Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2845 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 2845 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MACRF FRANCESCO N. IL 15/07/1977
avverso la sentenza n. 46674/2011 CORTE DI CASSAZIONE di
ROMA, del 11/12/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 10/12/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Fulvio Baldi, ha concluso
chiedendo il rigetto dei ricorsi;
per il ricorrente è presente l’avv. Antonio Managò, il quale chiede raccoglimento
del ricorso.

1. Con sentenza del 27 marzo 2009 la Corte di Assise di Locri, escluse le
circostanze aggravanti della premeditazione e della minorata difesa e ritenuta la
continuazione, condannava Macrì Francesco alla pena di anni trenta di reclusione
per i reati di omicidio in danno di Valenti Rocco e di tentato omicidio in danno di
Macrì Antonia, nonché, per i connessi reati di detenzione e porto illegale di un
fucile a pallettoni, commessi in Bovalino il 14/5/2002. La Corte di Assise di
Appello di Reggio Calabria, in data 24/5/2011, disattendeva la richiesta difensiva
di parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (acquisizione del fascicolo
processuale dell’omicidio di Valenti Stefano; sopralluogo nei luoghi del delitto,
previa audizione del consulente di parte Pugliese; audizione del perito Genchi
sulle celle telefoniche che coprivano i siti di interesse; audizione degli agenti che
avevano verificato l’alibi fornito dall’imputato) e, previa valutazione del materiale
processuale a disposizione, confermava la prima condanna, fatta salva la
riduzione della entità della pena che, in ragione di un minore aumento per la
continuazione, determinava in complessivi anni ventotto di reclusione.
2. In punto di fatto risultava accertato che i due coniugi, Valenti Rocco e Macrì
Antonia, erano stati colpiti – l’uomo al volto ed al torace con conseguenze letali e
la donna alla mandibola – mentre erano fermi a bordo di una moto-ape nel
terreno che gli stessi coltivavano in contrada Mastro Massaro. La donna ferita era
riuscita a raggiungere l’abitazione di una vicina, dalla quale era stata allertata la
polizia che sul posto aveva rinvenuto i bossoli di cartucce cal. 12, sparate alle
vittime frontalmente.
3. Con sentenza dell’Il dicembre 2012, la Prima Sezione di questa Corte
rigettava i ricorsi proposto dal Macrì, con i quali era dedotto:
a) vizio di motivazione, per l’assenza di una prova indiziaria certa, conforme ai
criteri di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2;
b) travisamento della prova, in relazione alla descrizione dei luoghi dove erano
avvenuti i fatti, avendo i giudici di primo grado dato per scontato che all’epoca
esistesse un viottolo pedonale, il quale consentiva di raggiungere dal fabbricato
del Valenti solo ed esclusivamente il fabbricato dei Macrì, laddove invece vi era
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RITENUTO IN FATTO

un viottolo che, dalla proprietà Valenti, confluiva in una strada interpoderale e
poi in una strada asfaltata, la quale si innestava verso Bovalino Superiore e la
strada statale Bovalino – Platì;
c) travisamento della prova, in relazione alle impronte plantari rinvenute,
considerato altresì che dal verbale di sequestro risultava che l’imputato calza
scarpe con numeri oscillanti tra il 42-42 e 1/2 e il 44, numeri peraltro molto

d)

