, per la concessione o il diniego
delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in
esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene
prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio,
sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o
all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere
sufficiente in tal senso (Sez. 2, Sentenza n. 3609 del 18/01/2011 Ud. – dep.
01/02/2011 – Rv. 249163). Ebbene i giudici merito nel valutare
complessivamente la vicenda hanno, quindi, di fatto ritenuto – con giudizio
incensurabile in questa sede — che la gravità del fatto e i precedenti penali
prevalgano sugli elementi evidenziati nell’appello e non consentano il
riconoscimento dell’attenuanti generiche. In relazione, poi, alle contestazioni
della motivazione sul punto mosse nell’odierno ricorso il difensore del
ricorrente non considera quale è la funzione delle attenuanti generiche. In
proposito questa Corte di Cassazione ha stabilito il principio — condiviso dal
Collegio — che in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere
della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un
adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista
dalla legge (ritenuta, invece, congrua nel caso di specie; si veda pag. 162
dell’impugnata sentenza), in considerazione di peculiari e non codificabili
connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso
responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può
mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il
giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni
possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata
meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza,
di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che

Ud. -dep. 21/02/1997 – Rv. 206936; Sez. 2, Sentenza n. 106 del 04/11/2009

sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento
sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso,
adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di
specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in
questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta
richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della
si fonda (Sez. 1, Sentenza n. 11361 del 19/10/1992 Ud. – dep. 25/11/1992 Rv. 192381; Sez. 2, Sentenza n. 2769 del 02/12/2008 Ud. dep. 21/01/2009
– Rv. 242709). Inoltre, l’obbligo di motivazione in materia di circostanze
attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle
condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez. 2,
Sentenza n. 38383 del 10/07/2009 Ud. – dep. 01/10/2009 – Rv. 245241).
Infine, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le
possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in
considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano
sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello
stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi
di segno positivo (Sez. 3, Sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. – dep.
24/05/2012 – Rv. 252900).
Pertanto da quanto sopra esposto emerge chiaramente che il ricorso è
manifestamente infondato e va quindi dichiarato inammissibile. Infatti, le
eccezioni processuali sono generiche perché ripropongono quanto già ben
affrontato da entrambi i giudici di merito. Per le altre questioni a fronte di tutto
quanto esposto dai giudici di merito il ricorrente contrappone, unicamente,
generiche contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, si propone solo una
non consentita — in questa sede di legittimità — diversa lettura del materiale
probatorio raccolto e senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o
contraddizione della motivazione. Si deve, in proposito, osservare che
l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere
percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze
(che tra l’altro nel caso di specie non si ravvisano). Inoltre, le censure del
ricorrente non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello. In

a

15

contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa

proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso
dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione
quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate
dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di
impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento
censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591,
fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv
230634).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità — al pagamento a favore della Cassa delle ammende della
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti. Si condanna, altresì, il ricorrente alla rifusione delle spese sopportate
dalla Parte Civile, liquidate in 5.000,00 oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende,
nonché alla rifusione, in favore della Parte Civile Regione Calabria, delle
spese del grado che liquida in E 5.000,00 oltre accessori come per legge.

Così deliberato in camera di consiglio, il 26/03/2013.

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda

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