Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28283 del 22/03/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 28283 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: DIOTALLEVI GIOVANNI

SENTENZA
Sul ricorso proposto da
PROCURATORE GENERALE DELLA PROCURA GENERALE DI VENEZIA
c/ ENTE GIURIDICO “DIEFFE società cooperativa sociale ONLUS”
avverso la sentenza n. 467/2015 pronunciata in data 22/01/2015 dalla Corte d’Appello di Venezia
in data 22/01/2015, con la quale , in riforma della sentenza del GIP del Tribunale di Padova in
data 17/10/2012, ha dichiarato l’Ente non tenuto a rispondere dell’illecito amministrativo
contestato per insussistenza del reato presupposto, revocando la confisca.
Sentita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Diotallevi;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Pietro Gaeta, che ha concluso per
per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
sentiti gli avv.ti Riedi Riccardo del foro di Roma e Mazzonetto Francesca del foro di Padova in
difesa di ENTE GIURIDICO “DIEFFE società cooperativa sociale ONLUS”, che hanno concluso per
la declaratoria di inammissibilità del ricorso del P.G.

RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Padova, emessa in data 17 ottobre 2012,
veniva dichiarata la responsabilità dell’ente giuridico “DIEFFE società cooperativa sociale ONLUS”
responsabile dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 6 D. Lgs. n. 231/2001 dipendente dal
reato presupposto di cui agli artt. 110, 81, 640 bis c.p., ascritto a Di Nuzzo Fabio, Pendin
Federico, Raffaelli Alberto e Zanon Simone, nell’interesse ed a vantaggio della DIEFFE, nel proc.

Data Udienza: 22/03/2016

La sentenza della Corte d’appello di Venezia, emessa in data 22 gennaio 2015, in riforma
della sentenza del G.I.P. del Tribunale di Padova, dichiarava la “DIEFFE società cooperativa
sociale onlus” non tenuta a rispondere dell’illecito amministrativo contestato, concernente la
mancata adozione prima della commissione del fatto reato (né successivamente), di modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stesse specie di quelli commessi, (da
cui la DIEFFE ha tratto il vantaggio economico meglio specificato in epigrafe), per insussistenza
del reato presupposto di truffa continuata e, inoltre, revocava il provvedimento di confisca per
equivalente.
Secondo la Corte d’appello la DIEFFE presentava tutti i requisiti richiesti dalle norme in
materia per partecipare alla realizzazione dei progetti in questione. Inoltre, aveva sottoposto al
vaglio della Regione Veneto il programma relativo ai corsi di formazione, con la conseguente
determinazione dell’ammontare della spesa autorizzata. Dopo il corso, la DIEFFE aveva fornito
un rendiconto che, per ciascun corso, risultava inferiore all’importo totale preliminarmente
approvato dalla Regione Veneto. Quest’ultima aveva riconosciuto come dovuto ed erogato un
