Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28245 del 01/06/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28245 Anno 2016
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– PAGLIARA ANDREA, n. 8/07/1973 a Lecce

avverso la ordinanza del tribunale di LECCE in data 29/09/2015;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. C. Angelillis, che ha chiesto rigettarsi il ricorso;

Data Udienza: 01/06/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza emessa in data 29/09/2015, depositata in data 15/10/2015, il
tribunale di Lecce, decidendo su rinvio disposto da questa Corte, respingeva
l’opposizione al provvedimento con cui la Corte d’Assise di Lecce in data
10/06/2009 aveva revocato l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato di PA-

2. Giova premettere, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che la Quarta
Sezione penale di questa Corte, con sentenza n. 2218 del 2015, investita dal ricorso proposto dall’attuale ricorrente avverso il predetto provvedimento di rigetto dell’opposizione alla revoca, lo annullava con rinvio per nuovo esame al Presidente del Tribunale di Lecce, osservando come il Tribunale, in sede di opposizione, pur integrando, all’esito della pronuncia n. 139/2010 della Corte Costituzionale, l’ordinanza della Corte d’assise, che aveva basato la revoca del beneficio de
quo sulla sola presunzione assoluta di percezione di reddito in ragione della con-

danna subita dal PAGLIARO per associazione mafiosa, non aveva dato conto delle circostanze tutte evidenziate dal ricorrente a conforto della “prova contraria”;
emergendo, pertanto, un vuoto motivazionale in ragione del dovere (art. 125
c.p.p.) del giudice di esporre le ragioni del mancato superamento da parte del
Pagliara della presunzione di aver percepito e di percepire un reddito in ragione
della condanna per uno di quei delitti previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76,
comma 4 bis, l’ordinanza era stata annullata con rinvio per un nuovo esame.

3. Ha proposto nuovo ricorso PAGLIARA ANDREA, a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, impugnando il provvedimento di rigetto 29/09/2015 pronunciato a seguito del rinvio, con cui deduce due motivi di ricorso, di seguito enunciati
nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod.
proc. pen.

3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c) ed e), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 627 cod. proc. pen., agli artt. 112, lett. d),
d.P.R. n. 115 del 2002 e 76, comma 4-bis, d.P.R. citato e correlato vizio di motivazione per omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio.
In sintesi, la censura – che il difensore del ricorrente precisa essere stata prospettata richiamando anche le disposizioni processuali civilistiche per l’esistenza
di un contrasto sull’individuazione della Sezione, civile o penale, di questa Corte,
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GLIARA ANDREA nell’ambito del proc. pen. n. 8156/2003 r.g.n.r..

competente alla trattazione – investe l’impugnato provvedimento in quanto, sostiene il ricorrente, dopo aver richiamato i principi affermati da questa Corte con
riferimento agli obblighi incombenti al giudice di rinvio a seguito
dell’annullamento disposto da questa Corte, che nel caso di specie il tribunale di
Lecce, omettendo di motivare nuovamente con riferimento alla prova contraria
offerta dal ricorrente, sarebbe incorso nella violazione del disposto di cui
all’articolo 627 del codice di procedura penale; il tribunale cioè avrebbe omesso

