Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28440 del 19/03/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28440 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
Ristori Patrizia, nata il 13 agosto 1950
avverso l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 27 marzo 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Giulio
Romano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avv.ti Gaetano Berni ed Eriberto Rosso.

i

Data Udienza: 19/03/2014

RITENUTO IN FATTO
1. – Con decreto del 4 marzo 2013, il Gip del Tribunale di Firenze ha disposto il
sequestro preventivo di beni mobili, immobili e crediti della società Ripa, di Francesco
Vescovo e Patrizia Ristori, in relazione al reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4
del d.lgs. n. 74 del 2000, con riferimento alle dichiarazioni relative agli anni di imposta
2009 e 2010, recanti elementi passivi fittizi tali da superare le soglia di punibilità
previste da detta disposizione, con riferimento ad operazioni sull’acquisto di oro usato,

società quantità di oro inferiori a quelle indicate nel registro di detta società o di non
averne venduto affatto.
Con ordinanza del 27 marzo 2013, il Tribunale di Firenze, in parziale
accoglimento della richiesta di riesame presentata dall’interessata, ha ridotto l’importo
del sequestro.
2. – Avverso l’ordinanza l’indagata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione deducendo, con unico motivo di doglianza, l’erronea applicazione della
disposizione incriminatrice. La difesa premette che la società è amministrata soltanto
dalla Ristori e che Vescovo ne è stato ritenuto amministratore di fatto ed è indagato
per ricettazione senza il concorso della Ristori, per avere acquistato oggetti preziosi
dei quali faceva commercio. Sostiene la difesa che la denuncia dei redditi presentata
dalla Ristori nell’interesse della società era stata all’origine corretta ma era diventata
infedele per il reato addebitato al Vescovo, soggetto terzo nei confronti del quale era
stata esercitata l’azione penale in epoca successiva rispetto al termine di
presentazione della denuncia dei redditi per gli anni di imposta in contestazione. Vi
sarebbe stata, inoltre, un’indebita interpretazione retroattiva dell’art. 8 della legge n.
44 del 2012, perché ritenuto applicabile alle dichiarazioni riferite agli anni di imposta
2009-2010. Né la sussistenza del reato potrebbe essere desunta dall’art.

4-bis

introdotto dalla legge n. 289 del 2002, relativamente alla tassazione dei redditi
derivanti da illecito, perché neanche in forza di tale disposizione una denuncia dei
redditi inizialmente corretta potrebbe divenire infedele per fatti meramente successivi.
A tali considerazioni il ricorrente aggiunge che, laddove il patrimonio della società
fosse reso libero, non sarebbe «concretamente pensabile una sua possibile
dispersione, dolosa, perché in tal caso sarebbe ipotizzabile la violazione dell’art. 11
legge penale tributaria».
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è infondato.

in relazione al quale vi erano soggetti che avevano dichiarato di aver venduto alla

Il ricorrente muove dall’assunto che le dichiarazioni relative agli anni imposta
2009 e 2010 sarebbero corrette, perché il reato di ricettazione dell’oro ipoteticamente
acquistato dalla società sarebbe stato commesso non dalla Ristori, legale
rappresentante della società stessa, ma da Vescovo. Dallo stesso tenore letterale del
ricorso emerge, però, la contraddittorietà di tale assunto, laddove non si contesta
l’affermazione fatta propria dal Tribunale secondo cui Vescovo era l’amministratore di
fatto della società. Tale commistione di ruoli rende evidente – secondo la valutazione

dichiarazioni di imposta e gli illeciti relativi all’acquisto dell’oro, trattandosi di un’unica
operazione, diretta a realizzare un’evasione fiscale.
Del resto, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993 – nel
testo inserito dall’art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, a decorrere
dal 10 gennaio 2003 e precedente alla modifica operata dal dall’art. 8, comma 1, del
d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla I. 26 aprile 2012, n. 44 «nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle
imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti,
atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente
riconosciuti». A seguito della modifica operata dall’art. 8 del decreto-legge n. 16 del
2012 richiamato, nella determinazione dei redditi non sono ammessi in deduzione i
costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il
compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il
pubblico ministero aveva esercitato l’azione penale. Tale ultima disposizione trova
applicazione retroattiva nel caso in esame, in quanto più favorevole di quella
previgente, ai sensi del comma 3 del richiamato art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, perché
richiede, per l’indeducibilità dei costi da reato, l’ulteriore requisito dell’esercizio
dell’azione penale.
E lo stesso Tribunale evidenzia – con affermazione in punto di fatto non
contestata dal ricorrente – che è proprio quest’ultimo il caso di specie, in cui l’azione
penale per i reati di riciclaggio e ricettazione è stata promossa nei confronti di
Vescovo, soggetto amministratore di fatto della società. Del tutto generiche risultano
sul punto le deduzioni difensive secondo cui, al momento della presentazione delle
dichiarazioni, l’azione penale non era ancora stata esercitata, non avendo il ricorrente
assolto all’onere di fornire dati temporali certi e documentati a sostegno della sua
doglianza.
3

di merito dello stesso Tribunale, insindacabile in questa sede – la continuità tra le

Manifestamente infondato è, infine, il rilievo secondo cui non vi sarebbe nel
caso di specie alcun periculum in mora, trattandosi di sequestro finalizzato alla
confisca, per il quale il requisito del periculum in mora non è richiesto, ai sensi
dell’articolo 321, comma 2, cod. proc. pen. (ex plurimis, sez. 3, 27 novembre 2013, n.
10825/2014).
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 marzo 2013.

P.Q. M.

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