Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27901 del 26/10/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 27901 Anno 2016
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Taormina Carlo, nato a Roma il 16/12/1940
avverso l’ordinanza emessa il 29/09/2014 dalla Corte di appello di Brescia
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
lette le conclusioni del Procuratore generale presso questa Corte, nella persona
del Dott. Luigi Riello, che ha richiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO
1. Il 29/09/2014, la Corte di appello di Brescia dichiarava inammissibile una
richiesta di revisione presentata dall’Avv. Carlo Taormina, in relazione ad una
sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Milano in data
09/12/2010, confermata dalla Corte di appello della stessa città il 09/05/2012 e

passata in giudicato a seguito di declaratoria di inammissibilità del successivo
ricorso per cassazione.
La Corte bresciana chiariva che:

Data Udienza: 26/10/2015

- i fatti si riferivano ad una presunta diffamazione commessa dall’Avv.
Taormina in occasione di un’intervista rilasciata al quotidiano “La Stampa”
nel luglio 2004, quando il legale (difensore di Anna Maria Franzoni, poco
prima condannata dal Gup del Tribunale di Aosta, per l’omicidio del figlio
Samuele Lorenzi) aveva sostenuto, rispondendo al giornalista che
osservava come l’accusa avesse portato elementi precisi, che “l’accusa, la
Procura è fatta da marescialli di paese che hanno anche falsificato le
prove”;

procedimento in questione (il Procuratore della Repubblica di Aosta,
Dott.ssa Maria Del Savio, ed il Sostituto Dott.ssa Cugge), che avevano
sporto rituale querela, e la lesione della loro reputazione era stata
ravvisata in particolare sullo specifico addebito della falsificazione delle
prove.
1.1 Secondo la ricostruzione operata dalla Corte di appello, l’Avv. Taormina
aveva fondato la propria richiesta di revisione in parte su prove già acquisite ma
non valutate, ed in parte su prove nuove, attraverso le quali avrebbe dovuto
risultare – nella prospettazione difensiva – come egli, nel pronunciare la frase
sopra ricordata, si fosse trovato ad esercitare un legittimo diritto di critica,
quanto meno in termini putativi. In particolare, l’istante aveva segnalato che
nel materiale fotografico curato dal RIS di Parma il 17/09/2002 risultava visibile
un frammento osseo sul lenzuolo della piccola vittima, frammento tuttavia
scomparso in altre immagini del mese successivo; parimenti non più rinvenute
erano da intendersi alcune videoregistrazioni della stanza dove era stato
commesso il delitto, e numerose fotografie che ritraevano la medesima scena.
A fronte di tali emergenze, l’Avv. Taormina aveva addotto la decisività di atti
quali una richiesta dì archiviazione, ed il successivo decreto, conseguenti ad un
esposto presentato dai coniugi Lorenzi-Franzoni sulla scomparsa dell’immagine
dell’anzidetto frammento osseo, nonché di una relazione curata nel 2006
dall’Istituto Europeo di Medicina (il cui contenuto confermava la tesi della
presunta commissione di falsi); anche i verbali delle udienze del processo
relativo all’omicidio deponevano per la scomparsa di varie fotografie, unitamente
a note della polizia giudiziaria e ad allegazioni difensive svolte in quella sede.
1.2 I giudici bresciani, tuttavia, reputavano che le prove de quibus (sia
acquisite che da acquisire) non fossero idonee a ribaltare il giudicato;
osservavano, nello specifico, che «il ricorrente, abbandonando sostanzialmente
la tesi coltivata nel processo di merito, ovvero quella di aver voluto attribuire alla
polizia giudiziaria (e non già ai magistrati della Procura di Aosta) la qualifica di
essere “marescialli di paese” e di “aver falsificato le prove”, ha essenzialmente

