Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28285 del 30/03/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28285 Anno 2016
Presidente: PRESTIPINO ANTONIO
Relatore: IMPERIALI LUCIANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI NAPOLI
nei confronti di:
AZZURRO MAURO, nato a Casoria (NA) il 18/04/1952
RAIANO PATRIZIA, nata a Napoli il 22/02/1960
avverso la sentenza n. 25/2015 della CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
del 30/04/2015

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/03/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCIANO IMPERIALI;
udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. AURELIO GALASSO,
che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso,
udito il difensore avv. MAURIZIO RICCARDI che ha chiesto dichiararsi
inammissibilità del ricorso

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Data Udienza: 30/03/2016

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24/06/2013, all’esito di rito ordinario, il Tribunale di Napoli in
composizione collegiale affermava la penale responsabilità di Azzurro Mauro e Raiano Patrizia
in ordine ai reati di usura aggravata ai danni di Nicolella Armando e di tentata estorsione
aggravata loro contestata e, unificati tali reati dalla continuazione ed esclusa la recidiva,
condannava i predetti alla pena ritenuta di giustizia.
2. Con sentenza in data 30/04/2015 la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza
del primo giudice, assolveva gli imputati dai reati loro ascritti, ai sensi dell’art. 530 cpv. cod.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della
Repubblica presso la Corte di Appello di Napoli chiedendone l’annullamento e deducendo, a tal
fine, la contraddittorietà ed illogicità della motivazione perché, ritenuta la credibilità della
persona offesa, non costituitasi parte civile, essendo stato riscontrato il racconto di questa
anche dalle dichiarazioni dei suoi congiunti, avendo gli imputati negato di aver effettuato
prestito di denaro e di aver profferito minacce facendo riferimento a denaro provento dagli
“scissionisti”, dovevano ritenersi provati i fatti loro ascritti ed irrilevante la causa dello stato di
bisogno della persona offesa.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato, in quanto la Corte territoriale ha riformato integralmente la sentenza
emessa in primo grado, pur molto dettagliata nel suo percorso motivazionale, senza soddisfare
l’onere argomentativo richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione ed
esprimendo, invece, valutazioni sintetiche e non immuni di illogicità e contraddittorietà.
Deve, infatti, ritenersi ormai consolidato il principio secondo cui “il giudice di appello che
riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del
proprio, alternativo, ragionamento probatorio e dì confutare specificamente i più rilevanti
argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa
incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del
compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato”
(Cass., Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013 Rv. 254638); in particolare, “il giudice di appello che
riformi la decisione di condanna di primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di
assoluzione, non può limitarsi a prospettare notazioni critiche di dissenso alla pronuncia
impugnata, dovendo piuttosto esaminare, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato
dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito per offrire una nuova e compiuta
struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni assunte” (Cass., Sez. 6, n.
46742 del 08/10/2013 Rv. 257332; sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013 Rv. 258005). In definitiva,
nel riformare la decisione del primo grado, il giudice di appello “non può limitarsi ad inserire
nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle
notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in
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proc. pen. perché il fatto non sussiste.

sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente
sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della
prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione
delle difformi conclusioni” (Cass. Sez. 2 n. 50643 del 18/11/2014 Rv. 261327).
La sentenza impugnata, invece, ha riferito le dichiarazioni della persona offesa Nicolella
Armando e quelle dei suoi familiari, i figli Antonio e Davide ed il fratello Ciro, e nel valutare
queste, pur senza pronunciarsi esplicitamente sull’attendibilità dei dichiaranti, ha ritenuto
essere provato con certezza il rapporto credito-debito tra imputati e persona offesa,

mancanza di riscontri documentali, che il tasso di interesse praticato per i prestiti elargiti fosse
di carattere usurario, “né la circostanza che la persona offesa versasse in uno stato di bisogno
tale da dover far ricorso a prestiti usurari” e, sulla base di tale assunto, ha ritenuto non
provata la sussistenza del reato di usura. Conseguentemente, pur senza nemmeno descrivere
le minacce che il primo giudice aveva riconosciuto essere state rivolte alla persona offesa, né le
fonti di prova al riguardo, ha con estrema sintesi affermato non potersi ritenere integrato
nemmeno il reato di estorsione contestato al capo B) dell’imputazione, “non risultando provato
che le richieste degli imputati fossero rivolte con minaccia ad ottenere con minaccia un profitto
ingiusto”.
In tal modo, però, non è stato in alcun modo soddisfatto l’onere motivazionale richiesto al
giudice di seconde cure che ritenga di dover ribaltare o, comunque, disattendere la
ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice con ben più approfondita descrizione, e poi
valutazione, dei singoli elementi di prova e della loro concordanza.
Quanto al reato di usura, in particolare, la Corte territoriale non si è espressa in ordine
all’attendibilità dei dichiaranti, ed in particolare della persona offesa e dei suoi familiari, e tale
lacuna appare particolarmente giacché, in presenza dì riconosciuta attendibilità dei predetti, le
loro dichiarazioni avrebbero dovuto essere considerate di per sé idonee a provare la misura del
tasso del tasso di interesse mensile (del 10%) riferita dalla persona offesa, alla luce del
consolidato orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, secondo cui “in tema di
valutazione della prova testimoniale, a base del libero convincimento del giudice possono
essere poste le dichiarazioni della parte offesa e quelle di un testimone legato da stretti vincoli
di parentela con la medesima. Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato,
pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta
anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità
oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non
sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità” (Sez. 3 sent. n. 22848 del
27/3/2003, rv 225232) né, al fine di escludere la sussistenza del reato di usura, appare logico
il riferimento alla mancanza di prova in ordine ad “uno stato di bisogno tale da dover far
ricorso a prestiti usurari”, atteso che questo non è elemento costitutivo del reato, bensì mera
circostanza aggravante ai sensi del comma 5 n. 3) dell’art. 644 cod. pen.
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affermando non essere possibile ricostruire al di là dì ogni ragionevole dubbio, anche per la

Inoltre, è illogica e contraddittoria, oltre che elusiva dell’onere confutare specificamente i
più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della
incompletezza o incoerenza di questa, è anche la riforma della decisione inerente la
responsabilità degli imputati in ordine all’estorsione aggravata dal metodo mafioso: la sentenza
impugnata, invero, non si è soffermata in alcun modo sui singoli episodi di minacce
analiticamente descritti dalla sentenza di primo grado, laddove veniva evidenziato anche il
metodo mafioso insito nella richiesta di pagamento formulata dall’Azzurro in compagnia di tre
sconosciuti affermando che il denaro era dovuto al clan degli “scissionisti”, tanto che il figlio

Roma. Senza alcun riferimento agli episodi di minacce, invece, la sentenza della Corte di
Appello si è limitata ad affermare che, non ritenendosi provato il tasso usurario, difetterebbe la
prova che le richieste fossero rivolte ad ottenere con minaccia un male ingiusto: si tratta di
affermazione illogica, con riferimento al contesto dedotto, atteso anche che la giurisprudenza
di questa Corte è univoca nell’affermare che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal
c.d. “metodo mafioso” la condotta consistente in minacce formulate dal presunto creditore e da
un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi
nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di stampo
mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine
di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro
sulla base di un preteso diritto (sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015 Rv. 264628; sez. 2, n. 33870
del 06/05/2014, Rv. 260344).
In considerazione delle carenze e dei vizi logici della motivazione della sentenza
impugnata, pertanto, questa va annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della
Corte di Appello di Napoli.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.

Così deciso nella camera di consiglio del 30 marzo 2016.

della persona offesa, impaurito ed agitato, invitava la famiglia a fare le valigie e scappare a

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