Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28294 del 08/03/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28294 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: CERVADORO MIRELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MARINO PIETRO N. IL 05/05/1945
avverso l’ordinanza n. 741/2015 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del
09/07/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MIRELLA
CERVADORO;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Udit i difensor

Data Udienza: 08/03/2016

Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, nella persona del
dr.Antonio Birritteri che ha concluso chiedendo che il ricorso venga dichiarato
inammissibile.

Osserva

misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Marino Pietro, nato a
Reggio Calabria il 5.5.1945, e indagato per il delitto di associazione mafiosa, con
quella degli arresti domiciliari con divieto di comunicazioni.
Avverso tale provvedimento il P.M. propose appello, e il Tribunale di Torino,
Sezione riesame, con ordinanza del 9.7.2015, evidenziato che nel caso di specie
sussisteva elevato pericolo ed allarme sociale ex art.274 lett.c) c.p.p., in riforma
dell’ordinanza impugnata, rigettava l’istanza volta ad ottenere la sostituzione
della misura e disponeva, per l’effetto, che il Marino fosse ricondotto in carcere.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo la violazione
dell’art. 275 c.p.p. e la mancanza e manifesta illogicità di motivazione ai sensi
dell’art.606, co.1 lett.b ed e c.p.p. circa la sussistenza delle esigenze cautelari di
eccezionale rilevanza, non rilevate nel provvedimento genetico. Secondo il
Tribunale del Riesame le esigenze cautelari eccezionali sarebbero esistenti solo
oggi, e sarebbero ricavabili dal tipo di reato (associativo di tipo mafioso) in
mancanza di dissociazione. Per dimostrare la propria tesi, il Tribunale ricorre
all’uso della sentenza di primo grado, sovrapponendo la propria valutazione a
quella del giudice di merito. A ciò aggiungasi che Marino Pietro è stato
condannato con il ruolo di partecipe, ruolo incompatibile con una indimostrata
apicalità della sua posizione.
Chiede pertanto l’annullamento dell’ordinanza.
Con memoria in data 20.2.2016, il difensore ha dedotto nuovi motivi,
rilevando che il Tribunale nulla ha detto sulla attualità delle esigenze cautelari
per di più di eccezionale rilevanza, e sull’attuale pericolo concreto di reiterazione
nelle condotte criminose.

Motivi della decisione

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la presunzione di cui
all’art. 275 cod. proc. pen., comma 3 che impone l’applicazione della custodia in

Con ordinanza del 13.5.2015, il Tribunale di Torino dispose sostituirsi la

carcere quando sussistano gravi indizi in ordine a determinati reati e non
risultano acquisiti elementi di esclusione delle esigenze cautelari, è opposta a
quella fissata dal comma 4, articolo citato, che esclude l’applicabilità della
custodia in carcere nei confronti di chi ha superato l’età di settanta anni, a
prescindere dalle condizioni di salute in cui versa, salvo la sussistenza di
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La seconda presunzione, “in bonam
partem”,

prevale sulla prima

“in malam partem”.

Da ciò deriva che per

mantenere lo stato di custodia carceraria di un ultrasettantenne, il giudice deve
valutare come eccezionali le esigenze cautelari, anche quando sussistano gravi
indizi in ordine ai reati di cui al terzo comma dell’articolo citato, dando specifica e
adeguata motivazione, e che, nell’assenza di siffatte eccezionali esigenze, ossia
in presenza di esigenze cautelari tipiche o normali, è potere-dovere del giudice
disporre misure coercitive meno afflittive della custodia in carcere (V. Sez. VI,
Sent. n. 3506/1999, Rv.214949).
è stato anche precisato da questa Corte che in base al disposto di cui
all’art. 275 c.p.p., comma 4, la custodia in carcere per i soggetti ultrasettantenni
è ammessa solo in via di eccezione e richiede, quindi, da parte del giudice, una
specifica motivazione delle precise ragioni che lo inducono a derogare alla regola
(che è quella del divieto di detta misura cautelare) ed a ritenere che il “periculum
in libertate” sia, nel caso concreto, di tale intensità ed allarme sociale da
giustificare il superamento della presunzione legale di non adeguatezza, per
eccesso, della custodia in carcere (V. Cass.Sez.I, Sent n. 15911/2015 Rv.
263088).
Tanto premesso, rileva il Collegio che il Tribunale con la decisione
impugnata si è attenuto ai principi di diritto sopra enunciati, anche se non
esplicitati, e che il Marino ha compiuto i settanta anni il cinque maggio 2015,
quindi in data ben successiva all’ordinanza genetica, la quale quindi non poteva
contenere motivazione alcuna sulla eccezionalità delle esigenze cautelari. Il
compimento del settantesimo anno di età è peraltro successivo anche alla
pronuncia della stessa sentenza di primo grado del 26.11.2014, che lo ha
condannato alla pena di anni undici mesi otto di reclusione, nel procedimento per
reati di associazione di stampo mafioso ed armi, relativo alle c.d. locali della
‘ndrangheta nelle province di Torino e Vercelli, e in particolare a una ‘ndrina
insediata in Chivasso in cui era collocato anche il Marino con ruolo apicale,
seppur subentrato ad esponenti di grado maggiore non più operativi quali in
primo luogo il defunto fratello Giuseppe.
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Il Tribunale, nell’ordinanza impugnata, ha fornito una motivazione specifica
ed adeguata della sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non
contenibili con la misura degli arresti domiciliari. Come primo elemento, che
rende eccezionale l’allarme sociale connesso alla posizione del Marino, ha quindi
valorizzato la vicenda della colletta, e ciò non tanto per la relativa entità
economica emersa quanto per la diligenza ed efficacia con cui egli si è dedicato
ad eseguire questa regola ferrea del sodalizio, alimentando le logiche di

