Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28525 del 24/04/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 28525 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: ZAZA CARLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
1. Cerrone Salvatore, nato a Napoli 414303/1964
2. Riccio Carmine, nato a Quarto il 15/01/1967
3. Chiaro Giuseppe, nato a Pozzuoli il 02/12/1974
4. Raffaele Di Roberto, nato a Pozzuoli il 10/06/1974

avverso la sentenza del 17/04/2012 della Corte d’Appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Giovanni d’Angelo, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata nei confronti del Chiaro e del Di Roberto limitatamente al trattamento
sanzionatorio e per il rigetto nel resto;
udito per gli imputati Chiaro e Di Roberto l’avv. Antonio Pagliano in sostituzione
dell’avv. Alfonso Pagliano, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

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Data Udienza: 24/04/2013

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale
di Napoli del 28/10/2010, veniva confermata l’affermazione di responsabilità di
Salvatore Cerrone, Carmine Riccio, Giuseppe Chiaro e Raffaele Di Roberto per il
reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., commesso dal Cerrone e dal Riccio
dirigendo e dagli altri partecipando ad un’associazione di tipo mafioso
denominata Compagni di fuori al Bivio ed operante dall’inizio del 2005 al

di cui agli artt. 10, 12 e 14 legge 14 ottobre 1974, n. 497, commessi in Quarto il
02/11/2006, del Chiaro per i reati di cui agli artt. 10, 12 e 14 legge n. 497 del
1974 commessi in Quarto e Pozzuoli dal febbraio al novembre del 2006 e del Di
Roberto per i reati di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen. commessi in danno di
Cosimo Carandente in Quarto il 07/11/2006, in danno di Giuseppe e Marcello
Broscritto in Quarto il 27/10/2006, in danno di Francesco Riccio in Pozzuoli e
Quarto nell’ottobre e nel novembre del 2006 e in danno di Nicola Parisi

in

Pozzuoli nel novembre e nel dicembre del 2006 e per il reato di cui all’art. 9
legge 27/12/1956, n. 1435, commesso in Quarto il 9 agosto ed il 14 ottobre del
2006, con conferma altresì della condanna del Riccio ala pena di anni undici di
reclusione e riduzione della pena inflitta al Cerrone ad anni quindici di reclusione,
al Chiaro ad anni nove e mesi otto di reclusione ed al Di Roberto ad anni dieci e
mesi otto di reclusione.
Gli imputati ricorrono sui punti e per ì motivi di seguito indicati.
1. Il ricorrente Cerrone deduce violazione di legge nell’omesso esame
d’ufficio della sussistenza delle condizioni per un proscioglimento dell’imputato ai
sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., non precluso dall’intervenuta rinuncia ai
motivi di appello diversi da quelli relativi alla determinazione della pena, sotto i
profili della sussistenza del reato contestato e dell’improcedibilità dello stesso in
quanto oggetto di un precedente giudicato.
2. Sull’affermazione di responsabilità per il reato associativo, il ricorrente
Riccio deduce violazione di legge ed illogicità della motivazione nel giudizio di
attendibilità delle dichiarazioni accusatorie meramente de relato dei collaboratori
Perrotta e De Felice e nel ritenuto riscontro delle stesse in una sentenza
pronunciata in sede di giudizio abbreviato nei confronti degli associati Zazzaro e
Matrone fondata sugli stessi elementi, così dandosi luogo ad un evidente vizio di
circolarità della prova, e in intercettazioni telefoniche svoltesi fra soggetti diversi
dall’imputato e relative ad un episodio estorsivo in danno di Domenico
Carandente, per il quale il Riccio era stato assolto in primo grado. Lamenta

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31/12/2006 in Pozzuoli e Quarto e zone limitrofe, ed inoltre del Riccio per i reati

altresì mancanza di motivazione su ulteriori elementi indicati dalla difesa quali
contrastanti con l’ipotesi accusatoria.
3. Sull’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione e porto
illegale di armi e sulla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge
12 luglio 1991, n. 203 e dell’aggravante del carattere armato dell’associazione
criminosa, il ricorrente Riccio deduce mancanza di motivazione in ordine ai rilievi
proposti con l’appello e contraddittorietà rispetto all’assoluzione per i collegati
reati di estorsione e tentato omicidio in danno del Carandente.

