Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28233 del 03/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 28233 Anno 2016
Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: ANDREAZZA GASTONE

SENTENZA

Sul ricorso proposto da Menti Valentino, n. a Isola Vicentina il 23/06/1938;

avverso l’ordinanza del Tribunale di Vicenza in data 19/07/2012;
udita la relazione svolta dal consigliere Gastone Andreazza;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale M. Di Nardo, che ha concluso per il rigetto;

RITENUTO IN FATTO

L Menti Valentino ha proposto ricorso avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di
Vicenza ha rigettato la richiesta di riesame presentata nei confronti del decreto di
sequestro preventivo di un capanno in legno in relazione ai reati di cui agli artt.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d. Igs n. 42 del 2004 stante la
realizzazione del manufatto suddetto in assenza di permessi di costruire e senza
la prescritta autorizzazione paesaggistica.
Con un primo motivo ha dedotto la violazione degli artt.3 del d.P.R. n. 380 del
2001 e 181 del d. Igs. n. 42 del 2004 e dell’art.3 delle leggi regionali Veneto n.

Data Udienza: 03/03/2016

12 del 2012 e n. 25 del 2012 in relazione all’art. 117 Cost. e alla legge n. 157
del 1992. Rileva che le leggi regionali suddette sono intervenute, nel contesto
della potestà legislativa attribuita dall’art. 117 Cost., unicamente a dettare una
specifica disciplina positiva attinente la caccia in adesione alla disciplina di
settore statale di cui alla legge n. 157 del 1992, e non la materia urbanistica edilizia; dette disposizioni hanno identificato gli appostamenti fissi di caccia o i

sufficiente il rilascio, nella specie avvenuto, di autorizzazione amministrativa da
parte della Provincia competente, con conseguente non configurabilità del reato
addebitato.
3.

Con un secondo motivo lamenta il difetto di motivazione in ordine

all’individuazione dell’effettiva natura ed entità delle opere, ritenute dal Tribunale
non precarie, in particolare avuto riguardo ai rilievi del perito del P.M. da cui
risulterebbero elementi costruttivi e dimensionali non ascrivibili ad una nuova
costruzione connotata da stabilità e solidità tipiche delle costruzioni in senso
stretto.
4. Con un terzo motivo, infine, deduce la violazione dell’art. 321 c.p.p. essendo il
manufatto ormai inserito nel contesto territoriale e dunque essendo inidoneo ad
aggravare o protrarre le conseguenze del reato o ad agevolare la commissione di
altri reati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5. Il primo motivo è infondato.
L’assunto del ricorrente, è, evidentemente, nel senso che difetterebbe la
configurabilità del fumus del reato addebitato (e conseguentemente il sequestro
operato sarebbe illegittimo) giacché il capanno in legno sarebbe stato
legittimamente eseguito sulla base delle disposizioni legislative regionali che
esentavano gli appostamenti fissi di caccia, in cui incontestabilmente rientra
quello in oggetto, dalla necessità di titolo abilitativo edilizio e di autorizzazione
paesaggistica.
In effetti, in particolare, l’art. 20 bis, comma 3, della legge regionale Veneto
09/12/1993, n. 50, come introdotto dall’art.1 della legge regionale 24/02/2012
n.12, prevede a tutt’oggi che gli appostamenti per ungulati siano soggetti a
comunicazione al Comune e non richiedano titolo abilitativo edilizio ai sensi
dell’art. 6 del d.P.R. n.380 del 2001 e si configurino quali interventi non soggetti
ad autorizzazione paesaggistica, ove siano realizzati interamente in legno,
abbiano il piano di calpestio ovvero di appoggio posto al massimo a nove metri
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capanni da caccia in via generale come manufatti per la cui realizzazione è

dal piano di campagna, abbiano l’altezza massima all’eventuale estradosso della
copertura pari a dodici metri e abbiano una superficie del piano di calpestio o di
appoggio non superiore ai tre metri quadrati, siano privi di allacciamenti e di
opere di urbanizzazione e comunque non siano provvisti di attrezzature
permanenti per il riscaldamento.
Parimenti, l’art. 20 bis, comma 3 bis, della legge regionale Veneto 09/12/1993,