mancata assunzione di prova decisiva, in relazione alla richiesta di

acquisizione della consulenza redatta dall’ingegnere Pugliese ed alla richiesta di
ispezione dei luoghi, ai sensi dell’art. 244 cod. proc. pen.;
d) vizio di motivazione e travisamento della consulenza del dott. Barbaro, in
relazione ai rilievi mossi alla sentenza di primo grado sull’esito dell’esame stub,
in specie, quanto alla rilevanza dell’unica particella indicativa di sparo rinvenuta
sul viso dell’imputato – la quale ben poteva derivare dall’inquinamento
involontario – al fine di contestare che la Corte di secondo grado non ha tenuto
conto che nessuna particella era stata rinvenuta sugli abiti indossati quel giorno
dall’imputato e tempestivamente sequestrati; in ordine alla circostanza che la
particella era stata rivenuta sul lato sinistro e non destro del viso, come più
probabilmente accade se si spara con il fucile; sul fatto che, essendo stati esplosi
quattro colpi di fucile, l’inquinamento sarebbe dovuto essere maggiore e che la
particella era stata rinvenuta a distanza di sei ore dal fatto, circostanza che
rendeva verosimile l’inquinamento involontario; sul rilievo che, come afferma la
stessa sentenza, sulla base di un testimone, il killer era coperto in volto; sul
rinvenimento oltre al piombo, al bario e all’antimonio, di rame, evenienza che
escludeva uno sparo, avendo i giudici di merito travisato quanto affermato nelle
relazioni peritali in ordine alla presenza di rame nei bossoli in sequestro;
e) vizio di motivazione, in relazione alla prova di alibi, che non poteva essere
qualificato “falsamente precostituito”, ma, al più, parzialmente fallito – e dunque
di nessun rilievo indiziario secondo la giurisprudenza di questa Corte, affermata
anche a Sezioni Unite – in ragione degli esiti dell’accertamento delle celle
telefoniche agganciate dai telefoni di Marzano Giuseppe (che secondo, la
prospettazione difensiva, nell’ora del delitto si trovava in Bovalino in compagnia
dell’imputato) e del Macrì, i quali, tuttavia, non potevano ritenersi decisivi, atteso
che le due diverse celle coprivano zone estremamente vicine;
f) vizio di motivazione, in relazione alla causale della condotta criminosa,
individuata in un pregresso fatto di sangue che vide protagonista il padre
dell’imputato – Macrì Alfredo -in danno di Valenti Rocco e della figlia Teresa, a
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diffusi;

causa di una relazione sentimentale tra l’odierno ricorrente e la cugina Teresa e
che determinò l’arresto del padre Macrì Alfredo appena due mesi prima del fatto
delittuoso. La Corte territoriale, sotto questo ultimo profilo, avrebbe trascurato
altre circostanze rilevanti, quali i trascorsi penali della vittima, come indicato
nella nota dei Carabinieri di Bovalino; l’epoca risalente dei dissapori, ormai
superati, con i Macrì, che riguardavano solo il padre dell’imputato, tanto che la

il fatto il figlio della vittima, Salvatore, era stato notato insieme all’imputato; la
personalità negativa del predetto Salvatore e la circostanza che un altro figlio,
Stefano, era stato ucciso da persona ignota;
g) vizio della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche ed all’entità della pena, tenuto conto che il Macrì era
gravato da un unico e risalente precedente penale e che non si era dato alla
fuga.
4. La Prima Sezione rigettava il ricorso osservando che i rilievi e gli argomenti del
ricorrente si sostanziavano nella rappresentazione di una possibile diversa
valutazione di alcune circostanze emerse nel processo, non idonee a contraddire
la complessiva analisi degli elementi acquisiti, operata in maniera conforme dai
giudici di primo e secondo grado, ed esplicitata attraverso una motivazione
esente da manchevolezze, da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni.
In sintesi la Corte osservava che:
a) la valutazione della prova era avvenuta nel rispetto dei principi che devono
presiedere la struttura logica della motivazione ed, altresì, della regola di giudizio
di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.;
b) i rilievi in ordine alla descrizione dei luoghi dove erano avvenuti i fatti e le
impronte plantari trovate sul terreno involgevano una valutazione del fatto non
sindacabile in sede di legittimità;
c) con riferimento alla mancata assunzione di prova decisiva, la Corte territoriale
aveva sottolineato che nessun rilievo poteva assumere il rilevamento dello stato
dei luoghi attuale, tenuto conto del tempo trascorso e che il ricorrente non aveva
indicato l’idoneità di tale prova ai fini di contraddire in maniera determinante la
valutazione operata in conformità dal giudice di primo e secondo grado;
d) con riferimento agli esiti dell’esame

stub,

la motivazione della Corte

territoriale era diffusa e spiegava che alla luce delle circostanze indicate dal
consulente del pubblico ministero e dal perito di ufficio, il residuo non poteva
avere ragioni diverse da quelle indizianti, mentre il travisamento di prova era
dedotto genericamente;
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famiglia Valenti non si era neppure costituita parte civile e che pochi giorni dopo

