Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28486 del 17/05/2016


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 28486 Anno 2016
Presidente: NOVIK ADET TONI
Relatore: BONI MONICA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
SINGH SHAMINDER N. IL 09/11/1988
avverso la sentenza n. 23251/2014 GIP TRIBUNALE di BRESCIA, del
26/02/2015
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;

Data Udienza: 17/05/2016

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza resa il 26 febbraio 2015 il G.i.p. del Tribunale di Brescia
applicava a richiesta delle parti all’imputato Shaminder Singh la pena di mesi otto di
reclusione in relazione al reato di cui all’art. 1-ter, comma 15, della legge n. 102 del
2009.
2.Avverso l’indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato a
mezzo del difensore, il quale ne ha chiesto l’annullamento per inosservanza o

condotta posta in essere, consistita nella presentazione di domanda di emersione
dal lavoro irregolare, corredata dalla falsa attestazione del rapporto di lavoro, senza
fosse emersa l’effettiva contraffazione di alcun atto, è stata erroneamente
qualificata ai sensi della norma indicata nell’imputazione, mentre avrebbe dovuto
essere rapportata alla prima parte del comma 15, il cui reato è punito meno
severamente ai sensi dell’art. 483 cod. pen.. Pertanto, la pena irrogata è
irragionevolmente elevata anche rapportata alla personalità dell’imputato, giovane
e ben inserito nel territorio nazionale.

Considerato in diritto

L’impugnazione è inammissibile in quanto basata su motivi manifestamente
infondati.
1.Va premesso che l’applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce
istituto processuale, in virtù del quale l’imputato ed il pubblico ministero si
accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza
di circostanze, sulla comparazione fra le stesse e sull’entità della pena. Da parte
sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l’esattezza dei menzionati aspetti
giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla, una volta verificata
l’evidente insussistenza di una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129
cod. proc. pen..
1.1 Ne consegue che, ottenuta l’applicazione di una determinata pena ai sensi
dell’art. 444 cod. proc. pen., all’imputato non è consentito rimettere in discussione
profili oggettivi o soggettivi della fattispecie con riferimento all’entità della pena,
tranne che la stessa sia illegale, od alla configurabilità di aggravanti o attenuanti,
non considerate o contemplate nell’accordo pattizio (ex multis: Cass., sez. 3, n.
30.11.1995, Canna, rv. 203284; sez. 6, n. 38943 del 18/9/2003, P.G. in proc.
Cacciatori, rv. 227718; sez. 2, n. 40519 del 12/10/2005, P.M. in proc. Scafidi, rv.
232844; sez. 6, n. 32004 del 10/04/2003, P.G. in proc. Valetta, rv. 228405; sez. 3,
n. 10286 del 13/02/2013, Matteliano, rv. 254980)
1

erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art. 444 cod. proc. pen.: la

2. Nel caso in esame, il Tribunale, seppur con motivazione di estrema sintesi,
ha ritenuto di dover condividere la qualificazione giuridica del fatto ed insussistente
qualsiasi ragione per disporre il proscioglimento dello imputato ai sensi dell’art. 129
cod. proc. pen. alla luce degli esiti degli accertamenti condotti e ha puntualmente
rispettato il contenuto dell’istanza rivoltagli dalle parti; non è dunque consentito
all’imputato rimettere in discussione la decisione sulla base della prospettazione
personale, unilaterale e di scarsa logicità intrinseca esposta nel ricorso, che non
trova rispondenza negli atti processuali. Qualora avesse inteso far emergere lacune

affrontare l’istruttoria dibattimentale.
2.1 Quanto alla qualificazione giuridica del fatto, come già più volte affermato
da questa Corte, l’art. 444 cod.proc. pen,. impone di rilevare eventuali cause di
non punibilità indicate nel citato art. 129 cod. proc. pen. sulla base delle
acquisizioni fino a quel momento ottenute nell’ambito di un’operazione da compiersi
allo stato degli atti, cioè senza alcuna necessità di un approfondimento probatorio,
ovvero dell’acquisizione di ulteriori elementi, in quanto l’eventuale pronuncia di
proscioglimento può derivare solo qualora le risultanze disponibili rendano palese
l’esistenza della causa di non punibilità (Sez. un., n. 3 del 25/11/1998, Messina).
Da tale rilievo discende anche la limitata ricorribilità della sentenza di
patteggiamento, ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando
sussiste realmente l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui
reati, sicché deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione
presenti margini di opinabilità: l’errata qualificazione giuridica del fatto può essere
fatta valere solo dinanzi ad un evidente “error in iudicando” che “dissimuli
un’illegale trattativa sul nomen iuris”, ma non in presenza di una qualificazione che
presenti oggettivi margini di opinabilità (Cass. sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012,
Bisignani, rv. 254865; sez. 3, n. 34902 del 24/06/2015, Brughitta e altro, rv.
264153).
Nel caso di specie, la motivazione della sentenza risulta adeguata al rito
prescelto anche in riferimento alla qualificazione giuridica del fatto.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna
della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi
atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte
Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento a favore della Cassa delle ammende di
una sanzione pecuniaria, che pare congruo determinare in euro millecinquecento.

P. Q. M.

2

investigative l’imputato avrebbe dovuto scegliere di accedere al rito ordinario ed

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento della somma di 1.500,00 euro alla Cassa delle
ammende.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2016.

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