06/07/2012, prevedeva, all’epoca dei fatti, che gli appostamenti per la caccia al
colombaccio fossero soggetti alla comunicazione al Comune e non richiedessero
titolo abitativo edilizio ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 e si
configurassero quali interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, ove
correttamente mimetizzati e realizzati, secondo gli usi e le consuetudini locali, in
legno e metallo, di altezza non superiore il limite frondoso degli alberi nonché
privi di allacciamenti e di opere di urbanizzazione e comunque non provvisti di
attrezzature permanenti per il riscaldamento.
Ulteriormente ancora, l’art.9, comma 2, lett. h) della legge regionale Veneto
09/12/1993, n. 50, come modificato dall’art. 2, comma 1, della legge regionale
Veneto n. 25 del 06/07/2012, prevedeva, all’epoca dei fatti, che tutte le tipologie
di appostamento fisso di cui all’art. 20 della stessa legge e all’art. 12, comma 5,
della legge n. 157 del 1992, realizzate secondo gli usi e le consuetudini locali
fossero soggette a comunicazioni al Comune e non richiedessero titolo abilitativo
edilizio ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. 06/06/2001, n. 380 e si configurassero quali
interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.
Il Tribunale del riesame, pur prendendo atto di tale complessiva normativa, e
della sua astratta riferibilità alla fattispecie in esame, l’ha ritenuta in sostanza,
tuttavia, inoperante, non potendo la stessa interferire, con effetti scriminanti,
attesa la sua provenienza regionale, sulla legislazione statale a fronte del
monopolio di quest’ultima in materia penale, in tal modo avendo dunque
confermato il provvedimento di sequestro impugnato.

6. Tanto premesso, ora, tale normativa, per una parte (ovvero, segnatamente,
la normativa di cui alla legge n. 12 del 2012) ha continuato a restare vigente in
quanto mai sottoposta al vaglio di costituzionalità, e, per altra parte (ovvero,
segnatamente, la legge n. 25 del 2012), è stata, successivamente ai fatti,
dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art.117 Cost. con
sentenza n. 139 del 05/06/2013.
La Corte costituzionale, infatti, dopo avere ribadito che non compete al
legislatore regionale disciplinare ipotesi di esenzione, rispetto ai casi per i quali la
3

n. 50, come introdotto dall’arti, comma 3 della legge regionale Veneto n.25 del

normativa dello Stato subordina l’esecuzione di un intervento al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica (come già da sentenze n. 66 del 2012, n. 235
del 2011 e n. 232 del 2008), posto che tale istituto persegue, infatti, finalità di
tutela dell’ambiente e del paesaggio, rispetto alle quali la legge regionale, nelle
materie di propria competenza, può semmai ampliare, ma non ridurre, lo
standard di protezione assicurato dalla normativa dello Stato (come già da

407 del 2002), ha precisato che l’impatto prodotto nelle aree tutelate dagli
appostamenti venatori, siano essi fissi, ovvero destinati a cacciare i colombacci,
comporta la necessità di una preventiva valutazione di compatibilità, mediante il
ricorso all’autorizzazione paesaggistica e ha quindi dedotto la illegittimità di
entrambe le norme sopra menzionate (art.1, comma 3 e art. 2, comma 1 della
legge regionale n. 25 del 2012) per violazione dell’art. 117 comma 2, lett. s),
Cost., ove le stesse derogano all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica.
Allo stesso modo, dopo avere ribadito che la disciplina dei titoli richiesti per
eseguire un intervento edilizio e l’indicazione dei casi in cui essi sono necessari,
costituisce un principio fondamentale del governo del territorio, che vincola la
legislazione regionale di dettaglio (come da sentenze n. 303 del 2003, n. 171 del
2012 e n. 309 del 2011), e che gli appostamenti regolati dall’art.2, comma 1,
della legge regionale n. 25 del 2012, attraverso il rinvio all’art. 12, comma 5,
della legge 11 febbraio 1992, n. 157 e all’art. 20 della legge regionale n. 50 del
1993, in quanto “fissi”, comportano una significativa e permanente
trasformazione del territorio, che la stessa realizzazione secondo usi e
consuetudini non è in grado di sminuire, ha concluso nel senso che il legislatore
regionale ha valicato il limite determinato dall’art. 6, comma 6, lett. a), del
d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alla estensione dei casi di attività edilizia libera
ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e
logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6;
di qui, dunque, la illegittimità costituzionale della norma