ve offerte dall’attuale ricorrente al fine di vincere la presunzione legale prevista
dall’articolo 76, comma 4-bis, Testo unico spese di giustizia; continuerebbe a
mancare una chiara esposizione delle ragioni del mancato superamento da parte
del Pagliara della presunzione di aver percepito e di percepire un reddito in ragione della condanna per i reati ostativi indicati dalla predetta disposizione;
nell’ordinanza impugnata, in particolare, si legge che la circostanza che il ricorrente abbia avuto un ruolo marginale dell’associazione criminale e che per tale
motivo egli non abbia tratto alcun profitto dall’attività delittuosa, quello sufficiente al consumo personale di stupefacenti, sarebbe una mera allegazione priva di
prova, sostenendosi apoditticamente che la sua posizione all’interno
dell’associazione criminale sia da inquadrare nella cosiddetta “manovalanza del
crimine”, la cui attività viene compensata con somme di scarso rilievo; tale motivazione non soddisferebbe i requisiti richiesti alla legge, soprattutto alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte (si richiama la sentenza n. 20580
del 2011); si sostiene cioè che, nell’ambito dell’attuale procedimento, la difesa
del ricorrente avrebbe ampiamente ottemperato all’onere di allegazione richiesto
al fine di dimostrare lo stato di non abbienza dell’attuale ricorrente e, dunque,
consentire una corretta valutazione della sua situazione economico-patrimoniale;
a tal proposito, si osserva nel ricorso, la difesa aveva svolto un excursus storico
della vicenda personale e processuale del Pagliara (egli risulta detenuto dal
14/4/2003; egli proviene da una famiglia umile sempre in difficoltà economiche;
le vicende personali successive al matrimonio con una giovane ragazza da cui
aveva avuto anche un figlio, erano sfociate in notevoli difficoltà economiche che
avevano minato la serenità coniugale e familiare perché, causa anche la dipendenza dalla droga e la necessità di facili guadagni, il Pagliara era stato indotto a
far parte dell’entourage di tale Cerfeda Filippo, ciò che lo avrebbe quindi spinto a
commettere una serie indeterminata di reati ma sempre con ruoli di minore rilevanza); la difesa dunque avrebbe sottolineato come i presunti profitti delle attività delittuose attribuite al ricorrente, da sempre un manovale del crimine, presentassero un’entità più fittizia che reale avendo questi sempre destinato le sue ri3

di attenersi al principio statuito da questa Corte in tema di valutazione delle pro-

sorse all’acquisto degli stupefacenti e che, in ogni caso, questi avesse subito
compreso la gravità degli errori commessi tanto da iniziare un percorso di previsione con gli operatori del SERT di Lecce per curarne la tossicodipendenza cronica da cocaina; in altri termini, soprattutto evidenziando come lo stato di detenzione risalisse al 2003, era dunque difficile presumere che questi potesse aver
incrementato il suo patrimonio, non avendo più alcun legame con l’associazione
e che potesse quindi avere disponibilità economiche di consistenza tale da garan-

ro, egli non avrebbe costretto i suoi familiari a subire un pignoramento immobiliare da parte della banca CariPuglia; tutto ciò dunque avrebbe dovuto indurre il
giudice di merito ad annullare il provvedimento di revoca di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato per la acclarata sussistenza in capo al
predetto dei limiti reddituali previsti dalla legge; diversamente il tribunale di Lecce, pur a seguito del precedente annullamento da parte di questa Corte, avrebbe
omesso di svolgere qualsiasi indagine al fine di verificare l’attendibilità delle allegazioni difensive, anche d’ufficio, con gli strumenti a sua disposizione, considerando quanto stabilito non soltanto della Corte di cassazione ma soprattutto dalla
stessa Corte costituzionale quando ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale
del citato articolo 76 comma 4-bis; sul punto, osserva il ricorrente, come del tutto privo di rilievo sia il richiamo nell’ordinanza impugnata alla circostanza che la
moglie del ricorrente, solo formalmente ancora coniuge di quest’ultimo, avesse
contratto un mutuo negli anni 2006 e 2007 per l’acquisto di una unità immobiliare con superficie catastale di oltre 300 mq; detta circostanza, osserva il ricorrente, non rileverebbe, non essendo emblematica del fatto che la stessa possedesse
redditi frutto dell’attività delittuosa del marito; sotto tale profilo, si osserva, il
giudice avrebbe dovuto disporre degli accertamenti d’ufficio, in particolare appurando che i fideiussori di tale finanziamento fossero in realtà i fratelli della moglie
dell’attuale ricorrente, il quale non aveva prestato alcuna garanzia perché detenuto dal 2003; ancora avrebbe dovuto considerare il giudice la comunicazione
della Questura di Lecce secondo cui il ricorrente, a seguito degli accertamenti
esperiti presso l’Agenzia delle Entrate, era risultato non titolare di beni immobili
essendo in separazione dei beni, circostanza questa che si pone in stridente contrasto con quanto riferito nella informativa DIA a firma del Gen. Curcio, richiamata nella ordinanza impugnata, in cui si legge che la moglie dell’attuale ricorrente risulterebbe proprietaria in regime di comunione dei beni di detta unità
immobiliare; del tutto inconferente dunque sarebbe il richiamo operato dal tribunale alla capacità economica della moglie, non potendo tale dato essere avulso
dalle ulteriori emergenze processuali e non essendo pertanto sufficiente a dimo4