deducono mancanza di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti
generiche, con particolare riguardo per il Chiaro e il Di Roberto al
comportamento collaborativo degli imputati. I ricorrenti Cerrone e Riccio
lamentano altresì mancanza di motivazione in ordine alla determinazione della
pena. I ricorrenti Cerrone, Chiaro e Di Roberto deducono infine violazione di
legge nella quantificazione degli aumenti di pena nel concorso di circostanze
aggravanti ad effetto speciale e ad effetto comune, fra le quali la recidiva, in
contrasto con i criteri di cui all’art. 63, comma quarto, cod. proc. pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il motivo proposto dal ricorrente Cerrone sulla sussistenza delle condizioni
per un proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. è
inammissibile.
La censura di mancanza di motivazione sulla sussistenza di cause di
proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., in presenza della rinuncia
dell’imputato a motivi di appello diversi da quelli relativi al trattamento
sanzionatorio, è infatti manifestamente infondata, laddove detta rinuncia
esimeva il giudice di secondo grado da oneri motivazionali sul punto, essendone
la cognizione limitata alle questioni non oggetto di rinuncia (Sez. 6, n. 40573 del
30/09/2008, Gallo, Rv. 241486; Sez. 5, n. 3391 del 15/10/2009, Camassa, Rv.
245919; Sez. 2, n. 3593 del 03/12/2010 (01/02/2011), Izzo, Rv. 249269).

2. I motivi proposti dal ricorrente Riccio sull’affermazione di responsabilità
per il reato associativo sono infondati.
La sentenza impugnata era congruamente motivata sul punto con
riferimento in primo luogo alle dichiarazioni dei collaboratori Perrotta e De Felice,
nelle quali il Riccio era indicato come uomo di fiducia del Cerrone, capo
dell’associazione, in base a conoscenze apprese dal Perrotta direttamente dal
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4. Sul trattamento sanzionatorio, i ricorrenti Riccio, Chiaro e Di Roberto

I

Cerrone e dall’altro associato Gennaro Coppola e nel corso della propria
esperienza di addetto alle estorsioni nel collegato clan Longobardi Beneduce, e
dal De Felice a seguito di informazioni ricevute dal Chiaro, dal De Roberto e dal
Carbone. I riscontri a tali dichiarazioni erano individuati non tanto nella sentenza
irrevocabile del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli del
06/02/2008, citata unicamente in quanto confermativa dell’esistenza
dell’associazione criminosa contestata, il che rende inconferenti i rilievi del
ricorrente sull’essere detta sentenza fondata sugli stessi elementi dichiarativi;
quanto piuttosto sulla convergenza degli apporti dei collaboratori e sulle
intercettazioni di conversazioni svoltesi fra il De Roberto, il Carbone, lo Zazzaro
ed il Coppola, dalle quali risultavano le stesse circostanze narrate dal De Felice in
merito ad un progetto omicidiario in danno del Riccio, che trovava la sua causale
nell’essersi questi impossessato di somme costituenti il provento di attività
estorsive.
Quanto in particolare a quest’ultimo elemento, le censure del ricorrente sulla
contraddittorietà fra il riferimento delle predette intercettazioni ad un’estorsione
in danno di Domenico Carandente, e l’assoluzione del Riccio per tale estorsione,
riguardano una questione già risolta nella sentenza di primo grado, con la quale
l’assoluzione veniva pronunciata, nell’escludere il primo dei due termini in
asserita contraddizione, ossia l’essere il Carandente soggetto passivo
dell’estorsione menzionata nelle intercettazioni; osservandosi come queste
ultime indicassero la vittima unicamente come «quello delle macchine»,
espressione insufficiente ad identificare il Carandente solo in quanto impegnato
nell’installazione di macchine da videopoker, laddove di contro lo stesso non
confermava di aver subito un’estorsione da parte del Riccio ed intratteneva con
questi conversazioni intercettate riguardanti rapporti finanziari di altra natura.
Insussistente è altresì l’ulteriore contraddizione denunciata dal ricorrente
rispetto all’assoluzione già in primo grado del Riccio, oltre che del Chiaro e del Di
Roberto, dall’imputazione di tentato omicidio in danno di Domenico Carandente.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, dalla lettura della sentenza
impugnata risulta che detta imputazione non era fondata sugli stessi elementi
dichiarativi posti a sostegno dell’affermazione di responsabilità per il reato
associativo, ma sulle dichiarazioni del solo De Felice, ritenute prive di riscontri.
La censura di mancanza di motivazione sui rapporti di coesistenza sulle
stesso territorio dell’associazione contestata e di quella facente capo ai
Longobardi è infondata nel momento in cui la Corte territoriale riportava
dichiarazioni del Perrotta che chiarivano questo aspetto nell’indicare
l’associazione del Bivio come gruppo di fuoco dei Longobardi; né tale circostanza

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‘1,11,1111, ,.

