Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28183 del 29/05/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 28183 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: SERRAO EUGENIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LANZILLOTTI STEFANO N. IL 26/08/1979
avverso l’ordinanza n. 42/2011 CORTE APPELLO di LECCE, del
14/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO;
1ettetra1it3 le conclusioni del PG Dott.
Enrico Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

ITfit i klifensor Avv

Data Udienza: 29/05/2014

RITENUTO IN FATTO

1. In data 14/11/2012 la Corte di Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di
riparazione per ingiusta detenzione presentata da Lanzillotti Stefano in relazione
alla privazione della libertà personale patita in carcere dal 21 gennaio 2004 al 9
agosto 2004 ed agli arresti domiciliari sino al 5 luglio 2006 nell’ambito di un
procedimento in cui risultava gravemente indiziato dei delitti di cui agli art.416,
commi 1, 2 e 3, e 628, commi 2 e 3, cod. pen., definito poi con sentenza del

2. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la condotta ostativa al
riconoscimento del diritto all’equa riparazione sulla base delle seguenti specifiche
circostanze fattuali: a) da controlli effettuati dalla polizia giudiziaria risultava
chiaramente provata la frequentazione assidua e costante tra l’istante e i
coimputati Schiena Ivano e Urbano Francesco, condannati per diversi furti e una
rapina nell’ambito del medesimo procedimento; b) il 25 agosto 2002, Lanzillotti
Stefano, sottoposto ad un controllo da parte della polizia giudiziaria mentre era a
bordo della sua autovettura, era stato trovato in compagnia di Schiena e Urbano;
c) in sede di interrogatorio dinanzi al Giudice per le indagini preliminari in data
22 gennaio 2004 Lanzillotti Stefano si era avvalso della facoltà di non rispondere,
non consentendo in tal modo di chiarire la sua posizione e, in particolare, i suoi
rapporti con i coimputati. Sulla base di tali elementi, la Corte territoriale ha
ritenuto qualificabile come gravemente colposo il fatto che l’istante frequentasse
soggetti coinvolti in attività illecite per ragioni rimaste ambigue.

3. Ricorre per cassazione Lanzillotti Stefano, con atto sottoscritto dal
difensore, censurando l’ordinanza impugnata per violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione agli artt.314 segg. cod.proc.pen. Secondo il ricorrente,
l’ordinanza impugnata difetterebbe di congrua e adeguata motivazione in merito
alle ragioni che hanno indotto la Corte territoriale a respingere l’istanza. Sarebbe
contraddittorio, si assume, asserire che la frequentazione di due coimputati non
ritenuta dal giudice di merito idonea a fondare una sentenza di condanna possa
invece assurgere a condizione di per sé idonea e sufficiente a giustificare il
diniego dell’equa riparazione. Con riferimento alla circostanza che, in sede di
interrogatorio, il ricorrente si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere, la
Corte territoriale sarebbe incorsa in grave errore sanzionando il diritto di difesa
che l’imputato può esercitare, avvalendosi della facoltà di non rispondere. In
ogni caso, il Giudice per le indagini preliminari, nell’ordinanza del 9 agosto 2004,
avrebbe ritenuto insussistenti i presupposti per l’applicazione della misura
2

Tribunale di Brindisi all’esito di dibattimento in data 22/09/2010.

cautelare sin dall’inizio, essendo poi intervenuta pronuncia assolutoria del
Tribunale sulla base degli stessi elementi che l’istante aveva sin dall’inizio
evidenziato.

4. Il Procuratore Generale, in persona del dott. Enrico Delehaye, nella sua
requisitoria scritta ha concluso per il rigetto del ricorso.

5.

Con memoria tempestivamente depositata, contenente puntuali

ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Secondo principi ripetutamente affermati da questa Corte e consolidati in
una recente pronuncia delle Sezioni Unite Penali (Sez. U, n. 32383
del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664), il giudice di merito deve, in modo
autonomo e completo, apprezzare tutti gli elementi probatori a sua disposizione,
con particolare riferimento alla sussistenza di comportamenti sia anteriori che
successivi alla perdita della libertà personale connotati da eclatante,
macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi e regolamenti,
fondando la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi che consentano di
stabilire con valutazione ex ante se la condotta tenuta dal richiedente abbia
ingenerato o contribuito a ingenerare, nell’autorità procedente, la falsa
apparenza della configurabilità della stessa come illecito penale, dando luogo alla
detenzione con rapporto di causa ad effetto.
2.1. Come è noto, il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l’equa
riparazione è connotato da totale autonomia ed impegna piani di indagine
diversi, che possono portare a conclusioni del tutto differenti (assoluzione nel
processo, ma rigetto della richiesta riparatoria) sulla base dello stesso materiale
probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato
dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti. In particolare, è consentita al
giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti, non nella loro valenza indiziaria
o probante (smentita dall’assoluzione), ma in quanto idonei a determinare, in
ragione di una macroscopica negligenza od imprudenza dell’imputato, l’adozione
della misura, traendo in inganno il giudice.
2.2. Inoltre, quanto alla utilizzabilità del materiale probatorio, va osservato
che la procedura riparatoria presenta connotazioni di natura civilistica, e, quindi,
3