– il reato si assumeva commesso in danno dei magistrati titolari del

rappresentato l’eventualità che egli avesse formulato quelle accuse (ai magistrati
od ai Carabinieri) avvalendosi della scrinninante, quanto meno putativa, di cui
all’art. 51 cod. pen. (esercizio del diritto di critica), essendo venuto a conoscenza
di quelle plurime soppressioni. In tal modo, il ricorrente ha chiesto di rivalutare
la propria responsabilità […] recuperando un tema difensivo cui, peraltro, il
giudice di merito aveva già opposto la necessità che esso potesse validamente
prospettarsi soltanto allegando un “accertamento giudiziale, ancorché definitivo”
della responsabilità dolosa dei magistrati inquirenti».

perseguito e le allegazioni poste a base della richiesta, e che costituiscono parte
integrante di essa», sì da emergere ictu °cuti la manifesta infondatezza della
richiesta medesima, senza la necessità di incardinare un formale contraddittorio.
Nell’ordinanza si evidenziava, fra l’altro, che le prove dedotte avrebbero potuto
dimostrare le (già appurate) evenienze della scomparsa di alcuni elementi a suo
tempo acquisiti nel corso delle indagini, ma non certo condotte di dolosa
falsificazione riconducibili agli inquirenti, come del resto ritenuto nello stesso
decreto di archiviazione sopra richiamato. Conclusivamente, la Corte territoriale
rilevava che «l’inidoneità delle prove in questione è data dalla circostanza che il
delitto di diffamazione è stato, in definitiva, ritenuto sussistente in base al fatto
che l’accusa di aver falsificato le prove era stata formulata dall’Avv. Taormina
senza alcun fondamento probatorio individualizzante a carico dei magistrati
inquirenti. Ciò che le prove in esame non sono in grado di colmare, posto che
afferiscono essenzialmente all’oggetto delle carenze investigative e non ai
soggetti responsabili (peraltro, l’unica denuncia in proposito era stata proposta
contro i Carabinieri del RIS e non contro i magistrati della Procura di Aosta)».

2. Propone ricorso l’Avv. Carlo Taormina, con atto da lui personalmente
sottoscritto.
In via preliminare, il ricorrente segnala che nel corso del giudizio di merito diversamente da quanto risulta avere osservato la Corte di appello di Brescia la difesa aveva evidenziato non soltanto che le presunte frasi diffamatorie
riguardavano “i marescialli di paese”, e dunque la polizia giudiziaria, piuttosto
che i magistrati da cui le indagini erano state coordinate, ma si era anche
occupata di «situazioni, verificatesi nel procedimento, dimostrative, quanto meno
putativamente, della configurabilità di dati di falsità». Secondo l’Avv. Taormina,
le sentenze emesse nei suoi confronti si erano soffermate solo sul primo aspetto,
mentre il secondo era rimasto sostanzialmente non affrontato, anche con il
rigetto delle richieste istruttorie finalizzate a far acquisire il relativo materiale
probatorio. Inoltre, i giudici bresciani non avrebbero riportato con la dovuta

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La Corte di appello, quindi, rilevava una «manifesta distonia tra il petitum

esattezza il contenuto stesso dell’istanza di revisione, ad esempio nella parte
descrittiva degli atti indicati come scomparsi: in un caso, si menzionano
fotografie aventi come oggetto l’imbrattamento ematico sulla scena del crimine,
quando invece si era lamentata la sparizione di una videoregistrazione relativa al
pavimento di quella stanza; si attribuisce quindi alla difesa di avere soltanto
allegato la tesi della soppressione di più foto, senza considerare che il dato di tali
soppressioni doveva considerarsi pacificamente acclarato.
2.1 Passando ad enunciare specifici motivi di doglianza, il ricorrente lamenta