f) le doglianze in ordine all’alibi risultato falso ed alla causale della azione
violenta si sostanziavano in censure di fatto, la cui valutazione era preclusa nel
giudizio di legittimità;
g) il vizio della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche doveva escludersi, in considerazione della motivazione della
decisione impugnata, fondata sui precedenti penali relativi a reati gravi e sul

pena, anche alla luce della riduzione dell’aumento per la continuazione operata
dal giudice dell’appello, doveva ritenersi generico.
5. Con l’odierno ricorso sono dedotti i seguenti errori percettivi:
a) aver ritenuto che le censure di travisamento della prova, in relazione alla
descrizione dei luoghi ed alle impronte plantari, involgevano una valutazione del
fatto non sindacabile in sede di legittimità e dunque un travisamento del fatto;
b) aver ritenuto prove non decisive la consulenza redatta dall’ingegnere Pugliese
e l’ispezione dei luoghi, delle quali si lamentava la mancata assunzione ai sensi
dell’art. 606, cod. proc. pen., lettera D;
c) l’aver ritenuto che l’imputato calzasse solo scarpe 43, laddove invece egli
calzava scarpe dal 42,5 al 44, secondo il tipo di calzatura;
d) l’aver ritenuto generica la censura sugli esiti dell’esame stub, che invece si
presentava dettagliata e segnalava che sui vestiti indossati dall’imputato,
sequestrati quel pomeriggio, non fu rinvenuta alcuna particella; che la particella
ritrovata sull’emiviso sinistro del ricorrente era logicamente incompatibile con il
volto travisato da un cappuccio del killer ed era invece compatibile con una
contaminazione nei locali del Commissariato di P.S:;
e)

l’aver trascurato il travisamento di prova, in relazione agli esiti

dell’accertamento delle celle telefoniche, che non inficiavano l’alibi indicato dal
ricorrente;
f) l’aver trascurato le deduzioni difensive in ordine alla negazione della causale
del delitto, attesi i buoni rapporti tra le famiglie, a fronte invece di altro omicidio
che aveva colpito la famiglia Valenti (quello del figlio Stefano, ad opera di ignoti)
ed i pregiudizi penali della stessa vittima, il cui approfondimento poteva
consentire di individuare altre possibili causali del delitto, in contrasti e dissapori
con altri soggetti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
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comportamento processuale, mentre il rilievo in ordine alla dosimetria della

2.

Deve premettersi che, sulla base del consolidato orientamento della

giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv.
221283; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250528) in materia di
ricorso ex art. 625 bis c.p.p., l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità
e deducibile con detto mezzo straordinario di impugnazione deve consistere in un
errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di

influenzare il processo formativo della decisione, a cagione di ciò rimasto viziato
dall’inesatta percezione delle risultanze processuali; donde la pronunzia diversa
da quella che altrimenti sarebbe stata adottata.
3.

La natura eccezionale del rimedio e la lettera della disposizione che lo

istituisce non consentono di sindacare a mezzo di ricorso straordinario altro
(asserito) errore di fatto che non sia quello costituito da sviste o errori di
percezione nei quali sia incorsa la Corte di Cassazione nella lettura degli atti del
giudizio di legittimità, che deve essere connotato, altresì, dall’influenza esercitata
sulla decisione (in tal senso “viziata”) dalla inesatta percezione di risultanze
processuali, il cui travisamento conduce ad una sentenza diversa da quella che
sarebbe stata adottata senza l’errore e la cui ingiustizia o invalidità costituiscono
effetto di detto errore.
Di conseguenza:
a) va esclusa ogni possibilità di dedurre errori valutativi o di giudizio;
b) l’errore di fatto censurabile, secondo il dettato dell’art. 625 bis c.p.p., deve
consistere in una inesatta percezione di risultanze direttamente ricavabili da atti
relativi al giudizio di Cassazione e, per usare la terminologia dell’art. 395 cod.
proc. civ., n. 4, cui si è implicitamente rifatto il legislatore nella introduzione
dell’art. 625 bis cod. proc. pen., nel supporre “la esistenza di un fatto la cui
verità è incontrastabilmente esclusa” ovvero nel supporre “l’inesistenza di un
fatto la cui verità è positivamente stabilita” e purché tale fatto non abbia
rappresentato “un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunziare”,
anche implicitamente ovvero che al dibattito processuale “appartiene per legge
(questioni rilevabili d’ufficio)”;
c) l’errore di fatto deve rivestire “inderogabile carattere decisivo”;
d) deve escludersi che nell’area dell’errore di fatto denunziabile con ricorso
straordinario possano essere ricondotti gli errori percettivi non inerenti al
processo formativo della volontà del Giudice di legittimità, perché riferibili alla
decisione del Giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere, anche se
risoltisi in travisamento del fatto, soltanto nelle forme e nei limiti delle
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cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso, di guisa da