denunciata per

violazione dell’art. 117 comma 3 Cost..

7. Ciò posto, va allora rammentato come la stessa Corte costituzionale, con la
sentenza n. 148 del 1993 abbia ormai da tempo precisato che nessun soggetto,
imputato di aver commesso un fatto del quale una norma penale abbia escluso
l’antigiuridicità, potrebbe venire penalmente condannato per il solo effetto d’una
sentenza che dichiarasse illegittima la norma stessa, essendo “un fondamentale
principio di civiltà giuridica, elevato a livello costituzionale dal secondo comma
dell’art. 25 Cost. e già puntualizzato… dal primo comma dell’art. 2 cod. pen, ad
4

sentenze n. 58 del 2013, n. 66 del 2012, n. 225 del 2009, n. 398 del 2006 e n.

esigere certezza ed irretroattività dei reati e delle pene; né le garanzie che ne
derivano potrebbero venire meno, se non compromettendo l’indispensabile
coerenza dei vari dettati costituzionali, di fronte ad una decisione di
accoglimento. Sebbene privata di efficacia ai sensi del primo comma dell’art. 136
Cost. (e resa per se stessa inapplicabile alla stregua dell’art. 30, terzo comma,
della legge n. 87 del 1953), quanto al passato la norma penale di favore

retroattività delle norme incriminatrici”.
Allo stesso tempo, tuttavia, ha aggiunto la Corte, lo scrutinio di costituzionalità
delle norme penali di favore si impone comunque in relazione all’ineludibile
esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell’ordinamento sottratte al
controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare
svincolato da ogni regola, stante l’assenza d’uno strumento che permetta alla
Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria.
Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem fosse
attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione
palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è
tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del
trattamento penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue
opzioni derivi un trattamento più favorevole (sostanzialmente su questa stessa
linea, più recentemente, Corte cost., n.5 del 2014) .
Successivamente la Corte, con la sentenza n. 394 del 2006, ha rilevato che il
principio di retroattività della norma più favorevole non presenta alcun
collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione
che la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era
liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno
favorevole) panorama normativo; la Corte ha quindi escluso che il principio di
retroattività in mitius trovi copertura nell’art. 25, comma 2, Cost. (ex plurimis,
sentenze n. 80 del 1995; n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974; ordinanza n. 330 del
1995), trovando invece fondamento nel principio di eguaglianza, che impone, in
linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a
prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo
l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’aboliti° criminis o la modifica
mitigatrice.
Tuttavia, ha proseguito la Corte, altro è porre in essere una condotta che nel
momento di sua commissione è penalmente lecita o punita in modo mite ed altro
è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la norma che in quel
momento la vieta o la punisce in modo più severo. In tale contesto, ha concluso
5

continua perciò a rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la

la Corte, il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di
eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del
principio della irretroattività della norma penale sfavorevole, assolutamente
inderogabile, detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul
piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli
(sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995).

più favorevole in tanto sia destinato a trovare applicazione, in quanto la norma
sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo
apprezzamento del disvalore del fatto può giustificare, in chiave di tutela del
principio di eguaglianza, l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a
chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo
a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i
precetti della Costituzione. La

lex mitior deve risultare, in altre parole,

validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del
procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della
disciplina delle fonti, ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori
espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, ha concluso la Corte, non v’è
ragione per derogare alla regola sancita dagli artt. 136, comma 1, Cost. e 30,
comma 3, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma
costituzionalmente illegittima, rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo
giorno, determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta
punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti
i fatti

pregressi,

posti

in essere

nel

vigore dell’incriminazione o

dell’incriminazione più severa.