deduzioni, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha concluso per il rigetto del

nel suo ambito non possono operare automaticamente i divieti previsti dal codice
di rito esclusivamente per la fase processuale penale dibattimentale, e tra di
essi, il divieto di utilizzo degli atti delle indagini, che possono invece trovare
ingresso nell’alveo di una causa con impronta civilistica, quali fonti di prova
inquadrabili nella categoria delineata dall’art. 2712 c.c. (Sez. 4, n. 11428 del
21/02/2012 , Nocerino, Rv. 252735 ; Sez. 4, n.38181 del 23/04/2009, Ferrigno,
Rv. 245308; Sez. 4, n. 37026 del 03/06/2008, Bologna, Rv. 241981).
2.3. Tale possibilità incontra, però, due limiti:

in violazione di espressi divieti di legge (art. 291 cod.proc.pen.) come ad
esempio intercettazioni captate illegalmente (art. 271 cod.proc.pen.: sul punto
Sez. U, n. 1153 del 30/10/2008, dep. 13/01/2009, Racco, Rv. 241667);
– il secondo è costituito dalla verifica che gli elementi di prova acquisiti nelle
indagini e da utilizzare nel procedimento riparatorio, non siano smentiti (non
semplicemente non confermati) inequivocabilmente da acquisizioni del processo
dibattimentale. In tal caso, infatti, la verità acclarata nel pieno contraddittorio tra
le parti deve avere la prevalenza sulle acquisizioni probatorie captate nella fase
inquisitoria.

3. Con particolare riguardo al comportamento anteriore alla perdita della
libertà personale indicato nel provvedimento impugnato, le censure mosse dal
ricorrente risultano infondate, in quanto la Corte territoriale si è attenuta ai
principi di cui sopra, avendo posto a base della pronuncia di rigetto della
riparazione la condotta del ricorrente, indicata come fatto storico accertato nel
giudizio penale, concretata dal fatto che si accompagnasse assiduamente a
persone coinvolte in diversi furti ed in una rapina. Mette conto sottolineare che le
doglianze mosse con riferimento a tale preciso elemento fattuale tendono a porre
in discussione la valutazione operata dal giudice della riparazione degli atti
istruttori acquisiti nel procedimento penale in quanto i medesimi atti sarebbero
stati giudicati insufficienti a fondare un giudizio di colpevolezza, ignorando il
costante indirizzo giurisprudenziale, affermato da questa Corte anche a Sezioni
Unite (Sez. U n. 43 del 13/12/1995, dep. 09/02/1996, Sarnataro, Rv.203638),
per cui, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, è
necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del
processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua
commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della
riparazione, il quale, pur dovendo eventualmente operare sul medesimo
materiale, deve seguire un percorso logico-motivazionale del tutto autonomo,
essendo suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno
4

– il primo è costituito dalla inutilizzabilità patologica di atti probatori assunti

reato, ma se queste condotte si siano poste come fattore condizionante alla
produzione dell’evento ‘detenzione’; in relazione a tale aspetto della decisione
tale giudice ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel
processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno
delle condizioni dell’azione, sia in senso positivo che negativo, compresa
l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione
(Sez. 4, n. 27397 del 10/06/2010, Rv. 247867; Sez. 4, n.23128 del 22/10/2002,
dep. 27/05/2003, Iannozzi, Rv. 225506); tale valutazione costituisce attività

esclusi dal giudice del processo penale, non è sindacabile in sede di legittimità.
3.1. La Corte territoriale si è, peraltro, attenuta al principio interpretativo,
già affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le
frequentazioni ambigue, ossia quelle che si prestano oggettivamente ad essere
interpretate come indizi di complicità, quando non sono giustificate da rapporti di
parentela, e sono poste in essere con la consapevolezza che trattisi di soggetti
coinvolti in attività illecite, possono dare luogo ad un comportamento
gravemente colposo idoneo ad escludere la riparazione stessa (Sez.3, n. 363 del
30/11/2007, dep. 08/01/2008, Pandullo, Rv. 238782).

