Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28091 del 07/05/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 28091 Anno 2013
Presidente: BEVERE ANTONIO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAIOLO MARIO TONINO N. IL 13/06/1991
avverso l’ordinanza n. 2203/2012 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del
09/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 07/05/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Giovanni D’Angelo, ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
per il ricorrente è presente l’avv. Paola Armellin, in sostituzione dell’avv. Metello
Scaparone, che chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

riesame e ha confermato l’ordinanza 10.10.2012 del Gip del medesimo Tribunale,
applicativa della misura cautelare della custodia in carcere a Maiolo Mario Tonino, in
ordine al reato ex art. 416 bis, commi da 1 a 5 c.p., perché accusato di far parte,
insieme ad altre persone, tra cui tra cui tra cui il padre Pasquale, dell’associazione
mafiosa denominata ‘ndrangheta, operante sul territorio piemontese ed avente
propri referenti in strutture organizzate insediate in Calabria – i cui componenti
sono sottoposti a procedimento giudiziario, svolto dall’A.G. di Reggio Calabria costituita da articolazioni territoriali denominate “locali”, tra cui locale di Nichelino,
di Chivasso e di Livorno Ferraris (in cui è inserito il Maiolo).
Questa associazione, secondo gli inquirenti, avvalendosi della forza di intimidazione
del vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di
omertà, ha lo scopo di commettere delitti in materia di armi, esplosivi e
munizionamento, contro la vita e l’incolumità fisica, contro il patrimonio, contro
l’ordine pubblico economico, nonché reati volti ad ostacolare il libero esercizio del
voto.
2. Il presente procedimento nasce da indagini, che sono state dagli inquirenti
denominate “Colpo di coda”, aventi ad oggetto il locale di Chivasso – la cui
emanazione è il locale Livorno Ferraris – e costituiscono lo sviluppo delle indagini,
denominate “Minotauro”, aventi ad oggetto gli insediamenti della ‘ndrangheta nel
Torinese e nei territori limitrofi.
In entrambi i procedimenti nati da queste indagini, gli inquirenti hanno riconosciuto
a un dato fattuale (la raccolta di denaro destinato ai detenuti) l’efficacia
dimostrativa della partecipazione, da parte di chi vi presenzi come operatore o
come beneficiario, all’associazione predetta, nelle sue varie articolazioni.
3. Il difensore del Maiolo ha presentato ricorso, affidato a due motivi.
3.1 In primo luogo egli deduce violazione di legge in riferimento agli artt. 273 c.p.p.
e 416 bis c.p. e vizio di motivazione. A suo giudizio, anche dopo la modifica della
fattispecie intervenuta con il decreto legge n. 4/2000, la pubblica accusa deve
continuare a dimostrare in concreto l’impiego del metodo intimidatorio. In concreto
egli evidenzia l’illogicità dell’assunto secondo cui l’organizzazione criminale,
2