finanziamento di importo di poco inferiore rispetto al rendiconto presentato da DIEFFE.
Secondo la Corte d’appello poiché l’operazione di rendiconto è stata attuata sulla base del
medesimo criterio sia per le somme correttamente percepite, sia per quelle ritenute
indebitamente riscosse, la conseguenza dovrebbe essere quella che o tutte le somme erano
indebite o nessuna lo era. Tra l’altro, secondo la Corte, la circostanza che la DIEFFE avesse
presentato un rendiconto per un importo inferiore a quello preventivato, sarebbe un elemento
di supporto in ordine all’assenza della condotta truffaldina.
In ogni caso la DIEFFE aveva eseguito la rendicontazione sulla base delle linee guida
interpretative contenute in un “vademecum” del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale.
L’aderenza ai criteri enunciati da una delle RA. eroganti il contributo, avrebbe eliso la presenza
dell’elemento soggettivo del reato, in quanto la società aveva manifestato la volontà di agire
secondo la legge e non di truffare.
D’altra parte il “vademecum” succitato precisa la differenza tra i costi c.d. diretti, ossia
direttamente riferibili all’azione finanziaria e dimostrabili con specifica documentazione e quelli
c.d. indiretti, ossia indirettamente calcolati, documentati nell’ammontare totale, ripartito in
chiave proporzionale “pro rata temporis”. Quest’ultima tipologia di costi riguarda le spese
necessarie per la realizzazione del programma e riguarda complessivamente la struttura messa
a disposizione per la realizzazione del progetto.
Secondo la Corte, la DIEFFE aveva attuato correttamente tale differenziazione, redigendo
la rendicontazione in modo conforme al vademecum. In virtù di quanto detto e della complessità
della normativa in materia, vi potrebbe essere stato qualche errore, ma non un intento
fraudolento.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale presso la
Corte d’appello di Venezia.
A sostegno dell’impugnazione, la Procura generale articolava due motivi di ricorso; con il
primo deduceva l’omessa ed erronea applicazione dell’art. 640 bis c.p. e delle conseguenti
disposizioni della L. n. 231/2001, nonché la manifesta illogicità della motivazione;
L’Ufficio ricorrente censurava, in particolare, l’assunto, fatto proprio dalla Corte d’appello,
in base al quale se il rendiconto era stato fatto allo stesso modo sia per le somme, in
maggioranza, che sono state riconosciute come percepite correttamente, sia per quelle, per una
quota parte minore, percepite indebitamente, allora si sarebbe dovuto concludere che o tutte le
somme sono state percepite indebitamente, o nessuna di esse lo è stata. Sottolineava l’Ufficio
ricorrente che, al contrario, ai fini della configurazione della truffa era sufficiente prendere atto
che talune delle spese rendicontate non erano inerenti al progetto, potendosi semmai discutere
dell’elemento psicologico del reato, non già della sua materialità.