8. Tale impostazione, emersa, come appena visto, con riferimento alle norme
prettamente “penali”, è stata poi ripresa dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 28 del 2010. Seppure non investente il profilo della violazione
dell’art. 3 Cost. bensì quello dell’art. 117 (in ragione del contrasto di normativa
interna con direttiva sovranazionale), la pronuncia appare significativa da un lato
per l’oggetto del giudizio, significativamente riguardante, non una norma
strettamente penale bensì una norma extrapenale che, come quelle oggetto del
presente giudizio cautelare (intervenute sui titoli richiesti per la realizzazione dei
capanni da caccia), comportava comunque una riduzione dell’area di applicabilità
della norma penale, e dall’altro perché la Corte, cogliendo un nuovo titolo di
“copertura” del principio nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea, ha ribadito che la retroattività della legge più favorevole
6

E’ dunque giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale

non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo
scrutinio di legittimità costituzionale e, quanto in particolare agli effetti delle
sentenze di accoglimento (che è la tematica che essenzialmente si pone nella
specie) ha espressamente demandato la loro valutazione al giudice rimettente
“secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi

9.

Da ultimo, vanno poi rammentate le più recenti pronunce della Corte

costituzionale sempre nel senso della impossibilità di apporre limitazioni allo
scrutinio di costituzionalità in ragione degli eventuali effetti che una sentenza di
accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo

10. Ritiene allora anzitutto la Corte che la legge regionale n. 25 del 2012, che ha
esentato i capanni da caccia dalla necessità di permesso a costruire o di
autorizzazione paesaggistica, e che, come detto, è stata successivamente
dichiarata costituzionalmente illegittima, non possa trovare applicazione nella
specie.
Preso atto che infatti della necessità di ricondurre il fondamento del principio di
retroattività della /ex mitior essenzialmente al principio di eguaglianza per le
ragioni già manifestate dalla Corte costituzionale, va allo stesso tempo
considerato che la medesima Corte costituzionale ha chiaramente condizionato la
operatività del principio di retroattività al fatto che la norma di favore sia
legittima, non potendo fondamentalmente ammettersi, come espressamente
affermato, “che una norma costituzionalmente illegittima, rimasta in vigore, per
ipotesi, anche per un solo giorno, determini, paradossalmente, l’impunità o
l’abbattimento della risposta punitiva non soltanto per i fatti commessi quel
giorno ma anche con riferimento a tutti i fatti pregressi posti in essere nel vigore
dell’incriminazione più severa”. E ciò, tanto più dovendosi escludere che, nella
specie, riguardante materia non rientrante tra quelle di ambito comunitario,
possa rinvenirsi, nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione
europea, una ulteriore copertura del principio di retroattività della lex mit-for, che
possa eventualmente fungere da contrappeso o limite alla necessaria condizione
di conformità della norma ai principi costituzionali. E, del resto, se lo stesso
giudice delle leggi ha affermato la necessità di escludere zone franche al cui
interno l’attività normativa sia sottratta a qualunque controllo, ciò significa, allo
stesso tempo, che il principio di retroattività della legge penale favorevole debba
trovare un limite proprio nel divieto, per il legislatore (statale o regionale che
sia), di introdurre aree di mero privilegio, a maggior ragione se determinate
7

penali”.

dalla realizzazione in un determinato territorio dello Stato piuttosto che in un
altro. Se così non fosse, del tutto irrazionalmente il legislatore potrebbe sempre
confidare nell’applicazione incondizionata della norma successiva più favorevole
sebbene incostituzionale.