1. Con ordinanza del 9.11.2012, il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta di

individuata nell’articolazione territoriale del “locale di Livorno Ferraris”, deriverebbe
la sua capacità intimidatoria dalla complessiva associazione ‘ndrangheta, poiché
questa è caratterizzata da assoluta segretezza, anche interna, circa l’identità degli
affiliati, per cui è impossibile che i cittadini siano in condizione di assoggettamento
ed omertà rispetto a una struttura di potere della quale non conosce l’esistenza.
Quanto alla partecipazione del clan alle elezioni, si osserva che questa è consistita
nell’appoggiare la candidatura di una persona legata ad alcuni cittadini da vincoli
proscenio politico nazionale.
3.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in riferimento agli
artt. 273 c.p.p. e 416 bis c.p. e vizio di motivazione in ordine alla partecipazione del
Maiolo al “locale” di Livorno Ferraris. Secondo il ricorrente, gli specifici elementi
emersi nel corso delle indagini (quali, ad esempio, la partecipazione con il padre
Maiolo Pasquale ad incontri dall’oggetto ignoto; la ricezione di modeste somme di
denaro in favore di Maiolo Pasquale, detenuto; le conversazioni con familiari estranei all’associazione – nelle quali egli avrebbe dimostrato di conoscere l’identità
di altri appartenenti al sodalizio; una conversazione con un agente della polizia
municipale) non sono assolutamente dimostrativi del suo inserimento
nell’associazione e sono stati male interpretati dal giudice del riesame.
3.3 In definitiva non sarebbero mai emerse – nemmeno nel procedimento principale
“Minotauro” – contatti, relazioni, partecipazioni a riunioni, frequentazioni di persone
o ambienti criminali, né alcuno dei cd. indicatori fattuali evidenziati dalle Sezioni
Unite nella nota sentenza “Mannino” (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino,
Rv. 231670), dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza, possa
logicamente inferirsi la appartenenza, quali, esemplificando, i comportamenti tenuti
nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura
della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici,
e però significativi “facta condudentia”, idonei senza alcun automatismo probatorio
a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale
riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e pertanto va rigettato.
1.1 Va premesso che la richiesta di riesame, come mezzo di impugnazione, sia pure
atipico, ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza
cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 c.p.p. e ai
presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo. Ne
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amicali, con metodi ortodossi e con finalità comuni a quelle emergenti dal generale

consegue che la motivazione della decisione del Tribunale del riesame, dal punto di
vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo,
ispirato al modulo di cui all’art. 546 c.p.p., con gli adattamenti resi necessari dal
particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi
e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata
probabilità di colpevolezza. In questa chiave di pre-certezza del risultato degli
accertamenti dell’autorità inquirente – non necessariamente sfociante in una
motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla
consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, per partecipazione ad associazione
mafiosa, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla
peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il
giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto
ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la
congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti
rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento
delle risultanze probatorie.
1.2 Come è noto, la forma libera che caratterizza la fisionomia del reato associativo
e la mancata tipizzazione della relativa condotta di appartenenza conducono e
ritenere che la tipicità di questo modello associativo risiede solo nella modalità
attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente, modalità che si esprime
nel concetto di “metodo mafioso”, individuato nella forza intimidatrice del vincolo
associativo, nella condizione, di assoggettamento generale dei consociati e specifico
delle vittime, in una determinata parte del territorio e della società, nonché nelle
imprescindibili strutture (offensive e difensive) funzionali a rendere operativa senza soluzione di continuità e senza irrecuperabili flessioni – la gestione
dell’egemonia economica, politica e di costume, nella propria area di competenza.
Secondo la comune esperienza, il generale fenomeno mafioso si manifesta nella
proliferazione, autonoma o geneticamente derivata da altre associazioni
preesistenti, di articolazioni territoriali, nel cui ambito i vari gruppi criminosi entrano
in rapporto di cooperazione, di concorrenza, di conflittualità
Un gruppo avente natura di associazione mafiosa si presenta quindi caratterizzato,
nella consolidata storiografia giudiziaria nel campo mafioso, da un nucleo di
associati, da un programma criminoso, da una proiezione territoriale della propria
forza intimidatrice, da una o più tipologie di condotte lecite e illecite, svolte in un
molteplice fronte, in cui le adesioni e le collusione sono accompagnate da avversari
e contrapposizioni insanabili. In questa proiezione collettiva e corale alla
commissione di fatti criminosi, che possono infrangere sia le norme dello Stato sia
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progressiva certezza – allorché sia denunciato, con ricorso per cessazione, vizio di