territoriale dichiarato inammissibile la richiesta di revisione all’esito di un
approfondito esame di merito, attività che invece avrebbe dovuto presupporre
l’instaurazione del contraddittorio; d’altro canto, per giungere a una declaratoria
di inammissibilità de plano sarebbe stato necessario rilevare ictu ocu/i la
manifesta infondatezza della richiesta, situazione che certamente non si verifica
nel caso di specie.
L’Avv. Taormina contesta poi la fondatezza dell’assunto – fatto proprio
nell’ordinanza impugnata – secondo cui «avendo, i giudici del processo concluso,
ritenuto che solo un “accertamento giudiziale, ancorché definitivo” potesse fare
da ragionevole sostegno al riconoscimento della esimente del diritto di critica, il
fatto, in sostanza, che non sia stata prodotta una sentenza definitiva di
accertamento di falsità commessa nel processo per l’omicidio renderebbe
improcedibile l’istanza di revisione»; secondo il ricorrente, non è invece possibile
affermare che occorra una pronuncia con forza di giudicato, quale presupposto
indefettibile per allegare putatività nell’applicazione di un’esimente.
2.2 Quest’ultimo rilievo risulta sviluppato, nelle argomentazioni della difesa,
anche al fine di sostenere la manifesta illogicità della motivazione dell’ordinanza
impugnata: il giudizio sulla esistenza di una esimente, reale o putativa, ben può
fondarsi, infatti, anche su circostanze od elementi diversi rispetto ad una
sentenza definitiva. L’Avv. Taormina rappresenta che, dinanzi alla comunque
dimostrata evenienza della soppressione di numerose fotografie, nonché della
scomparsa (per l’intero primo grado del giudizio per omicidio) di una
videoregistrazione poi riemersa durante il processo di appello, chiunque avrebbe
potuto maturare la convinzione che fossero state realizzate condotte di falso, sia
pure non connotate da dolo: fra l’altro, anche il solo mancato rinvenimento di 54
foto ritraenti il luogo del delitto non avrebbe potuto che leggersi come falso per
soppressione di atti pubblici, per quanto incolpevole.

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innanzi tutto la violazione dell’art. 634 cod. proc. pen., per avere la Corte

3. Lo stesso Avv. Taormina, in replica alla requisitoria scritta presentata dal
P.g. presso questa Corte, ha infine depositato, il 23/04/2015, ulteriori note
difensive.
Il ricorrente ribadisce che, con i motivi di revisione, erano state fra l’altro
indotte «prove nuove e sopravvenute, tra l’altro mai contestate come tali nella
presente procedura», prove consistenti in «una videoregistrazione del pavimento
della stanza in cui fu ucciso il piccolo Samuele, che era scomparsa, anzi
dichiarata inesistente nel corso del processo di primo grado e persino un attimo

– e senza spiegazione nonostante la richiesta di chiarimenti al riguardo ricomparsa nel giudizio di appello», nonché in «un gruppo di 50 foto non inerenti
ad alcun imbrattamento ematico ma alla scena del crimine in generale […],
rispetto alle quali, sempre nel giudizio di appello, si accertò che erano state
distrutte perché così confessato dai Carabinieri operanti, i quali precisarono che
eseguirono ordini superiori». Inoltre, è necessario ribadire l’esistenza di una
prova comunque appartenuta al processo di merito (la foto del frammento osseo
più volte ricordata), a sua volta certamente falsificata: il relativo documento
faceva parte della nota curata dai Carabinieri del RIS in data 17/09/2002, perciò
si tratta di una prova presente nel giudizio relativo all’omicidio, ma non ammessa
in quello afferente la diffamazione.
A questo punto, l’Avv. Taormina fa osservare che nemmeno il P.g. presso
questa Corte può negare che le circostanze nuovamente passate in rassegna
integrino «inquietanti fatti di oggettiva riconducibilità a fattispecie di falso», viste
le ripetute soppressioni e/o scomparse di atti, certamente da ascrivere agli
inquirenti: perciò, pur dovendosi affrontare separatamente il problema della
riferibilità psicologica di quelle condotte a chi ne era stato autore, si legge nello
scritto difensivo che «sul piano della riconduzione oggettiva non esisteva altra
alternativa rispetto a quella di riferirsi agli inquirenti, Procura o Marescialli di
paese, ed anzi questa aggiunta relativa ai Carabinieri stava a significare una
posizione di incertezza soggettiva in ordine a tale attribuibilità, la quale però non
poteva che volteggiare tra gli indicati organi». In altre parole, «se l’accusa è di
aver diffamato ipotizzando la falsificazione di detti atti con riferimento agli unici
soggetti possibili autori, e si fornisce la prova, non contestabile, della falsità
sotto il profilo della materialità, dell’occultamento o della soppressione, la
conseguenza pare addirittura matematica».
Il P.g. incorre invece nello stesso errore fatto proprio dalla Corte bresciana,
laddove reputa che «la prova pertinente di revisione potrebbe essere costituita
solo da una sentenza passata in giudicato sulla falsità dei documenti di cui si è
detto». Il ricorrente obietta che nella fattispecie la putatività è evocata non già