Ed allora, una volta ritenuta la generale riespansione ai fatti pregressi della

non riconoscersi come la stessa debba riguardare in primis coloro che ebbero a
commettere il fatto nella vigenza della norma non ancora modificata in senso più
favorevole non avendo potuto gli stessi certamente confidare in alcuna esenzione
da possibili conseguenze penali, al contrario espressamente previste. In
sostanza, la norma più severa, la cui piena operatività venga ad essere
ripristinata dalla pronuncia di incostituzionalità, legittimamente potrebbe non
essere applicata retroattivamente ai fatti commessi durante la vigenza della
legge dichiarata incostituzionale rispetto ai quali, infatti, non può avere svolto
alcuna funzione di orientamento e di limite delle scelte di comportamento
dell’agente (venendo in rilievo se non altro, secondo alcuni, quanto meno un
profilo di mancanza dell’elemento soggettivo), ma ben può essere applicata a
tutti quei comportamenti che, posti in essere in precedenza, dovevano essere
“confrontati”, dal proprio autore, con le norme vigenti in quel momento, tra cui
quelle, nella specie, richiedenti il permesso a costruire e l’autorizzazione
paesaggistica.
Del resto, non è inutile rammentare che già con la sentenza n. 51 del 1985, la
Corte costituzionale, sia pure con riguardo al diverso aspetto della mancata
conversione del decreto legge comprendente norma penale favorevole, ebbe a
dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 5 (oggi comma 6), c.p.
laddove lo stesso rendeva applicabili le disposizioni in tema di successione di
leggi di cui agli allora commi 2 e 3 chiarendo che il principio di cui all’art. 25,
comma 2, Cost. doveva trovare applicazione soltanto relativamente ai fatti
commessi nel vigore, anche se poi caducato, della “norma penale favorevole”
contenuta in un decreto legge non convertito (giacché solo in tal caso il risultato
della caducazione poteva equipararsi a “norma penale sfavorevole”) e non anche
relativamente ai fatti cosiddetti pregressi.
Ed anzi, è significativo che, proprio in questa pronuncia, la vicenda della
mancata conversione del decreto legge e quella della dichiarazione di illegittimità
costituzionale, siano state accomunate dal giudice delle leggi in quanto entrambe
caratterizzate da “fenomeni normativi del tipo `successorio'”, ed entrambe
determinative di fattispecie di “alternatività sincronica fra situazioni normative”.
8

norma non più incisa dalla disposizione di favore dichiarata illegittima, non può

Va poi escluso che in senso contrario possa condurre il contenuto dell’art. 7 della
Cedu come letto dalla giurisprudenza della Corte edu nel senso della necessità di
applicare, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento del fatto e quelle
successive siano diverse, quella più favorevole (cfr. sentenza del 17/09/2009,
Scoppola contro Italia).
Non può infatti non ricordarsi che i fenomeni dell’abrogazione e della

distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e
producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico
dell’ordinamento giuridico, derivante da una rinnovata e diversa valutazione del
disvalore penale di un fatto, fondata sull’opportunità politica e sociale, operata
dal Parlamento, competente a legiferare in uno Stato democratico di diritto, ed il
secondo, invece, un evento di patologia normativa, attestante che mai quella
norma avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento repubblicano,
contraddistinto dal primato delle norme costituzionali, che non possono perciò
essere violate dal legislatore ordinario; in particolare, gli effetti della declaratoria
di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo “ius superveniens”,
inficiano fin dall’origine la disposizione impugnata (Sez. Un., m 42858 del
29/05/2014, Gatto, Rv. 260695; v. anche Corte cost. n. 1 del 1956; n. 127 del
1966 e n. 49 del 1970).
Ciò posto, e tenuto dunque conto di quanto espressamente statuito dagli artt.
136, comma 1, Cost., e 30, comma 3, I. n. 87 del 1953, basta osservare che nel
caso esaminato dalla Corte di Strasburgo la lex mitior esaminata non era stata
espunta dall’ordinamento, come invece accaduto nel caso di specie, per
illegittimità costituzionale.
Consegue dunque a quanto appena detto che la riespansione della norma che
imponeva ed impone, dopo la pronuncia n. 139 del 2013, la necessità del rilascio
del titolo abilitativo e della autorizzazione paesaggistica ai fini della edificazione
del capanno in questione provocata dalla dichiarazione di illegittimità
costituzionale suddetta ben può coinvolgere, senza alcuna lesione del principio di
uguaglianza, la condotta di specie in quanto posta in essere certamente prima
dell’entrata in vigore della legge regionale n. 25 del 6 luglio 2012, adottata
successivamente anche al sequestro dell’opera, intervenuto in data 11/06/2012.
Sicché, in definitiva, pur essendo non corrette le affermazioni dell’ordinanza
impugnata circa l’automatica desumibilità della illiceità penale della condotta da
una non meglio precisata sostanziale recessività della legge regionale rispetto a
quella statale pur a fronte, al momento della decisione, e in parte ancora oggi,
della indiscutibile vigenza della stessa, va ugualmente, in ragione di quanto
9

dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno tra loro nettamente

sopra detto, ritenuto infondato l’assunto del ricorrente in ordine alla mancanza
di fumus del reato.

11. Né può essere ritenuta applicabile la ulteriore normativa regionale ex lege n.
12 del 24/2/2012, ancora oggi vigente perché mai sottoposta al vaglio
costituzionale : come risulta infatti dall’ordinanza impugnata, ciò essendo

natura interlocutoria dipende evidentemente dalla natura cautelare del
procedimento in oggetto, il capanno di specie presentava stabili strutture “in
legno e metallo”, essendo invece la non necessità del permesso a costruire e
dell’autorizzazione paesaggistica stata prevista, come testualmente indicato
dall’art. 1 della legge regionale 24/02/2012 n.12 cit., per i capanni “realizzati
interamente in legno”.

12. Anche il secondo motivo è infondato venendo dedotta questione meramente
fattuale peraltro fondata sull’erroneo presupposto che la precarietà dell’opera
coincida con il materiale costruttivo impiegato e non sia, piuttosto, insita, come
necessario, nella sua durevole destinazione ai fini di caccia (cfr., tra le altre,
Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710).

13. E’ invece fondato il terzo ed ultimo motivo inerente il profilo del periculum.
Va ricordato che già le Sezioni Unite di questa Corte ebbero ad affermare,
proprio in relazione a manufatti abusivi, che il sequestro preventivo di cosa
pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già
perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa – che
va accertato dal giudice con adeguata motivazione – presenti i requisiti della
concretezza e dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua
consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario
aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta
connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere
definitivamente rimosse con l’accertamento irrevocabile del reato. (Sez. U., n.
12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 223721). E successivamente,
sulla scia di tale impostazione, si è ulteriormente specificato che è riconosciuta la
possibilità di disporre il sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate,
quindi anche successivamente alla consumazione del reato, allorché, pur
essendo cessata la permanenza, le conseguenze lesive della condotta sul bene
protetto possano perdurare nel tempo, ma a condizione che: 1) sussista una
prossimità temporale del sequestro rispetto alla realizzazione dell’opera e,
10

evidentemente sufficiente ai fini di una delibazione, come quella in esame, la cui

conseguentemente, il requisito della attualità e concretezza della misura
cautelare reale; 2) sia data una congrua puntuale motivazione sul periculum in

mora sotto il profilo della sussistenza delle conseguenze antigiuridiche ulteriori
rispetto alla ultimazione dei lavori, derivanti dall’uso del fabbricato (Sez. 4, n.
2389 del 06/12/2013, P.M. in proc. Gullo, Rv. 258182; v., altresì, Sez.3,
n.6599/12 del 24/11/2011, Susinno, Rv. 252016; Sez.2, n.17170 del