gli interessi di associazioni concorrenti (per materia e per territorio) hanno
acquistato rilievo – agli occhi dei consociati e conseguentemente all’attenzione degli
inquirenti dello Stato – vincoli di fedeltà, di reciproca assistenza tra gli adepti
dell’associazione, operanti – oltre che nello scontro con i gruppi contendenti – nello
scontro, perdente, con il potere repressivo dello Stato, esercitato con i
provvedimenti, processuali o definitivi, di privazione della libertà personale di alcuni
aderenti.
rivincita della legge penale, ha messo in luce – nei processi aventi ad oggetto il
crimine associativo – un dato patrimoniale utile ai fini dell’individuazione
dell’associazione della ricostruzione del rapporto intercorrente tra gli indagati e
l’associazione medesima: la inclusione dei primi tra i retribuiti con i profitti
criminali. Tale circolazione di denaro – in nome della solidarietà e della resistenza
alla legalità – ha condotto razionalmente, all’interno della ormai consolidata
storiografia giudiziaria – alla considerazione che trattasi della corresponsione al
detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
maflosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti, sia pure con limitata
potestà di azione.
1.4 Proprio il suindicato aspetto organizzativo di difesa mafiosa (la presenza degli
indagati nella raccolta e nella distribuzione di denaro, in funzione di riparazione dei
guasti creati dall’intervento punitivo dello Stato) ha ottenuto dai magistrati del
presente procedimento il riconoscimento di dato illuminante della sussistenza
dell’associazione mafiosa e della partecipazione ad essa dei ricorrenti, così come è
stato delineato nel capo di imputazione. Tale circolazione di denaro ha portato il Gip
e il Tribunale del riesame alla considerazione che trattasi della corresponsione al
detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti.
Il Tribunale del riesame di Torino ha quindi confermato la razionale considerazione,
secondo cui la presenza di alcuni indagati tra i partecipi alla raccolta e alla
distribuzione del fondo solidarietà detenuti abbia efficacia indiziaria della
partecipazione, da parte dell’operatore o del beneficiario, all’associazione predetta,
nelle sue varie articolazioni, anche perché la raccolta di denaro non è giustificata da
solidarietà familiare, in quanto gli inquirenti dimostrano di aver accertato che i
versamenti sono stati effettuati da persone che non sono legate da rapporti di
parentela ai beneficiari. In base alle dichiarazioni di collaboratori, di cui è stata
verificata l’affidabilità, gli inquirenti hanno raggiunto il convincimento che sussiste
5

1.3 Questo aspetto organizzativo dell’associazione mafiosa di difesa, rispetto alla

l’obbligo degli aderenti di aiutare economicamente la famiglia, i cui componenti
sono detenuti; da questo dato gli inquirenti hanno tratto la seguente
considerazione: se partecipare alle attività di sostegno dei consociati in carcere
costituisce un preciso obbligo di quelli liberi, ne consegue che tutti coloro che senza essere indicati come soggetti di distinti rapporti definiti altri con
l’associazione – abbiano partecipato ad una colletta, sono consociati.
1.5 Secondo l’ordinanza impugnata Maiolo Mario Tonino, figlio di Pasquale,
Minotauro, all’esito di giudizio abbreviato, faceva parte del nuovo “locale” di Livorno
Ferraris, operante dal i ottobre 2009 e del quale era a capo il padre.
Egli in più occasioni ha ricevuto il denaro che gli altri sodali versavano in favore del
padre detenuto, a seguito dell’arresto, avvenuto il giorno 8 giugno 2011 e dimostra
di

conoscere bene il significato di quei contributi (intercettazione della

conversazione con Vincenzi Lino, il 29 luglio 2011); in proposito l’ordinanza del
Tribunale del riesame afferma che “La colletta deve intendersi inequivocabilmente
indicatore fattuale, da quale desumere la compenetrazione di tutti i partecipi nel
tessuto organizzativo associativo e, al tempo stesso, prova dell’a ffiliazione, in
quanto i non associati, per quanto legati da stretta amicizia, non vi possono essere
ammessi” (pagina 25). L’obbligatorietà di contribuire alla raccolta di fondi, a scopo