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prima dell’inizio della discussione, ed improvvisamente quanto inspiegabilmente

per la oggettività del fatto, quanto per l’attribuzione soggettiva, e che – in ogni
caso – buona parte delle condotte di soppressione ed occultamento risultano
accertate con la sentenza di condanna (irrevocabile) emessa nel processo per
omicidio; la stessa falsificazione della fotografia di cui al frammento osseo
appare affermata con chiarezza nel decreto di archiviazione sopra ricordato,
limitatosi a precisare l’impossibilità di dedurne la natura dolosa.
Argomentazioni, queste, tali da rendere comunque evidente l’error in procedendo
dei giudici bresciani, da cui risultano offerte valutazioni non compatibili con un

mero filtro di ammissibilità della richiesta di revisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso si palesa inammissibile.
1.1 E’ doveroso ricordare, in via preliminare, che secondo la giurisprudenza
di legittimità l’esame che il codice di rito riserva alla Corte di appello ai fini della
verifica della non manifesta infondatezza della istanza di revisione «deve limitarsi
a una sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro
astratta idoneità, sia pure attraverso una necessaria disamina del loro grado di
affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione
alla potenziale efficacia a incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e
sul connesso giudicato di colpevolezza»; è invece precluso alla stessa Corte di
appello, in tale fase, «una approfondita valutazione che comporti
un’anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e
fondata su prove non ancora compiutamente acquisite […], in quanto la fase di
delibazione dell’ammissibilità della richiesta di revisione ha la funzione di
accertare che la richiesta stessa sia stata proposta nei casi previsti, con
l’osservanza delle norme di legge, e che non risulti manifestamente infondata, di
modo che a detta delibazione è assegnato l’esclusivo compito del controllo
preliminare della sussistenza delle condizioni necessarie per l’avvio del giudizio di
revisione nelle forme previste per il dibattimento; tanto che detti caratteri
dell’indagine preliminare, mancante di una pronuncia rescindente della sentenza
irrevocabile, giustificano l’esclusione della instaurazione di un qualsivoglia
contraddittorio, essendo funzionali esclusivamente alla realizzazione dell’intento
pratico di porre un ragionevole argine alla presentazione di domande pretestuose
e palesemente infondate e di evitare un inutile dispendio dì attività
giurisdizionale» (Cass., Sez. VI, n. 13474 del 13/01/2010, Burgio). Le stesse

Sezioni Unite di questa Corte – sent. n. 15189 del 19/01/2012, Dander – hanno
avuto modo di precisare che il potere/dovere di dichiarare anche d’ufficio
l’inammissibilità della domanda di revisione significa pur sempre «che la legge

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“‘

consente al Giudice di provvedere con rapidità alle valutazioni preliminari, non
connotate da complessità, ma foriere di inammissibilità, sulla richiesta avanzata
dalla parte, dovendosi rimettere alla trattazione in sede di giudizio i casi
opinabili, con la garanzia del contraddittorio».
1.2 Tuttavia, se deve conseguentemente affermarsi che una penetrante
anticipazione dell’esame del merito della vicenda, come pure del carattere di
novità e di rilevanza di una dedotta acquisizione istruttoria circa il potenziale
ribaltamento dell’esito del giudizio, non appare consentita ai fini di una