tire ancora oggi risorse adeguate per sè e la sua famiglia; se ciò fosse stato ve-

strare il possesso di redditi da parte di quest’ultimo; il giudice pertanto sarebbe
venuto meno al suo obbligo di procedere ad una valutazione unitaria dell’intero
quadro istruttorio per verificare se lo stesso deponesse o meno nel senso della
fondatezza della domanda avanzata.

3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 112, lett. d), d.P.R. n. 115 del 2002 e 76,

motivazione per omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio e carenza di
motivazione sul punto.
In sintesi, la censura – che, al pari della precedente, il difensore del ricorrente
precisa essere stata prospettata richiamando anche le disposizioni processuali civilistiche per l’esistenza di un contrasto sull’individuazione della Sezione, civile o
penale, di questa Corte, competente a decidere – investe l’impugnato provvedimento in quanto, sostiene il ricorrente, lo stesso sarebbe censurabile nella parte
in cui il tribunale ha ritenuto di non doversi pronunciare sull’eccezione sollevata
dal Pagliara secondo la quale la intervenuta modifica normativa introdotta con il
citato comma 4-bis, non poteva essere ritenuta una causa sopravvenuta legittimante la revoca del beneficio nè potesse annoverarsi tra le norme processuali
che consentono l’applicazione del principio tempus regit actum; il tribunale avrebbe errato nell’affermare che questa Corte abbia implicitamente confermato
la ordinanza 9/3/2012, poiché se ciò fosse stato vero, questa Corte avrebbe dovuto indicare le parti irrevocabili del provvedimento, ma così non è stato; conseguentemente la mancata pronuncia o comunque lo sterile richiamo a quanto statuito dal primo giudice, renderebbe nullo il provvedimento per le ragioni citate;
in particolare, si osserva, la innovazione normativa richiamata non avrebbe i caratteri sopra descritti, ciò in quanto, in relazione alla predetta disposizione, non è
provata la mancanza sopravvenuta delle condizioni di reddito perché nonostante
la presunzione relativa introdotta dalla legge, al momento dell’effettivo accertamento dei parametri reddituali, il Pagliara era stato ammesso a godere dei benefici, implicando ciò la certezza e non la presunzione del mancato superamento
del limite; sarebbe pertanto illegittima una revoca basata su una disposizione
normativa posteriore e sfavorevole sicché, si sostiene conclusivamente, ove non
si volesse ritenere l’innovazione legislativa una norma sostanziale insuscettibile
di applicazione del principio tempus regit actum, detta norma non potrebbe però
reputarsi esente da vizi di costituzionalità; per tale ragione, si chiede che nella
denegata ipotesi in cui questa Corte non volesse accogliere il ricorso, di sollevare

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comma 4-bis, d.P.R. citato in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. e correlato vizio di

questione di costituzionalità dell’articolo 76 comma 4-bis d.p.r. 115/2002 per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione.
4. Con requisitoria scritta depositata presso la cancelleria di questa Corte in data
8/02/2016, il P.G. ha chiesto rigettarsi il ricorso, anzitutto osservando come il
provvedimento impugnato analizzi specificamente le prove come addotte dal ricorrente, motivando in modo congruo e logico la loro inidoneità a vincere la presunzione legale che i reati commessi abbiano generato un reddito superiore ai