assistenziale (a beneficio materiale e morale dei detenuti, che percepiscono la
persistenza, nonostante l’esilio carcerario, del rapporto dare/avere con
l’associazione) è affermata anche da Mihaela Andreea Sorocaniuc (legata al sodale
Cavallaro Ferdinando e profondamente inserita nel costume e nelle regole del clan),
nelle dichiarazioni del 27 ottobre 2012, a proposito della regola, gravante sugli
“amici”, dell’aiuto economico in favore dei familiari del detenuto (pagina 24
dell’ordinanza).
1.6 Altri elementi fortementi indizianti sono stati indicati nel rinvenimento, nella sua
camera da letto, in occasione della esecuzione del titolo custodiale a carico del
padre, delle formule iniziatiche riguardanti le modalità di costituzione del nuovo
“locale” e dell’attribuzione di doti della ‘ndrangheta; nel fatto che egli è spesso in
compagnia del padre, quando si tratta di questioni che riguardano il sodalizio
criminoso; nell’intercettazione del 22 novembre 2011, in un colloquio con Vincenzo
Franzè, allorchè egli confida di essere l’unico figlio che segue il padre nella sua
attività criminale; nella conversazione con lo zio paterno Cosimo Maiolo, laddove
dimostra una conoscenza specifica dei quadri dell’organizzazione, che solo un
membro del sodalizio può possedere.
Estremamente significativo, infine, è il colloquio con un ausiliario del traffico davanti
al Bar “Timone”, intercettato il 24 novembre 2011, chiuso in seguito all’arresto del
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condannato in primo grado alla pena di cinque anni di reclusione nel procedimento

titolare Giovanni Vadalà ed al conseguente sequestro, nel quale il Maiolo diffida
l’uomo dall’elevare verbali di contestazioni, perché “Giovanni ha lasciato detto che
qua di non toccare!” e per il futuro “Te lo dico io…!”.
2. Il discorso giustificativo sviluppato nell’ordinanza risponde pienamente alle
esigenze di completezza e di consequenzialità logica sulle quali si esercita il
controllo di legittimità nel giudizio di cessazione. Con ciò resta soddisfatto l’obbligo
di motivazione, costituendo un principio consolidato nella giurisprudenza di
ogni singola argomentazione svolta nei motivi d’impugnazione, ma deve soltanto
esporre, con ragionamento corretto sotto il profilo logico- giuridico, i motivi per i
quali perviene a una decisione difforme rispetto alla tesi dell’impugnante,
rimanendo implicitamente non condivise, e perciò disattese, le argomentazioni
incompatibili con il complessivo tessuto motivazionale (Sez. 4, n. 26660 del
13/05/2011, Caruso, Rv. 250900; Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv.
250105; Sez. 4, n. 1149/06 del 24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187).
Sotto questo profilo deve ritenersi che le censure sollevate con il secondo motivo di
ricorso, dietro l’apparente denuncia di vizi della motivazione, tendono a sollecitare
un riesame del merito – non consentito in sede di legittimità – attraverso la
rinnovata valutazione degli elementi indiziari acquisiti.
2.1 Peraltro non si deve dimenticare che ci troviamo oggi non in una fase
dibattimentale, ma nell’ambito di una discussione che investe il potere cautelare
dell’autorità giudiziaria; il che significa che la valutazione degli indizi di colpevolezza
deve essere condotta con minor rigore rispetto a quanto deve avvenire nell’ambito
del giudizio di condanna.
Trattasi di affermazione che trova la sua fonte normativa dell’articolo 273 del codice
di procedura penale che, al comma uno bis, richiama i commi 3 e 4 dell’articolo 192
e non invece il numero due, che richiede una particolare qualificazione degli indizi
(non solo gravi, ma anche precisi e concordanti). Anche questa corte (Sez. 4, n.
37878 del 06/07/2007, Cuccaro, Rv. 237475) ha già ricordato che in tema di
misure cautelari personali, la nozione di “gravi indizi di colpevolezza” di cui all’art.
273 c.p.p. non si atteggia allo stesso modo del termine “indizi” inteso quale
elemento di prova idoneo a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza, che
sta a indicare la “prova logica o indiretta”, ossia quel fatto certo connotato da
particolari caratteristiche (v. art. 192, comma 2, c.p.p.), che consente di risalire a
un fatto incerto attraverso massime di comune esperienza. Per l’emissione di una
misura cautelare è quindi sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a
fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in
ordine ai reati addebitatigli. Gli indizi, dunque, ai fini delle misure cautelari, non
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legittimità quello per cui il giudice del gravame non è tenuto a prendere in esame

devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito
dall’art. 192, comma 2, c.p.p..
3. Quanto al primo motivo di ricorso, deve rilevarsi che la nascita della nuova
articolazione territoriale di Livorno Ferraris è desunta da una serie di incontri, a
molti dei quali partecipò anche l’odierno indagato (il 1 ottobre 2009, a casa di
Pasquale Maiolo; il 2 ottobre 2009; il 30 ottobre 2009, presso il bar Timone, il 5
novembre 2009, nell’ospedale San Giovanni Bosco in visita a Pasquale Trunfio; il 17

durante le quali Maiolo Pasquale è chiamato “u mastru” da coloro i quali si ritiene
fossero i suoi subordinati (Caglioti Giuseppe, Cavallaro Bruno, Cavallaro
Ferdinando, Cavallaro Salvatore, Gallone Beniamino e appunto Maiolo Mario
Tonino).
3.1 La difesa contesta la sussistenza del metodo intimidatorio del “locale” di Livorno
Ferraris, a suo a suo giudizio non desumibile dalla complessiva associazione
‘ndrangheta, poiché questa è caratterizzata da assoluta segretezza, anche interna,
circa l’identità degli affiliati, per cui è impossibile che i cittadini siano in condizione
di assoggettamento ed omertà rispetto a una struttura di potere della quale non
conosce l’esistenza.
3.2 In proposito l’ordinanza, richiamando una precedente decisione di questa Corte
relativa proprio alla ‘ndrangheta in località piemontesi (Sez. 2, n. 4304 del
11/01/2012, Romeo, Rv. 252205) precisa che “la capacità intimidatoria del locale di
Chivasso e del locale cosiddetto di Livorno Ferraris non è solo quello che promana
dal vincolo associativo dei rispettivi associati, ma anche quello della `ndrangheta di
Torino alla quale i due locali sono collegati attraverso il crimine e l’istituenda
provincia, ma, soprattutto con la `ndrangheta calabrese alla quale sono legati
attraverso i rispettivi referenti, attraverso una delle tre province di appartenenza ed
attraverso il

crimine della montagna”.

Dalle parole di Marino Pietro

nell’intercettazione ambientale del 12 ottobre 2012 si desume che le due
organizzazione devono rendere conto del loro operato sia al crimine di Torino, sia a
quello di San Luca.
3.3 Il gruppo criminale piemontese, operante fuori dalla Calabria, costituisce,
quindi, un’articolazione del gruppo calabrese della

‘ndrangheta,

con proprie

strutture e specifiche finalità, connotate da autonomia rispetto alla Indrangheta
calabrese, facendosi carico, tra l’altro, dei sodali arrestati e delle rispettive famiglie.
Le modalità di costituzione e i comportamenti evidenziati nell’ordinanza impugnata
consentono di ritenere accertato che l’associazione piemontese abbia conseguito, in
concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione,
anche se non ancora estrinsecata nelle commissione di reati fine e anche se non

