Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 28042 del 20/05/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 28042 Anno 2016
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
URSINO GAETANO GIACOMO N. IL 02/12/1971
SILVESTRO ANNALISA N. IL 01/12/1969
avverso il decreto n. 103/2014 CORTE APPELLO di CATANIA, del
23/04/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere pott. GIACOMO ROCCHI;
lette/se te le conclusioni del PG Dott. 319

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Data Udienza: 20/05/2016

RITENUTO IN FATTO

1.

Con il decreto indicato in epigrafe, la Corte di appello di Catania

confermava quello del Tribunale di Catania emesso nei confronti di Ursino
Gaetano Giacomo con il quale era stata applicata la misura di prevenzione della
sorveglianza speciale per anni uno e mesi sei con obbligo di soggiorno nel
comune di residenza, era stato disposto il pagamento di una cauzione ed era
stato confiscato un immobile sito in Tremestieri Etneo.

Gaetano affiliato all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra nella sua componente
facente capo a Tusa Lucio, con il ruolo di gestore degli affari economici della
famiglia mafiosa: pertanto, riteneva provata la pericolosità “qualificata” del
soggetto, in presenza di indizi di appartenenza del medesimo ad un’associazione
mafiosa.
Quanto alla confisca dell’immobile – intestato alla moglie di Ursino, Silivestro
Annalisa – la Corte riteneva provato che l’acquisto fosse stato effettuato con
denaro di provenienza illecita, atteso che le somme pattuite e quelle
immediatamente versate erano nettamente superiori alla disponibilità economica
annua della famiglia in quel periodo.
La Corte non riteneva provata che la provenienza della somma di lire
30.000.000 da una donazione di una parente: in effetti, non solo l’importo della
donazione era stato indicato in misura differente in due occasioni, ma l’esibizione
del libretto postale non dimostrava che la somma prelevata fosse confluita nel
patrimonio della Silivestro; inoltre, tale prelievo, effettuato il 4/7/2000, era
successivo alla stipula del contratto definitivo di acquisto dell’immobile.
Ancora, le somme percepite dall’Ursino non permettevano di pagare le rate
del mutuo stipulato per la somma di lire 70.000.000 ed, inoltre, l’immobile
costituiva una ulteriore abitazione rispetto a quella del nucleo familiare.
In definitiva, secondo la Corte territoriale, l’immobile già sequestrato era
sicuramente riconducibile ai proventi dell’attività illecita di Ursino, di cui
costituiva il reimpiego.

2. Ricorre per cassazione il difensore di Ursino Gaetano e Silvestro Annalisa.
Quanto alla misura di prevenzione personale, il ricorrente sottolinea che
Ursino è soggetto del tutto incensurato ed evidenzia che il decreto è basato
esclusivamente su un’intercettazione ambientale della quale il ricorrente aveva
dato una adeguata giustificazione, riscontrata sia sotto il profilo testimoniale che
documentale, condivisa dal Tribunale di Catania.
In un primo motivo il ricorrente deduce vizio della motivazione per la
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La Corte territoriale ripercorreva gli elementi che facevano ritenere Ursino

mancata valutazione delle argomentazioni difensive in ordine all’esatto contenuto
della conversazione intercettata.

In un secondo motivo, relativo alla confisca dell’immobile, il ricorrente, dopo
avere ricostruito il prezzo pagato e le modalità del suo pagamento, nonché l’esito
dell’istruttoria svolta in sede di appello, deduce mancanza e manifesta illogicità
della motivazione e travisamento della prova ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. e) cod. proc. pen.: la Corte non aveva tenuto conto che la caparra di lire

dell’acquisto (anni 1998 – 2000) rispetto all’epoca della presunta affiliazione di
Ursino a Cosa Nostra (2007); aveva valorizzato la circostanza che il prelievo di
lire 30.000.000 dal libretto postale era successivo al contratto definitivo senza
tenere conto che era stato chiarito che, inizialmente, erano stati consegnati
assegni postdatati.
Il ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.

3. Il Procuratore Generale, nella requisitoria scritta, conclude per la
declaratoria di inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel
giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 10, comma 3, D. L.vo 159 del 2011, avverso il decreto della
Corte di appello in materia di misure di prevenzione, sia personali che
patrimoniali, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di
legge.

Il ricorrente formula due motivi di ricorso – rispettivamente con riferimento
alla misura personale e a quella patrimoniale – richiamando espressamente il
vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. e, quindi, deducendo il
vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Come è stato ripetutamente ribadito da questa Corte, nella nozione di
“violazione di legge” rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza
di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di
precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta o la incompletezza della
motivazione (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in

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30.000.000 era stata pagata nel 1998, né aveva motivato in punto di risalenza

proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012 – dep.
21/02/2012, Chiesi, Rv. 252430; Sez. 5, n. 8434 del 11/01/2007 – dep.
28/02/2007, Ladiana ed altro, Rv. 236255).

Nel caso in esame, benché venga menzionato anche il vizio di mancanza
della motivazione, la lettura dei motivi dimostra chiaramente che il ricorrente
ritiene la motivazione esistente, tanto da censurarla analiticamente,
sottolineandone la illogicità e rimarcando presunti travisamenti della prova:

violazione di legge.

2. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese del procedimento e di ciascuno al versamento della
somma, tale ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle
Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n.
186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro 1.000 alla
Cassa delle Ammende.

Così deciso il 20 maggio 2016

Il Consigliere estensore

quindi muovendosi interamente all’interno di censure che non integrano quella di

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