l’informativa richiamata della DIA secondo cui il ricorrente e la moglie risulterebbero essere stati proprietari negli anni 2006-2007 di un immobile della superficie
di metri quadri 310, aggiungendo che le altre argomentazioni, come quella del
lungo periodo trascorso in stato di detenzione, non sarebbero utili per vincere la
presunzione in quanto il denaro presuntivamente recuperato può produrre reddito anche con un semplice investimento di tipo finanziario; non vi sarebbe poi ragione per ritenere insufficiente o incongrua la motivazione per il solo fatto che il
giudice avrebbe dovuto attivare sui poteri d’ufficio per cercare conferme o smentite ai dati offerti dalla predetta informativa, atteso che i dati oggi evidenziati in
sede di legittimità dal ricorrente non risultano mai essere stati prodotti per sostenere davanti al giudice di merito il superamento della presunzione relativa; il
ricorrente inoltre muoverebbe dall’errato presupposto che il giudice debba fornire
la prova del suo assunto, dimenticando, al contrario, che deve limitarsi a valutare se i dati prodotti dalla parte siano idonei a superare la presunzione di legge.
Quanto poi al secondo motivo di ricorso, ritiene il Procuratore Generale che lo
stesso sia infondato, avendo questa Corte affermato ripetutamente che la legge
che ha introdotto la presunzione relativa ex articolo 76 comma 4-bis citato si applica, in virtù del principio tempus regit actum a tutte le situazioni pendenti, trattandosi di norma processuale.

5. Con due distinte memorie di replica, rispettivamente depositate in data 17/05
e 26/05/2016, la difesa del ricorrente ha reiterato, sviluppandoli, i motivi già
proposti nel ricorso originario, a sostegno della fondatezza dei motivi di ricorso,
insistendo per l’accoglimento anche per quanto concerne la questione subordinata di costituzionalità c.s. sollevata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

6. Il ricorso è infondato.

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limiti previsti per l’ammissione al beneficio; il giudice, segnatamente, valorizza

otAQ
7. Osserva il Collegio come il provvedimento del tribunale, lung manifestare i vizi oggetto dei motivi di ricorso proposti dalla difesa del ricorrente, abbia, diversamente, compiutamente assolto ai compiti al medesimo organo di giustizia incombenti a seguito dell’annullamento disposto da questa Corte con la sentenza
n. 2218 del 2015.

8. Ed infatti, quanto al primo motivo, è sufficiente la semplice lettura del prov-

del ricorrente. Si legge, in particolare, nel provvedimento che, al fine di sanare il
deficit motivazionale che era stato riscontrato da questa Corte nel provvedimento oggetto di annullamento, occorreva analizzare la cosiddetta prova contraria
offerta dal ricorrente in ossequio alla pronuncia della corte costituzionale n. 139
del 2010, che aveva appunto dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo
76, comma 4-bis, Testo unico spese di giustizia, laddove aveva previsto che la
presunzione di superamento del reddito in ragione della condanna per uno dei
delitti ivi previsti aveva carattere assoluto e non relativo, nel senso della impossibilità per l’interessato di addurre prova contraria.
Il giudice di merito passa dunque ad esaminare gli elementi di prova contraria
adotti dalla difesa del ricorrente (i quali risultano sostanzialmente gli stessi che
vengono citati dal ricorrente in sede d’impugnazione di legittimità), in ultima analisi avendo sostenuto il ricorrente che, in ragione del lungo stato di detenzione, questi difficilmente avrebbe potuto incrementare il suo patrimonio non avendo più legami con l’associazione criminale; il giudice di merito, sul punto, interpretando correttamente il decisum della Corte costituzionale, evidenzia come la
prova contraria richiesta debba avere ad oggetto la dimostrazione che, in riferimento agli anni in cui è stato accertato il delitto (nel caso in esame dal 2000 a
giugno 2003) l’interessato non avrebbe realtà generato i redditi presunti, o pur
generandoli, non abbia superato il limite previsto dalla legge per l’ammissione al
beneficio, precisando che la predetta prova contraria può estendersi alla dimostrazione che nel periodo compreso tra il periodo in cui il reddito è stato presuntivamente generato e la data di ammissione al patrocinio, il reddito non abbia
prodotto ulteriore reddito.
Sul punto, il giudice, con motivazione immune da vizi logici, ha ritenuto che non
sia stata fornita la prova contraria idonea a superare la presunzione di legge; in
particolare, si osserva come la circostanza che il Pagliara abbia avuto un ruolo
marginale nell’associazione criminale e che per tale motivo egli non abbia tratto
alcun profitto dall’attività delittuosa, se non quello appena sufficiente al consumo
personale di stupefacenti, rappresenterebbe una mera allegazione sfornita di
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vedimento impugnato per escludere la sussistenza dei vizi denunciati dalla difesa