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gennaio 2011, il 6 febbraio 2011, il 21 febbraio 2011, in una cascina di Santhià) e

ancora in pieno percepita nell’area geografica operativa, risultando evidente che
l’organizzazione avesse in progetto proprio la realizzazione di reati fine.
È infatti possibile configurare un sodalizio criminale di stampo mafioso autonomo,
pur in mancanza di compimento di reati satellite, come nella fattispecie, laddove,
come nel caso di specie, il gruppo mutua il metodo mafioso da stili comportamentali
in uso a clan operanti in altre aree geografiche, essendosi radicata “in loco” con
quelle peculiari connotazioni, perpetrando in altro contesto spaziale le stesse
3.4 Questa Corte ritiene configurabile il reato associativo in presenza di una mafia
silente, purchè l’organizzazione sul territorio, la distinzioni di ruoli, i rituali di
affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino
concretamente presagire, come nella fattispecie in esame, la prossima realizzazione
di reati fine dell’associazione, concretando la presenza del “marchio” (‘ndrangheta),
in una sorta di franchising tra “province” e “locali” che consente di ritenere
sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico che costituisce la ratio del
reato di cui all’ari. 416 bis c.p..
3.5 La forza di intimidazione e lo stesso metodo mafioso del “locale” piemontese
della ‘ndrangheta sono stati individuati in una serie di episodi e circostanze: a) i
rituali attraverso cui avviene l’affiliazione e la promozione dei diversi ruoli all’interno
dell’associazione mafiosa (le formule iniziatiche sono satte trovate proprio nella
camera da letto del Maiolo, in occasione dell’arresto del padre), b) la conversazione
tra Marino Pietro ed il figlio Antonino, in data 9 novembre 2011, avente ad oggetto
il programma di incendiare l’auto del colpevole di uno sgarbo a Nicola (pagina 26
dell’ordinanza), con finalità educativa individuale e sociale. Traducendo il lessico
familiare dei Marino, l’incendio deve insegnare che dinanzi all’ordine che vige a
Chivasso, esiste una secca alternativa: osservare le regole locali o cambiare
territorio; c) la conversazione tra Marino Pietro e Fallisci Giuseppa Rita, detta Pina,
a lui legatq,da una relazione sentimentale, nella quale l’uomo suggerisce alla donna
di fare il suo nome per non avere più fastidi dal compagno e da altre due persone
(“fagli il mio nome e vedi che ti lasciano in pace”); d) l’attività di mediazione di

Cavallaro Salvatore, che riesce a far calare le richieste fatte ad un suo amico in una
controversia di lavoro da 27.000 a 4300 euro, solo con il suo intervento; e) la
richiesta di Cavallaro Ferdinando, all’amico Spinella Saverio, in ordine alla presenza
di suoi amici in un condominio, prima di prendere a schiaffi un condomino che
disturba un suo amico, onde evitare di colpire persone dell’organizzazione; f) il
racconto di Mihaela Andreea Sorocaniuc (sentimentalmente legata al sodale
Cavallaro Ferdinando), dell’intimidazione subita dal Cavallaro per punire la sua
intenzione di voler interrompere la relazione, facendo bruciare da una persona
9

metodiche comportamentali.

venuta appositamente dalla Calabria l’auto che l’uomo le aveva donato; g) il
colloquio con l’ausiliario del traffico davanti al Bar “Timone”, intercettato il 24
novembre 2011, dell’odierno indagato, dal quale emerge concretamente la capacità
intimidatoria dell’associazione e del Maiolo.
3.6 Va poi considerato il comportamento dei due

