Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28187 del 29/05/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 28187 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: MARINELLI FELICETTA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PIO STEFANO N. IL 14/08/1960
avverso l’ordinanza n. 71/2012 CORTE APPELLO di ROMA, del
02/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FELICETTA
MARINELLI;
cutite le co,r9ictrni del PG Dott. Fulàyjd iSelfzitt
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Data Udienza: 29/05/2014

Ritenuto in fatto

La Corte di Appello di
Roma, con ordinanza resa
all’udienza camerale del giorno 2.05.2013 rigettava
l’istanza di riparazione presentata da Pio Stefano
per ingiusta detenzione in regime di arresti
domiciliari dal 19/03/98 al 26/01/99 perché
sospettato del reato di cui all’art.74 d.PR: 309/90 e
di due episodi di importazione di rilevanti
quantitativi di cocaina commessi tra il giugno e il
luglio 1996, reati da cui era stato assolto con
sentenza del 31 ottobre 2011 emessa dal Tribunale di
Roma, divenuta irrevocabile il 17.12.2011.
Pio Stefano,a mezzo del suo difensore, proponeva
quindi ricorso per cassazione avverso l’ordinanza
della Corte di appello di Roma e concludeva
chiedendone l’annullamento.
Il ricorrente censurava l’ordinanza impugnata per
violazione ed erronea applicazione degli articoli 314
e 315 cod.proc.pen. e per manifesta illogicità della
motivazione ex art. 606 comma l lett. e)
cod.proc.pen., in particolare nella parte in cui la
Corte di appello non aveva adeguatamente valutato la
collaborazione tenuta dall’imputato a favore delle
Forze dell’Ordine e sosteneva che siffatta
collaborazione doveva essere ritenuta prevalente sul
comportamento tenuto durante la carcerazione, nel
corso della quale, fin dall’interrogatorio di
garanzia, si era avvalso della facoltà di non
rispondere.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze a mezzo
dell’Avvocatura Generale dello Stato presentava
tempestiva memoria e concludeva chiedendo di voler
rigettare ricorso.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.
Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione
per l’ingiusta detenzione, regolato dagli artt. 314
e ss. c.p.p., trova fondamento nella condizione
soggettiva della persona sottoposta a detenzione
immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro
sistematico di riferimento è un quadro di diritto
civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c. che
appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa
un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è
piuttosto quello della riparazione legata ad eventi
che producono il sorgere, quali conseguenze di

ri

principi di solidarietà e di giustizia distributiva,
di responsabilità da atto lecito ( la distinzione
tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043
c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita
da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben
fermo, in materia, l’assetto delle regole
generalissime che disciplinano l’onere della prova
civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento
relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione,
quantunque si riferisca ad un rapporto
obbligatorio
di diritto pubblico
e
comporti
perciò
il rafforzamento dei poteri officiosi del
giudice,
e’
tuttavia ispirato ai principi del
processo civile, con la conseguenza che l’istante
ha l’onere di provare i fatti costitutivi
della
domanda, la custodia cautelare subita e la
successiva assoluzione ( Corte Cass. Sez. 4 sent. n.
23630 02/04/2004 – 20/05/2004 ). Peraltro il
sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di
una condotta del richiedente che al tempo del
processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare
causa a quella ingiusta detenzione. L’operazione
intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare
solo l’eventuale efficienza causale delle condotte
dell’imputato che possano aver indotto, anche nel
concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione
il giudice a
ragionevole e non congetturale
(Cass. SSUU
stabilire la misura della detenzione
13/12/95 n. 43, Sez IV 10/3/2000 n. 1705) .
Il giudice,pertanto, deve fondare la sua decisione su
fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni,
esaminando la condotta del richiedente, sia prima e
sia dopo la perdita della libertà personale,
indipendentemente dall’eventuale conoscenza che
quest’ultimo abbia avuto dell’attività di indagine,
al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se
tale condotta integri estremi di reato, ma solo se
sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorchè
in presenza di errore dell’autorità procedente, la
falsa apparenza della sua configurazione come
illecito penale, dando luogo alla detenzione con
rapporto di causa ad effetto (cfr. Cass. Sezioni
Unite, Sent. n.34559/2002; Cass., Sez.4, Sent.
n.17552 del 2009)
Tanto premesso si osserva che la Corte di Appello di
Roma, con motivazione adeguata, ha enucleato,con
di
elementi
accertati
degli
congrua verifica
riferimento, la condotta del richiedente ostativa
all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione.
La condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr,
n.44090 del
sent.
sez.3,
Cass.,
tra le altre,
9.11.2011) ha infatti ritenuto che la facoltà da

fi

(i

parte dell’indagato di non rispondere in sede di
interrogatorio, la reticenza e persino la menzogna,
pur costituendo esercizio del diritto di difesa,
possono rilevare sotto il profilo del dolo o della
colpa grave solo ove l’indagato sia in grado di
fornire specifiche circostanze, non note all’organo
inquirente, idonee a prospettare una logica
spiegazione al fine di escludere o caducare il valore
indiziante degli elementi acquisiti in sede
investigativa che determinarono l’emissione del
provvedimento cautelare, e invece non ne faccia
parola.
In tale ipotesi il giudice della riparazione deve
accertare innanzitutto quali siano gli elementi
taciuti o falsamente rappresentati in ordine ai quali
per l’indagato vi è un onere di rappresentazione e
allegazione e poi valutare il sinergico nesso di
relazione causale tra tali circostanze e l’addebito
formulato, dando motivata contezza di come esse
abbiano influito, concausalmente, sul mantenimento
dello stato detentivo.
Ciò premesso si osserva che nella fattispecie che ci
occupa la Corte territoriale, nella motivazione, si è
posta in linea con tali principi, evidenziando che
solo in dibattimento fu rilevato che vi era stata una
collaborazione tra l’imputato e le Forze dell’Ordine
e che il ricorrente non aveva assolutamente fatto
trapelare tale importante aspetto, pur avendone avuto
la possibilità nelle sedi opportune, quali
l’interrogatorio di garanzia e la proposizione delle
successive istanze, così di fatto vanificando le
speranze di una sua scarcerazione.
Il Pio Stefano pertanto aveva tenuto un contegno che
avvalorava le accuse mosse nei suoi confronti ed
aveva contribuito a determinare le condizioni per
l’adozione ed il mantenimento del provvedimento
restrittivo per il quale si chiede il riconoscimento
del diritto alla riparazione.
Questo essendo il quadro accusatorio, il motivo
proposto dall’odierno ricorrente non può essere
accolto.
il
che
definisce
impugnato,
Il provvedimento
procedimento per la riparazione dell’ingiusta
detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte
che è limitato alla correttezza del procedimento
logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad
accertare o negare i presupposti per l’ottenimento
del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive
attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a
motivare adeguatamente e logicamente il suo
convincimento, la valutazione sull’esistenza e la
gravità della colpa e sull’esistenza del dolo.

ii

infatti
riconosciuto
non
ha
Il
legislatore
incondizionatamente il diritto all’equa riparazione,
ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il
comportamento dell’indagato, come appunto nella
fattispecie de qua, abbia indotto in errore il
giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di
colpevolezza a suo carico.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il
ricorrente deve essere condannato al pagamento delle
spese processuali e alla rifusione delle spese di
questo giudizio in favore del Ministero resistente
che si liquidano in complessivi euro 1.000,00.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali, nonchè a
rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze
le spese sostenute per questo giudizio che liquida
in complessivi euro 1.000,00.
Così deciso in Roma il 29.05.2014

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