prova, essendosi sostenuto peraltro apoditticamente dalla difesa del ricorrente
che la sua posizione all’interno dell’associazione criminale sia da inquadrare
nell’ambito della cosiddetta manovalanza del crimine, la cui attività sarebbe
compensata con somme di scarsa entità; al fine di superare e destituire di fondamento tale assunto, il giudice di merito osserva come dalla documentazione in
atti risulti che il Pagliara e la moglie, ambedue privi di reddito, negli anni 20062007 risultavano proprietari in “comunione” dei beni di una unità immobiliare

ceso un mutuo di C 100.000 presso banca Apulia con garanzia ipotecaria sul fabbricato del valore di C 200.000, richiamando a tal fine una informativa della DIA
datata 27/9/2007; afferma il giudice che l’aver contratto un mutuo sarebbe sicuro indice della sussistenza in famiglia di sostanze reddituali idonee per fare fronte al relativo onere; inoltre, la circostanza che dal 2003 il Pagliara risulti ristretto
in carcere, non escluderebbe per il giudice di merito che nel periodo antecedente, compreso dal 2000 al mese di aprile del 2003, epoca del commesso reato,
egli abbia potuto percepire dei redditi da attività delittuosa; non potrebbe nemmeno affermarsi che, in conseguenza del suo stato di detenzione e dell’avviato
percorso di recupero dalla tossicodipendenza, il reddito presuntivamente generato non abbia continuato a produrre ulteriore reddito essendo notorio infatti che il
denaro può produrre reddito anche con semplici investimenti in strumenti finanziari; da qui dunque la conferma del provvedimento di revoca.

9. Al cospetto di tale apparato argomentativo, il ricorrente svolge censure prive
di pregio con le quali, peraltro, si finisce per sollecitare questa Corte a svolgere
apprezzamenti di fatto, inibiti in questa sede.
Ciò vale, in particolare, per le deduzioni difensive con cui vengono ad rievocati i
presunti elementi di “prova contraria” offerti dalla difesa per vincere la presunzione relativa dettata dall’art. 76, comma 4-bis, d.P.R. n. 115 del 2002, in sostanza basati sull’assunto che essendo questi detenuto ininterrottamente dal
2003 non avrebbe potuto incrementare il proprio patrimonio, anzi costringendo
la famiglia a subire un pignoramento immobiliare; sul punto, come visto, il giudice di merito chiarisce le ragioni dell’irrilevanza di tale assunto, non essendo, si
noti, accoglibile la lettura della previsione normativa operata dalla difesa del ricorrente sulla scorta della esegesi, non corretta, da egli operata dalla sentenza
della Corte costituzionale.
Ed invero, osserva il Collegio, vero è che la Corte costituzionale, con la richiamata sentenza n. 139 del 2010, ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale
dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle
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della superficie catastale di 300 mq. e che, ancora, la moglie nel 2006 aveva ac-

disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella
parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva
per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria; è tuttavia altrettanto vero che la stessa Corte ebbe a precisare (v. § 6)
che “l’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dun-