proc. Bove e altro, Rv. 236601; Sez.3, n.4745/08 del 12/12/2007, Giuliano, Rv.
238783).
Anche con riguardo, poi, ai reati paesaggistici, questa Corte ha di recente
sottolineato che la sola esistenza di una struttura abusiva ultimata non integra di
per sé i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori
elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del
soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell’ambiente e
del paesaggio (Sez. 3, n. 48958 del 13/10/2015, Giordano, Rv. 266011).
Tale indirizzo va ribadito : non è infatti dato comprendere perché la valutazione
dell’attualità delle esigenze, da ancorare in concreto, come appena visto sopra
con riguardo agli illeciti urbanistici, una volta ultimate le opere, ad una effettiva
lesione del bene giuridico, dovrebbe, in caso di opere realizzate in zona
vincolata, e per il solo fatto che, dunque, la lesione attingerebbe anche il profilo
paesaggistico, esaurirsi nella sola constatazione di opera insediata in un tale
contesto.
Né si comprende, sotto il profilo logico, se il parametro di valutazione è quello
della concreta lesione del bene in rapporto alla avvenuta consumazione della
condotta illecita, perché la sola diversa natura del bene (ambientale paesaggistico in luogo di quello meramente urbanistico) dovrebbe comportare
una diversa soluzione rispetto a quella, sostanzialmente incontrastata, adottata
da questa Corte con riguardo ai reati edilizi, salva restando, naturalmente, la
necessità di verificare in maniera più penetrante la compatibilità dell’uso
dell’opera rispetto agli interessi tutelati dal vincolo proprio in ragione del
peculiare bene giuridico tutelato (Sez. 3, n.40486 del 27/10/2010, P.M. in proc.
Petrina ed altro, Rv. 248701).
Sicché, in adesione all’ orientamento sopra richiamato, e rifiutato ogni
automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema che invece pare
presiedere alle pronunce orientatesi in senso diverso (Sez. 3, n. 5954 del
15/01/2015, Chiacchiaro, Rv.264370; Sez. 3, n. 42363 del 18/09/2013,
Colicchio, Rv. 257526; Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013, Chiantone, Rv.255560;
Sez. 2, n. 23681 del 14/05/2008, Cristallo, Rv. 240621), deve ribadirsi la
11

23/04/2010, De Monaco, Rv. 246854; Sez.4, n.15821 del 31/01/2007, P.M. in

necessità che il giudice dia specifica motivazione, in caso di opere ultimate,
dell’attualità delle esigenze cautelari nel senso appena ricordato.
Nella specie, invece, il Tribunale, pur avendo riconosciuto la esistenza da tempo
del manufatto, ha escluso l’assenza del periculum esclusivamente facendo leva
sulla “libera disponibilità” di esso di per sé sola tale da far perdurare le
conseguenze dei reati. Tuttavia, una tale motivazione, da un lato, è inidonea a

sopra, e dall’altro, anzi, per le incontestate ridotte dimensioni del capanno di
specie, dotato, come risultante dal provvedimento di sequestro, di rete metallica
“per favorire la crescita della vegetazione”, manifesta, per l’impossibilità di
ravvisare, ad opera ultimata, una concreta incidenza dell’uso della struttura sul
bene urbanistico e paesaggistico, la mancanza del requisito del periculum stesso
con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata senza necessità di
rinvio ex art. 620, comma 1, lett. I), c.p.p.
Il manufatto va conseguentemente dissequestrato e restituito all’avente diritto
non essendo lo stesso suscettibile di confisca ex art. 324, comma 7, c.p.p..

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché il decreto di sequestro
preventivo del G.i.p. del Tribunale di Vicenza dell’11/06/2012 disponendo la
restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto. Manda la cancelleria per le
comunicazioni ex art. 626 c.p.p.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2016

.
A

; e ensore

Il Presidente
Silvio Am

dare conto della sussistenza del periculum richiesto nei termini ricordati appena

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