Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2822 del 26/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 2822 Anno 2014
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GIOVINAZZO TERESA N. IL 09/01/1946
avverso la sentenza n. 1286/2011 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 27/09/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 26/11/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Giovanni D’Angelo, ha
concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza perchè il fatto non
è previsto dalla legge come reato

1. Con sentenza del 9 febbraio 2011 del Tribunale di Palmi, confermata dalla
Corte d’appello di Reggio Calabria, in data 27 settembre 2012, Giovinazzo Teresa
era condannata alla pena ritenuta di giustizia in relazione al reato di furto
aggravato dell’acqua potabile, che fluiva lungo la condotta pubblica, sottraendola
al Comune di Gioia Tauro.
2. Contro la sentenza propone ricorso l’imputata, con atto sottoscritto dal
difensore, avv. Michele lana, deducendo violazione dell’articolo 606, lettera B ed
E, in relazione all’articolo 129 cod. proc. pen., perché il fatto non è più previsto
dalla legge come reato. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa
sezione, secondo la quale a seguito del decreto legislativo 152 del 1999 la
condotta è stata depenalizzata, poichè l’articolo 23, che sanziona la derivazione o
utilizzazione abusiva di acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o
concessorio dell’autorità competente, è norma speciale rispetto all’articolo 624
cod. pen.
2.1 A conforto della propria interpretazione il ricorrente richiama la decisione
della Corte costituzionale numero 273 del 2010.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. ricorso è infondato e di conseguenza va rigettato.
1.1 II ricorrente richiama la giurisprudenza che si è occupata del prelievo abusivo
di acque dal sottosuolo.
Una corretta lettura di tali decisioni (si vedano Sez. 5, n. 39977 del 11/10/2005,
La Rocca, Rv. 232341; Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Modaffari, Rv. 229878;
Sez. 5, n. 186 del 29/11/2006 – dep. 09/01/2007, Furfaro, Rv. 236046; Sez. 5,
n. 25548 del 07/03/2007, Lanciani, Rv. 237702) consente di comprendere che
solamente il prelievo abusivo di acque dal sottosuolo integra un illecito

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RITENUTO IN FATTO

amministrativo e non il delitto di furto, in virtù del D.Lgs. n. 152 del 1999, art.
23, che ha sostituito il R.D. n. 1775 del 1933, art. 17, disponendo che la
derivazione o l’utilizzazione dell’acqua pubblica per uso industriale, senza
provvedimento autorizzativo o concessivo dell’autorità competente, è punito con
la sanzione amministrativa da 5 a 50 milioni; tra le norme in considerazione

concorso apparente, disciplinata dalla L. n. 689 del 1981, art. 9, che afferma
anche nell’ipotesi di concorso tra norme penali ed amministrative il principio per
il quale la norma speciale prevale su quella generale.
2. Va rilevato che per la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 1 (disposizioni in materia
di risorse idriche)

“tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non

estratte dal sottosuolo, sono pubbliche”. Inoltre, il D.P.R. 18 febbraio 1999, n.
238, art. 1 (Regolamento recante norme per l’attuazione di talune disposizioni
della L. 5 gennaio 1994, n. 36, in materia di risorse idriche), al comma 1
stabilisce che appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico tutte
le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne.
Il R.D. n. 1755 del 1933, art. 17, comma 3, dal canto suo, reca le sanzioni
previste per il caso di derivazione o di utilizzazione delle acque pubbliche non
previamente autorizzata. Tale disposizione ha conosciuto una prima modifica ad
opera del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 23 ed una seconda ad opera del D.Lgs. n.
152 del 2006, art. 96, comma 4, il cui tratto essenziale – ai fini che qui occupano
– è stato quello di aggravare la sanzione amministrativa, introdotta dal citato art.
23, prevista per la violazione del divieto di “derivare o utilizzare acqua pubblica
senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente”.
2.1 Tanto premesso, è conforme al quadro normativo la sentenza qui impugnata
(laddove non afferma la ricorrenza dell’illecito amministrativo), perché non può
definirsi acqua pubblica, secondo l’accezione valevole ai fini dell’applicazione
dell’art. 17 del testo unico delle acque pubbliche, l’acqua già convogliata
nell’acquedotto comunale. Tale disposizione è inserita in un provvedimento
normativo volto a disciplinare l’utilizzo delle acque pubbliche (la cui nozione si è
sopra richiamata) mediante gli strumenti dell’autorizzazione e della concessione.
La scelta del recente legislatore è stata quella di ricondurre al dominio del diritto
amministrativo l’utilizzo e la derivazione delle acque pubbliche prive di titolo
abilitativo. Ne deriva che un problema di concorso apparente di norme tra il

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(D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 23 e art. 624 c.p.) sussiste, infatti, un’ipotesi di

menzionato art. 17 e l’art. 624 c.p. può porsi solo nel caso in cui si tratti di
acque pubbliche.
Tali non sono le acque che sono state “convogliate”, proprio perché per esse non
può parlarsi di acque sotterranee o superficiali, sia pure in invaso o cisterna.
A ritenere diversamente si finirebbe per sovrapporre la nozione di acqua pubblica

dell’ente proprietario.
3. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con condanna della ricorrente, a norma
dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q. M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2013
Il consigliere estensore

I reside te

valevole ai fini dell’art. 17 cit. con quella che trae causa dalla natura pubblica

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