supposti reddituali per l’accesso al patrocinio”, con la conseguenza che “Spetterà
al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di «non abbienza», e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi
di ogni necessario strumento di indagine”; la stessa Corte si spinge anche a chiarire in cosa debba consistere questa “prova contraria” idonea a superare la presunzione, puntualizzando che “Certamente non potrà essere ritenuta sufficiente
una semplice auto-certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutti coloro
che formulano istanza di accesso al beneficio”, laddove invece, si specifica in
motivazione “sarà necessario, viceversa, che vengano indicati e documentati
concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco
l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato”.
Dunque è la stessa Corte costituzionale a puntualizzare che, fermo restando
l’onere della prova in capo al richiedente, detta “prova contraria” debba essere
costituita da “concreti elementi di fatto” da cui possa desumersi “in modo chiaro
ed univoco” detta situazione patrimoniale. Orbene, non v’è chi non veda, come
del resto evidenziato dallo stesso tribunale, come i presunti elementi di prova
contraria non denotassero in maniera “chiara ed univoca” la situazione patrimoniale del ricorrente al punto tale da ritenerne l’idoneità a vincere la presunzione
relativa fissata dalla norma qui in discussione; di ciò, come detto, ne da atto il
giudice di merito che – peraltro seguendo quanto specificato dalla Corte costituzionale secondo cui “Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avrà l’obbligo di
condurre una valutazione rigorosa e allo scopo potrà certamente avvalersi degli
strumenti di verifica che la legge mette a sua disposizione, anche di quelli, particolarmente penetranti, indicati all’art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002”
– ha escluso la idoneità di detta prova contraria utilizzando le risultanze di una
nota della DIA datata 27/09/2007 da cui risultava che il Pagliara e la moglie,
ambedue privi di reddito, negli anni 2006-2007 risultavano proprietari in “comunione” dei beni di una unità immobiliare della superficie catastale di 300 mq. e
che, ancora, la moglie nel 2006 aveva acceso un mutuo di C 100.000 presso
banca Apulia con garanzia ipotecaria sul fabbricato del valore di C 200.000, ri9

que ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei pre-

chiamando a tal fine una informativa della DIA datata 27/9/2007; da qui, dunque, l’affermazione del giudice secondo cui l’aver contratto un mutuo sarebbe sicuro indice della sussistenza in famiglia di sostanze reddituali idonee per fare
fronte al relativo onere.
Sul punto, non può che convenirsi con quanto argomentato dal P.G. secondo cui
gli elementi contrastanti con quanto emergente dalla documentazione utilizzata
dal giudice leccese per respingere l’opposizione al provvedimento di revoca, tutti

volta davanti a questa Corte di legittimità e non offerti alla valutazione del GIP,
dunque non valutabili da questa Corte che non potrebbe svolgere apprezzamenti
fattuali al fine di ritenere fondate le argomentazioni, di puro merito, dedotte dalla difesa (dalla esistenza di un regime di separazione anziché di comunione, alla
valutazione dell’esistenza solo formale del matrimonio tra i coniugi, sino a giungere alla individuazione dei garanti fideiussori del mutuo contratto dalla moglie
del ricorrente). Del resto, la circostanza che detti elementi documentali siano
stati allegati al ricorso davanti a questa Corte Suprema (si tratta, in particolare,
degli allegati n. 2, 3 e 4 al ricorso per cassazione) in adempimento dell’onere di
autosufficienza relativo a tale specifico mezzo di impugnazione, non può costituire – per giurisprudenza pacifica di questa Corte – lo strumento per introdurre nel
giudizio di legittimità aspetti in fatto non dedotti tempestivamente davanti ai
giudici del merito (v., da ultimo: Sez. 6, n. 12645 del 04/03/2015 – dep.
25/03/2015, Bonavita, Rv. 263713).
Ne discende, pertanto, l’infondatezza delle deduzioni mosse con il primo motivo.

10. Non miglior sorte merita, infine, il secondo motivo, con cui il ricorrentesi
duole per non essersi il giudice pronunciato sull’eccezione sollevata dal medesimo ricorrente secondo cui l’intervenuta modifica normativa introdotta dall’art.
76, comma 4-bis, d.p.R. n. 115 del 2002, non potrebbe essere ritenuta causa
sopravvenuta legittimante la revoca del beneficio ex art. 112, lett. d), d.P.R. citato né potrebbe annoverarsi tra le norme processuali che consentono
l’applicazione del principio “tempus regit actum”.
Sul punto è sufficiente richiamare, al fine di evidenziare l’infondatezza del motivo, la costante e consolidata giurisprudenza di questa Corte la quale ritiene che
in tema di gratuito patrocinio, la legge n. 125 del 2008 – che ha introdotto una
presunzione di reddito superiore a quello di legge per alcuni gravi reati e segnatamente per i soggetti condannati in ordine ai reati di cui agli art. 73 e 80 d. P.R.
n. 309 del 1990 – si applica, in virtù del principio “tempus regit actum”, a tutte le
situazioni pendenti, trattandosi di normativa processuale. Spetta, infatti, al ri10

afferenti al merito della vicenda, risultano essere stata rappresentati per la prima