penale n. 11858/06 R.G.N.R.; veniva riconosciuta l’attenuante ex art. 12, comma 2, lett. b) D.
Lgs. n. 231/2001 ed operata la riduzione per il rito. Veniva condannata la DIEFFE al pagamento
della sanzione pecuniaria e di C 90.000,00 e delle spese processuali. Visto l’art. 19, comma 2 D.
Lgs. 231/2001, veniva disposta la confisca per equivalente del profitto del reato, costituito dalla
somma di euro 92.929,30 indebitamente percepita dalla Regione Veneto.

L’Ufficio ricorrente censurava altresì l’omessa valutazione, da parte della Corte d’appello,
di tutte le fonti di prova valorizzate dal primo giudice in relazione alla “penale” responsabilità
dell’Ente, affermata dal giudice di primo grado in base ad una analisi dettagliata e meticolosa,
per ciascuno dei corsi di formazione, delle spese rendicontate risultate non inerenti al rispettivo
corso.

La difesa della DIEFFE ha depositato due memorie difensive, con le quali ha chiesto il
rigetto del ricorso della Procura Generale, in quanto inammissibile e infondato, e la conferma
della sentenza della Corte d’appello di Venezia, di cui viene condivisa la ricostruzione prospettata
e la motivazione; la difesa, inoltre, ha escluso che l’omessa valutazione da parte della Corte
d’appello delle note di replica del P.G. possa essere assunta a vizio che determina la nullità della
sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva la Corte che il ricorso del P.G. deve essere accolto nei limiti e sensi più oltre
chiariti
1.1 Il reato presupposto, da cui dipende la responsabilità amministrativa dell’ente DIEFFE,
riguarda la condotta, mediante la quale i soggetti facenti parte dell’ente DIEFFE, nell’ambito di
progetti formativi, inducevano in errore l’Ente pubblico erogante il contributo, in relazione
all’identità, al numero dei soggetti effettivamente coinvolti nei corsi e alle spese sostenute
realmente per realizzarli, procurandosi un ingiusto profitto costituito dalle somme erogate dalla
Regione Veneto e non dovute.
Dall’analisi di tutti i corsi, dell’oggetto dell’attività formativa, della documentazione prodotta dalla
società, nonché dalle dichiarazioni rese dai collaboratori, il giudice di prime cure ha ritenuto
sussistente il reato presupposto in base al preventivo di spesa approvato dalla Regione Veneto,
ove i costi erano rendicontati in modo da pareggiare comunque il totale dei costi approvati,
sfruttandone la capienza.
Il giudice ha osservato che, nel caso di specie, i costi relativi al funzionamento della struttura
dell’ente giuridico fossero costi diretti e non indiretti e, pertanto, non si può parlare di mero
errore di calcolo, bensì di condotta volta a far apparire come esistenti costi fittizi, al fine di
percepire tutto il contributo erogato. Al di là della circostanza che la DIEFFE si fosse mantenuta
entro i limiti del finanziamento, il rendiconto deve avere ad oggetto dei costi effettivamente
sostenuti.
2. Ciò premesso la motivazione della Corte d’appello non appare condivisibile a partire
dalle valutazioni in base alle quali, per l’insufficienza degli elementi probatori acquisiti, è stata
esclusa la possibilità di ritenere falsa la documentazione inerente le modalità di rendicontazione
attraverso le quali sarebbe stata consumata la truffa.
La Corte supera l’affermazione della sentenza di primo grado, che ha sottolineato come
sia stato esattamente determinato il quantum dei contributi percepiti indebitamente attraverso
la documentazione acquisita ritenuta ideologicamente e materialmente falsa, facendo riferimento
alla complessità della normativa, alla difficoltà di trovare un criterio che si avvicinasse, per
quanto possibile, alla definizione del peso “reale” dei costi indiretti, e all’assenza in ogni caso di
artifici e raggiri volti a trarre in inganno l’Ente erogatore del contributo.
Orbene, a parere di questa Corte, l’assunto in base al quale la Corte d’appello arriva a
dubitare della corretta determinazione della quota parte di importi ricevuti indebitamente, così
come evidenziato dettagliatamente per tutti casi dal giudice di primo grado, poggia su un
presupposto di difficile comprensione; secondo i giudici di secondo grado se il rendiconto
complessivo, che comprende sia la parte di somme correttamente giustificate, che la parte di
somme indebitamente percepite, è stato eseguito con lo stesso metodo, come sarebbe avvenuto,
vi sarebbe una discrasia insuperabile rispetto alle conclusioni raggiunte in primo grado, perché
dovrebbe ritenersi che o tutti i contributi sarebbero stati percepiti indebitamente o tutti
sarebbero stati percepiti correttamente.

La Procura Generale allegava inoltre al ricorso copia delle “note di replica” depositate
all’udienza del 22 gennaio 2015, nelle quali prospettava la ricostruzione della tesi accusatoria
incentrata, in sintesi, sulla responsabilità degli imputati per aver rendicontato costi non
attribuibili al finanziamento pubblico.