valutazione del giudice impone un apprezzamento prognostico sull’esito possibile
del giudizio di revisione in base alle nuove prove: nell’economia di tale prognosi
la comparazione tra le prove acquisite e oggetto di specifico giudizio e quelle
che, pur se esistenti, non sono state apprezzate, non può essere confinata nei
termini dell’astrazione concettuale, ma deve ancorarsi alla realtà processuale e
svilupparsi in termini realistici, così da non potere ignorare evidenti segni di
inconferenza e/o inaffidabilità della prova nuova, rilevabili ictu ocu/i» (Cass., Sez.
I, n. 41804 del 04/10/2007, Francini).
Tale situazione si registra in effetti nel caso di specie, dove – come emerge
con chiarezza fino dalla sentenza di primo grado – la declaratoria di penale
responsabilità dell’imputato deriva dalla presa d’atto che le frasi da questi
pronunciate si rivolgevano non già alla polizia giudiziaria, come egli aveva inteso
ripetutamente sostenere incentrando su tale aspetto la propria linea difensiva,
bensì ai magistrati inquirenti; magistrati ai quali l’Avv. Taormina aveva
addebitato non solo scarsa professionalità (“l’accusa, la Procura è fatta da
marescialli di paese”) ma anche una condotta di dolosa precostituzione di
elementi di prova a carico di Anna Maria Franzoni, giudicata e condannata
nell’occasione in cui il legale ebbe a rilasciare le dichiarazioni di cui al capo
d’imputazione. Il Tribunale di Milano, in particolare, ricorda che prima della
lettura del dispositivo della sentenza a carico della suddetta Franzoni, era stato
presentato un esposto con il quale, a seguito di un accesso presso il RIS di
Parma da parte dei consulenti della difesa, erano state mosse specifiche critiche
alle modalità di conduzione delle attività investigative, segnatamente quanto
«alla “sparizione” di un piccolo frammento osseo dal lenzuolo coprimaterasso»;
quella circostanza, però, non giustificava le affermazioni dell’Avv. Taormina,
riportate nell’articolo di stampa, dal momento che l’esposto «poteva legittimare,
al più, la critica nella conduzione delle indagini, ma non la conclusione che,
appunto, le prove erano state “falsificate”, ciò che presupponeva, quanto meno,
un accertamento giudiziale, ancorché non definitivo. Altro è, infatti, il
rimprovero per un’asserita cattiva conduzione delle indagini, laddove si radichi in

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declaratoria di inammissibilità de plano, è anche vero, in ogni caso, che «la

elementi che abbiano un minimo di plausibilità (ciò che si risolve, in ultima
analisi, in una critica sull’operato e sulla capacità professionale dei pubblici
ministeri); altro è l’accusa, del tutto priva di fondamento, di falsificazione delle
prove, che evoca una condotta dolosa di particolare gravità, tale da integrare un
illecito penale, prima che disciplinare. Per questi motivi, non è nemmeno
ravvisabile la sussistenza putativa della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.»
(v. la motivazione della sentenza di primo grado, a pag. 7).
1.3 n passo appena riportato consente, da un lato, di rilevare la manifesta

superare un apparente equivoco in cui è incorsa l’ordinanza impugnata nello
sviluppare le proprie argomentazioni (aspetto sul quale si è soffermato lo stesso
P.g. presso questa Corte, ed al quale il ricorrente ha inteso diffusamente
replicare).
Infatti, sotto quest’ultimo profilo, che inerisce alla (ancora ribadita)
putatività della scriminante ex art. 51 cod. pen., la Corte di appello di Brescia
incorre in un mero errore materiale nel richiamare il contenuto della sentenza di
primo grado: come sopra evidenziato, il Tribunale di Milano aveva osservato che
l’assunto del difensore della Franzoni, circa la avvenuta falsificazione di dati
probatori a carico della sua assistita, avrebbe richiesto, per poter essere
plausibilmente sostenuto senza ledere la reputazione delle persone offese,
l’esistenza di “un accertamento giudiziale, ancorché non definitivo”. La Corte
territoriale, investita della richiesta di revisione, omette invece di riportare la
negazione, segnalando che l’Avv. Taormina avrebbe recuperato un tema
difensivo cui «il giudice di merito aveva già opposto la necessità che esso
potesse validamente prospettarsi soltanto allegando un “accertamento giudiziale,
ancorché definitivo” della responsabilità dolosa dei magistrati inquirenti».
Si tratta di una mera svista, anche perché, sul piano logico, il significato
eminentemente concessivo dell’avverbio “ancorché” mal si attaglierebbe con quel
senso letterale (ove l’accertamento giudiziale fosse da intendersi financo
connotato da definitività): rimangono pertanto irrilevanti le considerazioni
comunque svolte in proposito dal Procuratore generale in sede di requisitoria
scritta, sul – diverso – problema della possibilità da parte del soggetto attivo del
reato di diffamazione di fornire prova liberatoria