impugnazioni ordinarie ovvero con la revisione. Esulando, ancora, dall’errore di
fatto ogni profilo valutativo, esso coincide con l’errore revocatorio, secondo
l’accezione che vede in esso il travisamento degli atti nelle due forme della
“invenzione” o della “omissione”, non estensibile al travisamento delle risultanze,
in cui sia in tesi incorsa la stessa Corte di Cassazione nella lettura degli atti del
suo giudizio.

cassazione, essa, quando pure in astratto sussista, si risolve, di per sè, in un
difetto di motivazione, che, sempre in astratto, non significa affermazione nè
negazione di alcuna realtà processuale, ma semplicemente mancata risposta a
una censura. La prevalente giurisprudenza di questa Corte e le Sezioni Unite
prima citate ammettono, peraltro, che la lacuna motivazionale possa essere
ricondotta nell’errore di fatto quando, sempre restando ai limiti prima segnati,
risulti dipesa “da una vera e propria svista materiale, ossia da una disattenzione
di ordine meramente percettivo, che abbia causato l’erronea supposizione
dell’inesistenza della censura”, ovverosia quando l’omesso esplicito esame lasci
presupporre la mancata lettura del motivo di ricorso e da tale mancata lettura
discenda, secondo “un rapporto di derivazione causale necessaria”, una decisione
che può ritenersi incontrovertibilmente diversa da quella che sarebbe stata
adottata a seguito della considerazione del motivo.
4.1 Deve ricordarsi, in questa prospettiva, che il disposto dell’art. 173 disp. att.
cod. proc. pen., comma 1, (“nella sentenza della Corte di Cassazione i motivi di
ricorso sono enunziati nei limiti strettamente indispensabili per la motivazione”)
non consente di presupporre che ogni argomento prospettato a sostegno delle
censure non riprodotto in ricorso non sia stato letto anziché implicitamente
ritenuto non rilevante o rigettato.
Sicché non solo non è in nessun caso deducibile, ai sensi dell’art. 625 bis cod.
proc. pen., la mancanza di espressa disamina di doglianze che non siano decisive
o che debbano considerarsi implicitamente disattese, perché incompatibili con la
struttura e con l’impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali,
logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima
(Sez. 1, n. 15422 del 10/02/2010, Cillari, Rv. 247236), ma è onere del
ricorrente dimostrare che la doglianza non riprodotta era, contro la regola
dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., decisiva e che il suo omesso esame
dipende da sicuro errore di percezione (Sez. 5, n. 20520 del 20/03/2007,
Pecoriello, Rv. 236731).
5. Ciò posto, rileva il Collegio che il ricorrente censura la motivazione delle
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4. Quanto, poi, all’omissione dell’esame di uno o più motivi di ricorso per

decisione della Prima Sezione, evidenziando tutta una serie di circostanza che, in
realtà, potrebbero integrare al più degli errori di valutazione o di giudizio, ma
non certamente degli errori percettivi; errori, peraltro, che si assume essere stati
commessi anche dal Giudice del merito e non solo dal Giudice di legittimità.
5.1 Nel caso di specie, questa Corte ha condiviso la scelta ricostruttiva valutativa dei Giudici di merito, nel senso che l’episodio omicidiario risulta ben

6. In conclusione il ricorso dell’imputato va dichiarato inammissibile. Alla
declaratoria di inammissibilità segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616
c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al
versamento della somma, ritenuta congrua, di euro mille in favore della cassa
delle ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2013
Il consigliere estensore

Il Presidente

chiarito anche alla luce delle espresse doglianze della difesa.

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