Secondo il Collegio tale conclusione appare illogica e disancorata dai dati di realtà. Illogica
perché attribuisce al metodo di rendicontazione la presunzione di attribuire astrattamente la
capacità di raggiungere il risultato che poggia sugli elementi documentali che devono in concreto
giustificare in via biunivoca il rapporto prestazioni – contributi, sia perché proprio la materialità
del riscontro può evidenziare (ha evidenziato secondo il giudice di primo grado) l’assenza di
effettive prestazioni rispetto a quelle denunciate come eseguite, e cioè qualificate come “costi
diretti”.
Ancora più chiaramente l’insanabile contraddizione della conclusione della Corte d’appello
poggia sul fatto che il problema per accertare la sussistenza del reato non può consistere nella
individuazione del metodo della rendicontazione, ma deve fare riferimento alla correttezza della
sua utilizzazione rispetto all’effettività delle prestazioni in relazione alle voci che il metodo prende
in considerazione e all’obiettivo cui la rendicontazione è finalizzata. L’affanno motivazionale della
conclusione della Corte d’appello emerge proprio dalla presenza dell’inevitabile conclusione di
ammettere la sussistenza dell’errore nel rendiconto effettuato, ma di trarre dalla qualità del
metodo, che in realtà rispetto alla realizzazione di falsi documentali rimane ontologicamente
estraneo, l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato. La conclusione è tratta in maniera
apodittica, perché in contrasto con evidenze storico – documentali inerenti lo stesso
procedimento di accesso ai contributi, in cui il riferimento alla circostanza che l’originario
preventivo iniziale sia stato comunque decurtato rispetto alla somma poi riconosciuta,
dimostrerebbe la correttezza a monte dell’intera procedura; in realtà la circostanza che il
controllo da parte dell’Ente erogatore non si sia rivelato adeguato rispetto alla effettiva
prospettiva di spesa, non può essere ritenuta una ragione giustificatrice per ammettere
l’utilizzazione di falsa documentazione per fruire comunque interamente di importi non dovuti;
e ciò proprio in ossequio al principio di correttezza e imparzialità dell’azione della Pubblica
amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione.
Né la soluzione, sotto il profilo della sussistenza dell’elemento soggettivo, può essere
trovata, ragionevolmente, nella dedotta osservanza di un Vademecum, che la stessa Corte
d’appello riconosce privo della qualità di fonte di interpretazione autentica. Lascia pertanto
significativamente perplesso il Collegio l’affermazione dei giudici di appello, secondo la quale,
riconoscendo alla normativa in questione una struttura alquanto farraginosa e complessa,
possano essere superati a volo d’uccello, i risultati provenienti da una attenta istruttoria
dibattimentale, e da una ancor più dettagliata ed analitica sentenza di primo grado, per affermare
che l’opera di rendicontazione effettuata attraverso il Vademecum dimostra l’assenza
dell’elemento psicologico e l’assenza della volontà di voler truffare la controparte. Peraltro la
stessa Corte d’appello è costretta ad ammettere che in base al Vademecum, non sarebbe
possibile attuare una rendicontazione dettagliata che documentalmente comprovi ogni singola
spese, in particolare le spese relative alla struttura messa a disposizione per la realizzazione del
progetto, che dovrebbero essere classificate all’interno della categoria dei costi indiretti, ma reali,
e comunque controllabili.
Orbene secondo il Collegio non appare dunque contestabile che la realtà del costo non
può essere ricondotto alla compatibilità con il preventivo approvato, dovendo la valutazione
prognostica raffrontarsi con l’effettività dei costi “reali” poi sostenuti, e che soprattutto il criterio
della “pro rata temporis” adottato, ritenuto sufficiente per escludere l’elemento soggettivo,
appare assolutamente generico, e inidoneo rispetto alla necessità di una verifica attendibile con
riferimento allo svolgimento del corso (si pensi alla circostanza che l’erogazione del contributo
pubblico è stato utilizzata anche per pagare gli stipendi e i compensi a propri collaboratori ovvero
a collaboratori di altre società collegate con la DIEFFE v. pagg. da 18 a 75 della sentenza di
primo grado, che non trovano alcuna significativa smentita nella sentenza della Corte d’appello,
anche con riferimento a quello che verrà di seguito illustrato). In particolare proprio con
riferimento ai costi relativi al personale la soc. DIEFFE non ha qualificato gli stessi come “costi
indiretti”. Quindi la criticità giustificativa sta proprio nell’aver utilizzato lo stesso criterio di
rendicontazione rispetto a costi che presentavano caratteristiche strutturali diverse; è cioè il
criterio elevato dalla corte d’appello a dimostrazione dell’insussistenza dell’attività truffaldina che
dimostra invece l’erroneità della scelta contabile, nel momento in cui parifica il trattamento dei
costi indiretti con quello dei costi diretti, ed anzi li inserisce nella stessa categoria, impedendo la
perequazione dei contributi all’effettività delle spese sostenute, nel momento della
rendicontazione finale delle spese medesime, come richiedeva lo stesso Vademecum.