mutualità e gratitudine che cementano notoriamente i vincoli associativi. Ha poi
attentamente esaminato la posizione del Marino nell’associazione e alla sua
indiscutibile autorevolezza al suo interno, quale si rileva dalla sua attività di
mediatore e dall’importanza del solo suo nome, come nella vicenda del Cavallaro
(v.pag.7 dell’ordinanza), evidenziando quindi la ferma e nostalgica adesione e
difesa del Marino in favore dei valori tradizionali della ‘ndrangheta (tra cui il
mimetismo discreto delle infiltrazioni nelle posizioni di potere v.pagg.7-8), gli
unici che a suo parere potevano garantire la coesione del sodalizio, e il sicuro e
controllato passaggio di consegne dagli anziani ai giovani. Tra le numerosi
conversazioni captate, vengono quindi citate quelle, nelle quali il Marino
conversava di propositi criminosi con utilizzo di armi da fuoco o comunque
ritorsioni violente e incendiarie verso terzé., nonché quella del 15.1.2012, nella
quale, commentando la preparazione – da parte di terzi – di un attentato
all’allora Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, lungi dal prendere le
distanze da tali fatti, si preoccupava unicamente della superficialità dei
protagonisti e delle pene severe cui gli stessi potevano essere condannati. Il
profilo dell’imputato, è stato quindi completato con le sue abitudini a muoversi in
maniera discreta nel riunirsi e nel comunicare con i terzi, sempre lontano da
“telecamere” e occhi indiscreti, e con l’attuale stato di libertà di uno dei due figli
gemelli (Nicola), già utilizzato in passato “come grimaldello di infiltrazione
nell’amministrazione locale, come dimostrato dalla vicenda della Chind s.p.a”
(v. pag .10).
Da tali rilievi, il Tribunale ha logicamente tratto la conclusione che la
profonda conoscenza da parte dell’imputato delle dinamiche e dei mutamenti di
equilibrio dell’associazione, la radicata affezione al sodalizio (dal quale il Marino
non ha dato alcun segnale di distacco), il rimpianto di un passato ancor più
sacrale, rigoroso e burocratico dei vincoli in questione, e soprattutto il
puntiglioso e ostinato impegno a tramandare alle nuove generazioni, e in primis
ai propri figli (ampiamente coinvolti), i “valori” del sodalizio criminale, rendan
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attuale e concreto il pericolo che l’imputato, senza strumenti adeguati di
controllo delle sue facoltà di movimento e comunicazione con i terzi, si potrebbe
avvalere di metodologie di ricezione e divulgazione di direttive ed informazioni
all’esterno molto accorte e discrete, non prevenibili con i normali controlli
effettuabili nel corso degli arresti domiciliari; e contro tali valutazioni sono dal
motivo in esame formulate, in modo del tutto generico, mere contestazioni di

un revisione di merito delle valutazioni stesse.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’articolo 616
cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la
parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle
spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della
Cassa delle ammende della somma di mille euro, così equitativamente fissata in
ragione dei motivi dedotti. Inoltre, poiché l’esecuzione consegue alla decisione
manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art.28 del regolamento
per l’esecuzione del codice di procedura penale.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende. Manda
alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 28 reg.es . c.p.p.
Così d iberato, in camera di consiglio 1’8.3.2016
Il Presidente
Mario Gentile

veridicità, in un impensabile tentativo di ottenere da questa Corte di legittimità

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