chiedente il beneficio fornire la prova contraria – anche alla luce della sentenza
della Corte costituzionale n. 139 del 2010 – idonea a superare la presunzione
stabilita dalla legge, fermo restando che nell’ambito della ponderazione effettuata dal giudice non vi è automatismo quanto agli effetti dell’eventuale revoca
giacché la carenza dei requisiti reddituali può configurarsi ab origine o essere,
per contro, sopravvenuta, con la conseguenza che occorre accertare, anche alla
luce della prova contraria eventualmente offerta dall’interessato, se l’accertata

mento della domanda di ammissione al gratuito patrocinio, o solo in epoca successiva (v., in termini: Sez. 4, n. 6419 del 21/12/2011 – dep. 16/02/2012, P.M.
in proc. Paolati, Rv. 251937).
Ne discende, pertanto, che la normativa ha rilievo processuale, afferendo alle
modalità per accertare il possesso dei requisiti reddituali di cui si discute, e che
trova quindi applicazione il principio “tempus regit actum”: essa è cioè applicabile alle situazioni pendenti, donde nessuna illegittimità o vizio di altra natura è
ravvisabile nel provvedimento impugnato.

11. Resta, infine, da esaminare la prospettata questione di costituzionalità sollevata dalla difesa del ricorrente la quale sostiene che la revoca del provvedimento
di ammissione al patrocinio, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum (e dunque essendo applicabile a tutte le situazioni processuali pendenti),
determinerebbe la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. anche alla luce del disposto
dell’art. 6 della Convenzione e.d.u., in quanto finirebbe per incidere sul diritto di
difesa, privando il ricorrente del diritto dì continuare ad essere assistito da un legale di fiducia, con conseguente violazione del principio di uguaglianza ex art. 3
Cost., atteso che identiche condotte in quanto poste in essere in momento distinti verrebbero punite diversamente, venendo peraltro una norma successiva
all’ammissione ad omologare soggetti accusati di condotte materiali differenti
pur se sussunte nel medesimo nomen iuris ad evidente scapito di soggetti, qual
è l’attuale ricorrente, si trovava in condizione tutt’altro che apicale.
Orbene, sul punto è sufficiente ricordare che la Corte costituzionale, in vicenda
sostanzialmente analoga (Corte cost., ord. 21 giugno 2012, n. 155), ebbe a dichiarare manifestamente inammissibile, per l’erroneità della ricostruzione normativa operata dal rimettente, la questione di legittimità costituzionale dell’art.
76, comma 4- bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiunto dall’art. 12-ter,
comma 1, lett. a), del D.L. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 125 del 2008, impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost., e 6, terzo comma, lett. c), della CEDU, nella parte in cui impo11

attività illecita consenta di ritenere l’esistenza di redditi esorbitanti già al mo-

ne che il reddito degli imputati già condannati con sentenza definitiva per il reato
aggravato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o
psicotrope sia da ritenersi superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio, ciò in quanto il rimettente aveva omesso qualsiasi valutazione
della sentenza n. 139 del 2010 che, avendo dichiarato l’illegittimità costituzionale
della censurata disposizione nella parte in cui non ammette la prova contraria relativamente al reddito dei soggetti già definitivamente condannati per i reati ivi