4. La motivazione risulta completa anche sotto il profilo del riferimento al
comportamento endoprocessuale dell’istante che, nell’interrogatorio di garanzia
reso dinanzi al Giudice per le indagini preliminari il 22/01/2004, si è avvalso
della facoltà di non rispondere non consentendo, ad avviso della Corte
territoriale, di chiarire la sua posizione e in particolare i suoi rapporti con gli altri
coimputati.
4.1. Giova sottolineare, in proposito, che questa Suprema Corte ha, sin dal
2001, affermato il seguente principio di diritto: “In caso di richiesta di
riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice deve tenere conto anche della
condotta del ricorrente successiva all’esecuzione del provvedimento restrittivo e,
pur nel rispetto del diritto di costui a non rendere dichiarazioni, può
legittimamente ritenere che la circostanza di non avere il ricorrente risposto in
sede di interrogatorio e non fornito spiegazioni su circostanze obiettivamente
indizianti abbia contribuito alla formazione del quadro indiziario che ha indotto i
giudici della libertà all’applicazione e alla protrazione della custodia” (Sez. 4,
n.2154 del 9/05/2001, Bergamin, Rv. 219490). Tale posizione ha trovato
conferma in altre pronunce della Corte, secondo cui il silenzio dell’imputato su
circostanze non altrimenti acquisibili o, a maggior ragione, il suo mendacio
integrano gli estremi di quella colpa che, ai sensi dell’art. 314, comma 1,
cod.proc.pen., esclude il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione (Sez. 4,
5

riservata al giudice del merito e, ove non contrastante con fatti accertati o

n.956 del 24/03/1998, Longo, Rv.210632), sul presupposto che il
comportamento mendace dell’imputato, sebbene rientri nel diritto di difesa,
come oggetto di scelta di linea difensiva, non può però giustificare la domanda di
riparazione, se proprio dal comportamento mendace sia derivata la conferma o la
protrazione della custodia cautelare. Principi contrari sono stati affermati nella
giurisprudenza della Corte, laddove si è affermato che un comportamento che si
configuri come espressione del diritto di difesa e di libertà non può al contempo
essere qualificato illegittimo nella particolare prospettiva della riparazione per

Sez. 4, n.2758 del 05/05/2000. PG in proc. Minino L., Rv. 217429), ma è bene
evidenziare che tali principi sono stati affermati con riguardo al comportamento
dell’indagato datosi alla fuga o resosi irreperibile. Con specifico riguardo alla
condotta di mendacio, tenendo presente il principio enunciato dalla Corte a
Sezioni Unite, in base al quale la valutazione dei comportamenti successivi alla
conoscenza da parte dell’indagato del procedimento a suo carico deve essere
effettuata con particolare cautela, dovendosi sempre, e con adeguato rigore,
avere rispetto per le strategie difensive che abbia ritenuto di adottare (quale che
possa esserne la ragione) chi è stato ingiustamente privato della libertà
personale (Sez. U n. 43 del 13/12/1995, dep. 09/02/1996, Sarnataro,
Rv.203638), le successive pronunce hanno, però, chiarito che il silenzio, la
reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo
esercizio del diritto di difesa, possono rilevare sotto il profilo del dolo o della
colpa grave nel caso in cui egli sia in grado di indicare specifiche circostanze, non
note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di
escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede
investigativa, che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare (Sez.
4, n.4159 del 09/12/2008, dep. 28/01/2009, Lafranceschina, Rv.242760).
Anche in un’ottica di cauto apprezzamento del comportamento endoprocessuale
dell’indagato, si è comunque ritenuto che il comportamento silenzioso o mendace
sia rilevante quale condotta ostativa alla riparazione dell’ingiusta detenzione,
poiché il diritto all’equa riparazione presuppone una condotta dell’interessato
idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a
lui note, che contrastino l’accusa, o vincano ragioni di cautela (Sez.4, n.7296 del
17/11/2011, dep.23/02/2012, Berdicchia, Rv.251928; Sez.3, n.44090 del
9/11/2011, Messina, Rv.251325; Sez. 4, n.40291 del 10/06/2008, Maggi, Rv.
242755; Sez. 4, n.15140 del 24/01/2008, Caria, Rv.239808), pur non
mancando, effettivamente, pronunce di segno contrario, con riferimento al solo
comportamento silenzioso o reticente (Sez.4, n.26686 del 13/05/2008, Marras,
Rv.240940; Sez.4, n.43309 del 23/10/2008, P.G. in proc. Bodaj, Rv.241993).
6

ingiusta detenzione (Sez.4, n.1745 del 03/06/1998, Ben Salah A., Rv. 211648;