appare incompatibile con l’autonoma configurabilità di un sodalizio di carattere
associativo nel gruppo in questione.
Per il resto, il ricorrente propone doglianze generiche su non meglio
precisate contraddizioni fra le dichiarazioni dei collaboratori e sull’assoluzione del
Riccio da addebiti associativi in una sentenza relativa al clan Longobardi, della
quale non sono indicati i fondamenti argomentativi e gli aspetti di contrasto con
le conclusioni assunte nella sentenza impugnata; nonché mere valutazioni di
merito sul giudizio di attendibilità dei collaboratori, per quanto detto sostenuto
contenuti delle intercettazioni.
3. I motivi proposti dal ricorrente Riccio sull’affermazione di responsabilità
per il reato di detenzione e porto illegale di armi, e sulla ritenuta sussistenza
dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 e dell’aggravante del
carattere armato dell’associazione criminosa, sono anch’essi infondati.
Le conclusioni della sentenza impugnata sull’affermato possesso di una
pistola da parte del Riccio, in relazione all’episodio originariamente oggetto
dell’imputazione di tentato omicidio in danno del Carandente, non dà luogo alla
denunciata contraddizione con l’intervenuta assoluzione da tale imputazione. Il
sintetico riferimento della Corte territoriale va infatti integrato con il richiamo alla
più dettagliata esposizione della sentenza di primo grado, nella quale si
osservava che, se il Carandente negava di essere stato vittima di un attentato, lo
stesso confermava di essere stato raggiunto da un proiettile esploso
accidentalmente da una pistola maneggiata dal Riccio; il che per un verso
implicava l’accertamento delle condotte di detenzione e porto dell’arma
contestate all’imputato, e dall’altro, se posto in relazione alle preoccupazioni dei
coimputati sulla possibilità che gli inquirenti identificassero il Riccio come
responsabile del ferimento, dimostrava come l’arma fosse nella disponibilità
dell’associazione.
Le censure del ricorrente sono per il resto generiche nel mero richiamo ai
motivi di appello, sui quali si deduce mancanza di motivazione senza esplicitarne
Il contenuto (Sez. 5, n. 2896 del 09/12/1998, La Mantia, Rv. 212610; Sez. 2, n.
27044 del 29/05/2003, Maggiore, Rv. 225168; Sez. 6, n. 21858 del 19/12/2006,
Tagliente, Rv. 236689).
4. Sono da ultimi infondati i motivi di ricorso relativi al trattamento
sanzionatorio.
Il diniego delle attenuanti generiche per gli imputati Riccio, Chiaro e Di
Roberto era adeguatamente motivato nel richiamo alle osservazioni della
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dai menzionati elementi di riscontro, e sul carattere asseritamente criptico dei

sentenza di primo grado sulla gravità dei fatti, nonché nell’ulteriore rilievo della
sentenza impugnata sulle funzioni direttive svolte dal Riccio nell’ambito
dell’associazione; elementi, questi, non illogicamente ritenuti di per sé ostativi al
riconoscimento delle invocate attenuanti, tanto escludendo il dedotto vizio di
carenza motivazionale sul comportamento collaborativo degli imputati Chiaro e
Di Roberto.
Infondate sono altresì le cesure dei ricorrenti Cerrone e Riccio in ordine alla
dedotta mancanza di motivazione sulla determinazione della pena,
in mancanza di specifici rilievi dei ricorrenti.
Non si riscontra infine la dedotta violazione dì legge nella quantificazione
dell’aumento di pena risultante dal concorso delle circostanze aggravanti per le
posizioni degli imputati Cerrone, Chiaro e Di Roberto. In primo luogo,
contrariamente a quanto adombrato nel ricorso del Cerrone, detto aumento non
veniva operato più volte nella misura di un terzo sulla pena commisurata in base
alle aggravanti ad effetto speciale, risultando dalla sentenza di primo grado un
solo aumento di un terzo per la contestata recidiva reiterata, specifica ed
infraquinquennale su una pena-base determinata per il reato associativo
aggravato dalla sola circostanza ad effetto speciale del carattere armato
dell’associazione. Ciò posto, la recidiva qualificata è una circostanza aggravante
ad effetto speciale, e soggiace pertanto alla regola stabilita per il concorso di tali
circostanze dall’art. 63, comma quarto, cod. proc. pen. (Sez. n. 20798 del
24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664), per la quale all’applicazione dell’aumento
per la circostanza ritenuta più grave si aggiunge la possibilità per H giudice di
aumentare ulteriormente la pena (Sez. 1, n. 18513 del 17/03/2010, Amantonico,
Rv. 247202). Nel caso di specie, l’aumento di un terzo effettuato in relazione alla
recidiva si pone sostanzialmente come il risultato del legittimo esercizio di tale
facoltà, adeguatamente giustificato, sia nella decisione di attivare il potere di
aumento della pena che nella misura dello stesso, dall’entità dei fatti contestati;
ed in questo senso è corretta l’affermazione della sentenza impugnata sulla
legittimità di detto aumento.
I ricorsi devono pertanto essere rigettati, seguendone la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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congruamente giustificata nel richiamo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen.

P. Q. M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 24/04/2013

Il

jente

Il Consigliere estensore

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