re.
Ad analogo approdo deve pervenirsi con riferimento all’attuale questione di costituzionalità per come prospettata dalla difesa del ricorrente, laddove dubita della
legittimità costituzionale della norma che impone la revoca del beneficio
dell’ammissione al patrocinio nel caso di cui al comma 4-bis, dell’art. 76 (ma il
problema, osserva questa Corte, sarebbe analogo in relazione anche a tutte le
altre ipotesi di revoca di cui all’art. 112, comma primo, lett. d), d.P.R. n. 115 del
2002 – ossia “d’ufficio o su richiesta dell’ufficio finanziario competente presentata in ogni momento e, comunque, non oltre cinque anni dalla definizione del processo, se risulta provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni
di reddito di cui agli articoli 76 e 92” – ed anche dal comma secondo della citata
disposizione, che facoltizza il magistrato a “disporre la revoca dell’ammissione
anche all’esito delle integrazioni richieste ai sensi dell’articolo 96, commi 2 e 3”).
Ed invero, non v’è dubbio che l’attribuzione del potere di revoca al giudice procedente risulta conforme ai principi di ragionevolezza e speditezza del procedimento penale, del quale quello afferente al patrocinio a spese dello Stato costituisce un sub-procedimento; ne discende, pertanto, che – proprio facendo coerente applicazione dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 139 del 2010, oggetto di esplicito richiamo da parte della successiva ordinanza della Corte costituzionale n. 155 del 2012, non può sorgere dubbio di costituzionalità né in relazione all’art. 24 Cost. né in relazione all’art. 3
Cost.
Infatti, l’individuazione delle condizioni legittimanti la revoca del provvedimento
di ammissione – al pari della determinazione dei parametri per l’ammissibilità del
patrocinio a spese dello Stato, ossia l’accertamento del “tetto” reddituale previsto per l’ammissione al beneficio – fanno parte della discrezionalità politica affidata alla esclusiva competenza del legislatore, e non sono quindi censurabili ne’
sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte sottostanti ne’, a maggior ragione, sotto il profilo di una possibile lesione del diritto di difesa, in quanto non sono
irragionevoli, ma tendono a bilanciare le esigenze di tutela del diritto di difesa
12

indicati, aveva determinato un assetto normativo immune dalle formulate censu-

,

con quelle di garanzia dell’amministrazione della giustizia e del patrimonio pubblico, escludendo che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sia garantita
a soggetti che, pur inizialmente ritenuti meritevoli del beneficio in quanto formalmente muniti dei requisiti previsti dalla legge, risultino successivamente non
soddisfare più le condizioni normativamente richieste per il mantenimento del
beneficio.
A tacer d’altro, infine, la paventata lesione del diritto di difesa viene prospettata
in modo potenziale, atteso che non risulta che il ricorrente sia rimasto sprovvisto
dell’assistenza legale da parte del difensore da lui nominato, essendo stato sempre assistito nel corso del procedimento dal legale di fiducia, non essendo quindi
ravvisabile alcuna lesione del diritto di difesa in termini di effettività del suo esercizio.
A ciò si aggiunga che il diritto all’equo processo non impone necessariamente
che l’accusato debba essere esclusivamente difeso da un difensore di fiducia, ateso che la stessa Corte e.d.u., ha ritenuto, da un lato (caso Croissant v. Germany, 25 settembre 1992, § 29, Serie A no. 237-B), che è competenza delle
singole Corti decidere se interessi di giustizia richiedono che il diritto
dell’imputato di essere difeso da un legale da lui nominato sia soggetto a certe
limitazioni e, dall’altro (caso Meftah and Others v. France [GC], no. 32911/96,
35237/97 e 34595/97, § 45, ECHR 2002 VII; caso Mayzit v. Russia, no.
63378/00, § 66, 20 gennaio 2005; caso Klimentyev v. Russia, no. 46503/99, §
116, 16 novembre 2006; caso Vitan v. Romania, no. 42084/02, § 59, 25 marzo
2008; caso Pavlenko v. Russia, no. 42371/02, § 101, 1 aprile 2010; caso Zagorodniy v. Ukraine, no. 27004/06, § 52, 24 novembre 2011; caso Martin v. Estonia, no. 35985/09, §§ 90 e 93, 30 maggio 2013) che le autorità nazionali devono
sì tener conto dei “desiderata” dell’imputato circa il diritto di farsi assistere da un
legale di fiducia, ma questi interessi possono esser messi da parte nel caso in
cui vi siano rilevanti e sufficienti motivi per ritenere che ciò sia necessario per interessi di giustizia, come avvenuto nel caso di specie, avendo fatto applicazione
la Corte d’Assise prima ed il giudice dell’opposizione poi dei principi dettati dal
d.P.R. n. 115 del 2002 in materia di revoca dell’ammissione al patrocinio, essendo venute meno le condizioni che originariamente ne avevano consentito al ricorrente l’accesso.

12. Il ricorso dev’essere conclusivamente rigettato. Segue ex art. 616 cod. proc.
pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
13

,

La Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente; rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 1° giugno 2016

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