2. La contraddittorietà motivazionale che innerva strutturalmente la sentenza impugnata
emerge anche per quanto riguarda la motivazione tesa a sminuire, se non a svilire, al di là di
ogni ragionevole dubbio, le circostanze di fatto appurate. E’ la stessa Corte d’appello che
riconosce sussistente il dato di realtà affermato dalla sentenza di primo grado (v. pag. 34 della
sentenza d’appello), anche se lo stesso viene poi letto nell’ottica del presupposto incolpevole
derivante dal criterio normativo (farraginoso e complesso), in base al quale determinare il tempo
di impiego di una persona nella realizzazione di uno o più corsi di formazione. Orbene, di fronte
a dati di fatto inoppugnabili, rimane oggettivamente oscuro quale sarebbe stato il criterio
normativo in base al quale ritenere presenti soggetti che non avevano partecipato ai corsi o, se
vi avevano partecipato, lo avevano fatto per periodi di tempo assolutamente inferiori. Le
conseguenze tratte dai giudici della Corte d’appello non hanno trovato, a parere di questa Corte,
una corretta analisi critica da parte dei giudici d’appello, utile a giustificare l’utilizzazione che è
stata fatta del dato probatorio.
3. In sostanza, a parere della Corte, la motivazione della Corte d’appello deve essere
cassata, in quanto non si è conformata al consolidato principio di diritto in base al quale in tema
di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna
pronunciata in primo grado, pervenendo a una sentenza di assoluzione, deve, sulla base di uno
sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del “decisum”
impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l’integrale riforma. (Sez.
2, n. 50643 del 18/11/2014 – dep. 03/12/2014, P.C. in proc. Fu e altri, Rv. 261327) e non può
limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, in larga parte
genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, il cui fulcro risulta un principio
assiomaticamente enunciato che non si confronta con il metodo , e i risultati raggiunti dal giudice
di primo grado, attraverso una analitica ed approfondita disamina dei dati a disposizione; è
necessario, invece, in questo caso riesaminare, con una sintesi articolata e specifica, il materiale
probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua
valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza
non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi
conclusioni. (Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013 – dep. 14/01/2014, Pg in proc. Ricotta, Rv.
258005). Ciò perchè quando le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano
concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare
un unico complesso corpo argomentativo. Nel caso in cui, invece, per diversità di apprezzamenti,
per l’apporto critico delle parti e o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di
appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado,
non può allora egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella
struttura argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata rispetta alla diffusa
e specifica motivazione – delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di
valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992 – dep.
04/06/1992, P.M., p.c., Musunneci ed altri, Rv. 191229). Poiché questi principi non sono stati
osservati, a parere della Corte, la sentenza deve essere annullata per nuovo giudizio sul punto
della sussistenza della responsabilità “penale” dell’Ente, in quanto in tema di responsabilità da
reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’ente, intervenuta
entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, in quanto atto di contestazione
dell’illecito, interrompe la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, del

Queste conclusioni, poi, vanno collegate con le altre acquisizioni probatorie, derivanti
dalle deposizioni testimoniali, idonee a fornire un quadro probatorio assolutamente coerente con
la conclusione di ritenere sussistente anche l’elemento psicologico in ordine alla commissione
della fattispecie reato contestata.
Appare evidente che le discrasie logico – giuridiche delle valutazioni operate dalla Corte
d’appello – poste a base del giudizio assolutorio per l’illecito, concernente la mancata adozione
prima della commissione del fatto reato (né successivamente), di modelli di organizzazione e di
gestione idonei a prevenire reati della stesse specie di quelli commessi, (da cui la DIEFFE ha
tratto il vantaggio economico meglio specificato in epigrafe), rispetto al reato presupposto di
truffa continuata contestata, in forza dell’esclusione degli artifici e raggiri, stante la ritenuta
insussistenza dell’elemento psicologico, comportano la ricaduta sull’intero impianto della
sentenza di tale contraddittorietà motivazionale, per tutte le fattispecie contestate.

D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231. (Sez. 5, n. 50102 del 22/09/2015 – dep. 21/12/2015, D’Errico e
altro, Rv. 265588.
L’annullamento relativo all’affermazione di insussistenza di responsabilità per l’illecito
contestato alla Dieffe , comporta di conseguenza anche l’annullamento della decisione in ordine
al provvedimento di confisca per equivalente, giustificato proprio in ragione della ritenuta
assenza di ipotesi di responsabilità a carico della società.

Alla luce delle suesposte considerazioni in accoglimento del ricorso del Procuratore
5.
Generale di Venezia la sentenza impugnata nei confronti dell’Ente giuridico cooper. per l’attività
di ricerca didattica e formazione – DIEFFE soc. coop. Sociale ONLUS deve essere annullata con
rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia per nuovo giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso del Procuratore generale di Venezia annulla la sentenza impugnata
nei confronti dell’Ente giuridico cooper. per l’attività di ricerca didattica e formazione – DIEFFE
soc. coop. Sociale ONLUS, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia per nuovo
giudizio.
Roma, 22 marzo 2016
Il co

re estensore

Il Presidente

Giov ig

iokllevi

Mario Gentile

L’accoglimento del primo motivo di ricorso del P.G. comporta l’assorbimento nella
4.
decisione del secondo motivo di ricorso.

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