Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28501 del 11/04/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 28501 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CATANZARO VINCENZO N. IL 20/10/1979
DI MAURO NENZI ANTONINA N. IL 19/06/1982
avverso la sentenza n. 3022/2009 CORTE APPELLO di CATANIA, del
16/04/2010
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/04/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 11/04/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Vito D’Ambrosio, ha concluso chiedendo
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto per
prescrizione;
per il ricorrente è presente l’Avvocato Antonio Miriello, in sostituzione dell’avv. Attilio Floresta,
che chiede l’accoglimento del ricorso ed in subordine dichiararsi il reato estinto per
prescrizione.
RITENUTO IN FA/TO

condannati dal Tribunale di Catania per falsità materiale in atto pubblico in relazione
all’autentica delle proprie sottoscrizioni in calce al verbale di assemblea ordinaria dei soci della
“COS. AP. di Catanzaro Vincenzo & C. s.a.s.” in qualità di socio accomandatario e socia
accomandante.
Gli imputati presentarono appello articolando tre motivi. Con il primo si evidenziava la
contraddittorietà della testimonianza del teste Castrogiovanni, impiegato del Comune di
Catania, X° municipalità, con facoltà di autenticare le sottoscrizioni apposte in calce ai
documenti, in ordine alla custodia dei timbri, uno dei quali utilizzato per il falso, rispetto a
quelle di altro teste suo collega di lavoro, Fisichella Alfio e la circostanza della apposizione di
marche autentiche del Comune di Catania sull’atto falso, elementi che inducevano a ritenere
insussistente il falso, oppure ad escluderne la commissione da parte degli imputati; con il
secondo motivo si evidenziava che ai fini dell’erogazione della prima quota di contributo dal
Ministero delle attività produttive, pratica per la quale è stato utilizzato l’atto contestato, non vi
era alcuna necessità di effettuare contraffazioni di documenti o falsificazioni di firme, poiché i
verbali assembleari in questione non erano richiesti, sicché la falsità si è rilevata in concreto
innocua; con l’ultimo motivo si chiedeva una pena più mite, con il riconoscimento delle
attenuanti generiche.
Con sentenza del 16 aprile 2010 la Corte d’appello di Catania confermava la sentenza di primo
grado, rilevando, quanto al primo motivo, che il reato era stato commesso verosimilmente in

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concorso con un dipendente del Comune, che aveva consentito l’accesso l in assenza dei
funzionari e che il reato poteva essere stato commesso solo dagli imputati, unici soggetti
interessati alla falsificazione ed in possesso del documento.
Quanto al secondo motivo, la Corte ha escluso l’inoffensività della condotta, poiché le delibere
attestavano i presupposti della erogazione e la falsificazione non ha riguardato il contenuto
delle delibere, ma l’autentica di firma.
Anche il terzo motivo è stato rigettato, ritenendo congrua la pena.
Con l’odierno ricorso, presentato separatamente dai due imputati, ma dall’uguale contenuto, si
censura la sentenza di appello sotto due distinti profili:
a) violazione dell’articolo 606 c.p.p., lettera E, per mancanza ed illogicità manifesta della
motivazione ed omesso esame dei motivi d’appello. A giudizio del ricorrente la Corte
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1. Con sentenza dell’8/6/2009 Catanzaro Vincenzo e Di Mauro Nenzi Antonina erano

territoriale non ha fornito logiche controdeduzioni a nessuno dei numerosi rilievi rappresentati
nei motivi di appello (con particolare riferimento alla indisponibilità dei timbri e delle marche),
aggirando gli argomenti con il ricorso ad elementi mai emersi dal processo, quale la presenza
di un complice nell’ufficio. Inoltre sarebbe stata trascurata la testimonianza del teste Fisichella,
che ha dichiarato di aver autenticato le firme in altra copia del medesimo atto, quella stessa
mattina;
b) violazione dell’articolo 606 c.p.p., lettera B ed E, in relazione agli artt. 476 e 482 c.p., per
inutile: il contributo fu ottenuto solo in base ad una polizza assicurativa e non anche grazie agli
atti asseritamente falsi, inoltrati per mero errore di valutazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 il primo motivo del ricorso è inammissibile, perché versato in fatto.
Va ricordato che la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la
migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve
limitarsi a verificare se questa giustificazione sia logica e compatibile con il senso comune.
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere, inoltre, percepibile “ictu
ocu/i”, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza,

restando ininfluenti le minime incongruenze. Dunque, non è possibile per questa Corte
procedere ad una ricostruzione alternativa dei fatti, sovrapponendo a quella compiuta dai
giudici di merito una diversa valutazione del materiale istruttorio, se, come nel caso di specie,
vi è congrua e logica motivazione nel provvedimento (o, meglio, nei provvedimenti, dato che le
motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda,
confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento
per giudicare della congruità della motivazione; cfr. Cassazione penale, sez. 2, 15 maggio
2008, n. 19947).
Peraltro il motivo articolato nel ricorso dell’avv. Floresta richiama un contrasto tra le
deposizioni di Castrogiovanni Salvatore e Fisichella Alfio, entrambi funzionari del Comune di
Catania, in realtà solo apparente, perché le dichiarazione del secondo si riferiscono ad altra
autentica, della quale non è contestata la falsità. Anche la verosimile complicità di altro
funzionario non rappresenta un elemento desunto dagli atti, quanto piuttosto una spiegazione
pienamente logica, non irrazionale né contraddetta dal alcun elemento, dell’accesso ai timbri
del Castrogiovanni, custoditi in sua assenza in un cassetto.
L’omessa pronuncia denunciata nel motivo deve escludersi, perché, sia pure sinteticamente, la
Corte territoriale ha affrontato le censure proposte con l’appello, con motivazioni (la verosimile
presenza di un complice nell’ufficio) che il ricorrente non condivide.
In proposito va ricordato l’indirizzo consolidato della Corte, secondo cui il dovere di
motivazione è adempiuto, ad opera del giudice del merito, attraverso la valutazione globale
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mancanza ed illogicità manifesta della motivazione, con riferimento alla sussistenza di un falso

delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi
approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che
hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo,
nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se
non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez.
6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105).
2. Anche il secondo motivo, relativo alla inutilità del falso, è inammissibile, perchè
La giurisprudenza di questa Sezione, tradizionalmente, facendo applicazione dell’art. 49 c.p.,
distingue, in tema di falso, l’inidoneità della azione, che ricorre nel cosiddetto falso
“grossolano”, nel falso, cioè, che per essere macroscopicamente rilevabile, non è idoneo a
trarre in inganno alcuno, dall’inesistenza dell’oggetto, che ricorre nel cosiddetto falso cd.
“inutile”, nel falso, cioè, che cade su un atto, o su una parte di esso assolutamente privo di
valenza probatoria (Sez. 5, n. 11498 del 05/07/1990, Casarola, Rv. 185132).
Più recentemente il secondo concetto è stato sviluppato, ritenendosi sussistere il falso innocuo
(o inutile o superfluo) quando la condotta, pur incidendo sul significato letterale di un atto
(falso ideologico) o di un documento (falso materiale), non incide sul suo significato di
comunicazione, così come esso si manifesta nel contesto, anche normativo, della formazione e
dell’uso, effettivo o potenziale, dell’oggetto (Sez. 5, n. 38720 del 19/06/2008, Rocca, Rv.
241936). In altri termini, la punibilità del falso è esclusa, per inidoneità dell’azione, tutte le
volte che l’alterazione appaia del tutto irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto, perché
non ne modifica il senso oppure si riveli in concreto inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla
genuinità del documento, cioè non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico.
Così, ad esempio, è stata esclusa la punibilità, per inidoneità dell’azione, della falsa
attestazione – attuata mediante l’apposizione della firma di alcuni docenti universitari,
componenti le commissioni esaminatrici, sui verbali di vari esami – che detti esami si erano
svolti regolarmente con la partecipazione di tre commissari, mentre in realtà gli studenti erano
stati esaminati da un solo professore: la Suprema Corte, in proposito, ha ritenuto esenti da
censura le argomentazioni della Corte di merito secondo cui, in particolare, nel caso di specie,
né la prova d’esame, né il voto, potevano essere messi in discussione anche in presenza di un
unico esaminatore o di commissioni formate da due, anziché da tre docenti, essendo
quest’ultima composizione prevista, e neanche a pena di nullità, solo da norme regolamentari
secondarie (Sez. 1, n. 3134 del 13/11/1997, P.M. e Gargiulo, Rv. 210187).
Con riferimento specifico al cd. “falso innocuo”, si è ancora precisato che esso ricorre quando
“determina un’alterazione irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto, non modificandone il
senso” (Sez. 5, n. 38720 del 19/06/2008, Rocca, Rv. 241936) o, in altri termini, quando
l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) non esplicano
effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati (Sez.
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manifestamente infondato.

5, n. 35076 del 21/04/2010, Immordino, Rv. 248395). Dal che è agevole desumere che
l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto.
Detta conclusione è ancora più chiara riflettendo sul fatto che, nella esegesi delle disposizioni
che puniscono i falsi, è stato sempre usato come criterio discretivo il fatto che la condotta
Incriminata abbia o meno messo in pericolo il bene della pubblica fede, con particolare
riferimento al dovere del privato di attestare al pubblico ufficiale la verità in ordine a fatti
rilevanti dal punto di vista giuridico destinati ad essere documentati a fini probatori nell’atto
Nel caso in esame non si versa in una ipotesi di falso “innocuo” o “inutile”, poiché, come
correttamente sostenuto dalla Corte territoriale, non è stato falsificato il contenuto delle
delibere, ma l’autentica della firma, e dunque la lesione del bene protetto dalla norma è
evidente, in quanto l’autenticazione comporta un potenziamento della efficacia probatoria
dell’atto, determinata dal fatto che un pubblico ufficiale attesti che quell’atto proviene da chi lo
ha sottoscritto (Sez. 5, n. 6204 del 30/11/2010, Colla e altri, Rv. 249260; Sez. 5, n. 24872 del
31/01/2005, Sacchini, Rv. 231852; Sez. 5, n. 12693 del 10/02/2006, Perna, Rv. 234706).
Resta privo di valore il fatto che l’atto falso non fosse necessario per la concessione del
contributo, perché ciò che rileva non è lo scopo ma il contenuto in sé dell’atto.
3. La rilevata inammissibilità dei ricorsi impedisce di rilevare la prescrizione, sollecitata con il
secondo motivo, poiché verificatasi in epoca successiva alla pronuncia di appello del 16 aprile
2010 (i fatti sono del 4 febbraio 2003, per cui, considerata la sospensione della prescrizione,
appello, per 1 anno, 1 mese e 21 giorni, essa è compiuta il 25 settembre 2010).
4.

In definitiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; alla declaratoria di

inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a
colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al
versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo
determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2013
Il Presidente

(2estensore
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Il Consibere

pubblico.

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