locali in occasione delle

consultazioni elettorali nella primavera del 2011 a Chivasso, con il sostegno dato a
Gallone Beniamino: in proposito Maiolo Pasquale, allora capo del locale di Livorno
chiarisce che sono i capi dei locali a decidere chi si candida, non il partito, né il
capolista.
Più in generale deve osservarsi che un’importante connotazione di questo tipo di
associazione criminale è costituito – alla luce di accertamenti conseguiti con
efficacia di giudicato – dell’inquinamento della democrazia degli enti territoriali:
nelle parti del territorio nazionale, in cui il contropotere mafioso abbia acquistato
una crescente forza espansiva, alcuni componenti degli organi deliberativi ed
esecutivi si sono trasformati da rappresentanti di legittimi interessi della base
elettorale, in rappresentanti di illegittimi interessi dei manovratori degli elettori.
Molti cittadini, titolari del diritto al voto, sono stati snaturati a meri utenti di scheda
elettorale, da inserire nel circuito commerciale, gestito dall’organizzazione
criminale. Si assiste così – in alcune parti del Paese – al paradosso della democrazia
rappresentativa: questa diventa strumento di rafforzamento della sopraffazione e
della tirannia dei poteri mafiosi, i quali, grazie alle azioni di determinati eletti, si
espandono dal territorio all’interno delle istituzioni e, da queste, si ripresentano con
maggiore autorevolezza e maggiore forza di attrazione tra i consociati.
Oggetto dell’accordo sono i voti fatti confluire dalla mafia verso l’eletto e l’impegno
di questi di sdebitarsi, assumendo specifiche iniziative amministrative e favorendo
specifici personaggi, in violazione delle regole giuridiche e in conformità alle regole
del più forte.
3.7 Questo aspetto direttamente politico del fenomeno mafioso (espresso
nell’inquinamento della democrazia rappresentativa negli enti pubblici territoriali) e
l’inquadramento in esso del comportamento di alcuni indiziati, sono stati evidenziati
razionalmente dall’ordinanza impugnata. Il Tribunale, confermando le
argomentazioni dell’ordinanza coercitiva, ha conseguito il convincimento alla luce
dei criteri di scelta dei canditati – avulsi da opzioni ideali o comunque di dimensione
sociale – e funzionali esclusivamente agli interessi del gruppo; ha razionalmente e
insindacabilmente ritenuto che, a monte dell’individuazione dei candidati e del
successo di taluno di essi tra i componenti dell’assemblea elettiva del comune di
Chivasso non sia previsto uno spontaneo ed autonomo consenso da parte dei

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Ferraris, nella telefonata del 7 aprile 2011 con tale Froio Andrea espressamente

cittadini, ma un accordo tra la consorteria e l’aspirante consigliere comunale, nella
prospettiva di iniziative amministrative, favorevoli a specifici personaggi, adottate
in violazione delle regole giuridiche e in conformità alle regole del più forte.
3.8 Questo convincimento sull’ingresso nell’amministrazione comunale di
componenti della Ndrangheta – inquadrato nel generale fenomeno della collusione
mafia/politica ricostruito con atti giudiziari irrevocabili – non può esser considerato
smentito dagli esiti degli accertamenti sin qui svolti, conclusi con il mancato
del titolo custodiale, nei confronti di Trunfio Bruno, indicato dall’accusa come
infiltrato mafioso nell’organo deliberativo. L’ordinanza si è limitata ad affermare la
proiezione di rappresentanti mafiosi ad esser presenti all’interno dell’assemblea,
senza attribuire ad essi il ruolo egemonizzante sull’intero funzionamento dell’organo
deliberativo – tale da giustificare l’intervento del Ministero dell’interno – e senza
attribuire l’identificazione del fenomeno, in via esclusiva, a un determinato soggetto
e alle sue vicende processuali.
4. In conclusione le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l’impostazione della
motivazione del Tribunale del riesame e non fanno emergere profili di manifesta
illogicità della stessa; il giudice di merito ha in definitiva dato adeguatamente conto
delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a
carico dell’indagato, con motivazione rispettosa dei canoni della logica e dei principi
di diritto che governano l’apprezzamento ‘delle risultanze probatorie. Il ricorso va
pertanto rigettato.
Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La cancelleria curerà gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1
ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94, comma 1 ter disp.
att. c.p.p.
Così deciso in Roma, il 7 maggio 2013
Il Presidente

Il Con igliere estensore

scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa e con l’annullamento

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