4.2. Con specifico riferimento alla strategia difensiva adottata
dall’interessato nel corso del procedimento, non vi è dubbio, dunque, che anche
la condotta difensiva possa essere oggetto di valutazione per la individuazione
della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo e che, in
particolare, il silenzio possa di per sé rappresentare, in un determinato contesto
indiziario, condotta tendente ad indurre in errore l’autorità giudiziaria procedente
piuttosto che espressione di una particolare linea difensiva.
4.3. L’impugnata ordinanza ha fatto buon governo dei principi interpretativi

nei confronti dell’autorità giudiziaria, ritenuta logicamente causa determinante
del mantenimento della misura custodiale in presenza di atti d’indagine di grave
valore indiziario.

5. Particolare attenzione merita, quindi, la doglianza in base alla quale la
pronuncia assolutoria sarebbe stata emessa sulla base del medesimo compendio
istruttorio già valutato dal giudice della cautela, evocandosi sul punto
l’insegnamento di questa Corte, che esclude in simile ipotesi la possibilità per il
giudice della riparazione di valutare la sussistenza della condizione ostativa del
dolo o della colpa grave (Sez. U, n.32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio,
Rv. 247663).
5.1. Ma, nel rispetto dei principi di specificità e di autosufficienza del ricorso,
il ricorrente avrebbe dovuto riportare nell’atto o allegare gli atti ivi menzionati,
onde consentire a questa Corte di verificare su quali presupposti i provvedimenti
stessi fossero stati emessi, tanto più a fronte della specifica indicazione,
nell’ordinanza impugnata, del fatto che la pronuncia assolutoria era stata emessa
all’esito della deposizione testimoniale di un agente di polizia giudiziaria.
5.2. Il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e
diretta del fatto processuale qualora venga dedotto un error in procedendo, non
comporta, infatti, il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal
codice di rito per la proposizione del ricorso per cassazione. Ciò vuol dire che,
pur trattandosi di motivo di natura processuale in relazione al quale alla Corte di
Cassazione è consentito esaminare gli atti del fascicolo processuale al fine di
verificare il fondamento dell’eccezione proposta, l’applicazione concreta di questo
principio presuppone che venga quanto meno specificamente indicato l’atto dal
quale si ritiene derivino conseguenze giuridiche o quello che sia affetto dal vizio
denunziato e che l’atto da esaminare sia contenuto nel medesimo fascicolo. Se
invece questa indicazione non viene fornita o, seppur fornita, l’esame
dell’eccezione richieda l’acquisizione di atti o documenti o notizie di qualsiasi 4/
genere che non formano parte del fascicolo del processo deve ritenersi, nel
7

sopra esposti, identificando nel silenzio la condotta scorretta tenuta dall’indagato

primo caso, che il motivo sia inammissibile per genericità, non consentendo al
giudice di legittimità di individuare l’atto affetto dal vizio denunziato; nel secondo
caso, che costituisca onere della parte richiederne l’acquisizione al giudice del
merito, se il problema si pone in questa fase, ovvero produrlo nel giudizio di
legittimità nei casi in cui la Corte di Cassazione sia anche giudice del fatto.
Diversamente verrebbe attribuito al giudice di legittimità un compito di
individuazione, ricerca e acquisizione di atti, notizie o documenti del tutto
estraneo ai limiti istituzionali del giudizio proprio della funzione (Sez. U, n. 39061

Bellocco, Rv.244039; Sez.4, n.25310 del 07/04/2004, Ardovino, Rv. 228953).

6. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; al rigetto consegue, a
norma dell’art.616 cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali nonché delle spese in favore del Ministero dell’Economia e
delle Finanze, liquidate in complessivi euro 1.000,00.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze le
spese sostenute per questo giudizio che liquida in complessivi euro 1.000,00.
Così deciso il 29/05/2014

del 16/07/2009, De brio, Rv.244328; Sez. 1, n. 26492 del 09/06/2009,

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