Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28286 del 30/03/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28286 Anno 2016
Presidente: PRESTIPINO ANTONIO
Relatore: IMPERIALI LUCIANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO IL TRIBUNALE DI LANCIANO
nei confronti di:
CROGNALE GIUSEPPE GIANNI, nato a Guardiagrele (CH) il 04/05/1970
COLASANTE PIERINA, nata a Bolognano (PE) il 24/02/1960;
avverso la sentenza n. 397/2015 del TRIBUNALE DI LANCIANO,
del 23/06/2015;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/03/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCIANO IMPERIALI;
udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. AURELIO GALASSO,
che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata
udito il difensore avv. PIETRO ANNESE, in sostituzione dell’avv. EVO TALONE,
che ha chiesto il rigetto del ricorso

Data Udienza: 30/03/2016

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 23/06/2015 I! Tribunale di Lanciano, in composizione collegiale, ha
dichiarato non doversi procedere nei confronti di Crognale Giuseppe Gianni e Colasante Pierina
in quanto, in presenza di delitti perseguibili a querela (artt. 110, 56, 640, 485 e 491 cod.
pen.), quest’ultima era stata presentata, per conto della società Honda s.p.a., da soggetto non
legittimato.
2. Propone ricorso per cassazione avverso tale pronunzia il Procuratore della Repubblica

medesimo Tribunale quantomeno con riferimento al reato di cui agli artt. 56, 110, 640 cod.
pen., aggravato ex art. 61 n. 7 cod. pen. A tal fine, l’ufficio ricorrente con il primo motivo di
impugnazione lamenta l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento
a tale reato, perché aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 7 cod. pen. e, pertanto, perseguibile di
ufficio. Con un secondo motivo, poi, il Procuratore della Repubblica di Lanciano lamenta anche
l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale perché avendo dichiarato il P.M. di
“rimettersi” al Tribunale, pur in presenza di una richiesta del difensore degli imputati che
chiedeva una pronuncia risolutoria, difetterebbe il presupposto della “mancata opposizione”
richiesto dall’art. 469 cod. proc. pen. per una pronuncia di improcedibilità dell’azione penale
con sentenza predibattimentale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
La sentenza di proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469 cod. proc. pen., invero,
può essere emessa solo ove ricorrano i presupposti in esso previsti (mancanza di una
condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale ovvero presenza di una causa di
estinzione del reato per il cui accertamento non occorra procedere al dibattimento) e sempre
che le parti, messe in condizione di interloquire, non si siano opposte, in quanto non può
trovare applicazione, in detta fase, la disposizione dell’art. 129 stesso codice che presuppone
necessariamente l’instaurazione di un giudizio in senso proprio. Avverso la predetta sentenza,
anche se deliberata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l’unica impugnazione ammessa
è il ricorso per cassazione (sez. U. n. 3027 del 19/12/2001, Rv. 220555).
Orbene, nel caso di specie sul piano procedimentale non possono ravvisarsi vizi della
sentenza, ed in particolare non può riconoscersi il vizio prospettato con il secondo motivo di
impugnazione. Le parti, infatti, sono state poste in condizione di interloquire in ordine alla
procedibilità dell’azione penale nei confronti degli imputati, ed il P.M. ha dichiarato di
“rimettersi” al giudice: giacché la norma dell’art. 469 cod. proc. pen. non richiede per il
proscioglimento predibattimentale un accordo tra le parti oppure una richiesta congiunta, ma
soltanto che queste “non si oppongono”, è evidente che il P.M. di udienza, rimettendosi al

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presso il Tribunale di Lanciano chiedendone l’annullamento con rimessione degli atti al

giudice e, quindi, alla decisione che questi avrebbe preso, non si è opposto alla sentenza di
proscioglimento che nei fatti veniva così prospettata alle parti.
E’ infondato anche il primo motivo del ricorso, volto a sostenere la procedibilità di ufficio
del reato di truffa in virtù dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen., che in realtà non è
stata in alcun modo contestata agli imputati, perché in alcun modo indicata nel capo di
imputazione, pur evidenziandosi in esso che l’azione criminosa era finalizzata “ad indurre
l’Honda Italia Industriale SpA a corrispondere alla Primec la somma di euro 118.415,15”,
indicazione non sufficiente, però, a configurare l’aggravante in parola.

cui ai fini della contestazione dell’ipotesi di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. (l’avere cagionato un
danno patrimoniale di rilevante gravità) non è sufficiente la mera indicazione, nel capo
d’imputazione dell’importo della somma sottratta alla persona offesa (o, nel caso in esame, che
si sarebbe tentato di sottrarre alla persona offesa), ma è necessario, per la corretta
formulazione dell’addebito, che sia esplicitata la valutazione circa la rilevante gravità del
danno, così da consentire l’esercizio del connesso diritto di difesa. In altri termini, come
emerge dallo stesso tenore letterale, la norma fa riferimento non all’entità del danno, che
sicuramente può essere indicata in termini aritmetici, ma alla gravità, concetto quest’ultimo
che necessariamente presuppone una valutazione di tutti gli elementi che convergono a
determinare la rilevanza del danno e che nella loro interezza devono essere conosciuti
dall’imputato per metterlo nelle condizioni di articolare la difesa. Inoltre, proprio perché trattasi
di una valutazione di merito, l’accertamento sulla sussistenza della rilevante gravità del danno
patrimoniale è precluso al giudice di legittimità (sez. 2, n. 43920 del 16/7/2015 Rv. 265211;
sez. 5, n. 8707 del 24/06/1992, Rv. 191933).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso nella camera di consiglio del 30 marzo 2016.

Deve, infatti, condividersi il principio ripetutamente affermato da questa Corte , secondo

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