ex art. 596 cod. pen., ed

analogamente è a dirsi circa le note di replica depositate da ultimo dal ricorrente.
Quel che rileva è, invece, che nulla poteva legittimare – quanto alle presunte
soppressioni di atti che si erano volute evidenziare – sospetti di condotte dolose
in capo a chicchessia, dovendosi ictu ocu/i escludere, dal tono delle dichiarazioni
rilasciate dall’imputato al giornalista, che l’Avv. Taormina avesse voluto
genericamente evocare comportamenti incolpevoli.

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irrilevanza delle nuove prove, oggetto della richiesta di revisione, e dall’altro di

Dalle osservazioni svolte dal Tribunale risulta d’altro canto evidente come il
tema sotteso ad una delle acquisizioni istruttorie prospettate come elemento di
novità (la mancata documentazione, nei supporti versati in atti, dell’esistenza di
un peculiare frammento osseo all’atto dei rilievi iniziali) sia stato comunque
tenuto presente dai giudici di merito nel corso del processo già definito, e
sempre nella prospettiva – coerente alla linea difensiva costantemente ribadita
dall’imputato – dell’impossibilità di inferirne che le espressioni diffamatorie non
sarebbero state rivolte ai magistrati di Aosta. Tant’è che, nella sentenza della

dell’inammissibilità del ricorso presentato dall’Avv. Taormina avverso la
pronuncia a suo tempo emessa in grado di appello, si legge che «quanto al fatto
che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del fatto che all’epoca dei fatti
vi era stato un procedimento penale a carico dei RIS di Parma, proprio per
falsificazione delle prove (dal che si doveva desumere che gli attacchi erano
diretti più contro gli organi di polizia giudiziaria che contro i magistrati della
Procura) sia sufficiente rilevare che i RIS di Parma, pur essendo ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria, sicuramente non fanno parte della Procura di Aosta
(né, d’altronde, si potrebbero qualificare come “marescialli di paese”).
L’esistenza di una coeva denuncia contro i RIS, dunque, non solo è irrilevante
nella individuazione dei soggetti componenti la Procura di Aosta, ma, come ha
osservato la Corte di Milano, neppure in linea generale spiega alcun effetto
favorevole alla linea difensiva, posto che l’aver diretto delle accuse contro i
Carabinieri di Parma non esclude che vi possano essere stati attacchi contro altri
soggetti».
Ne deriva, quale logico ed immediato corollario, che tutte le presunte
conferme alle ipotesi di ulteriori sparizioni o soppressioni (di foto od altri rilievi),
indicate dallo stesso ricorrente come emergenze del giudizio celebratosi in grado
di appello a carico di Anna Maria Franzoni, nulla potrebbero dimostrare circa
l’asserita convinzione dell’Avv. Taormina – il giorno dell’intervista a “La Stampa”,
risalente ad epoca abbondantemente anteriore – che taluno degli inquirenti si
fosse reso responsabile di condotte di falso, men che meno il Procuratore capo
od il Sostituto assegnatario del procedimento.

2. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla
sua volontà (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al versamento in
favore della Cassa delle Ammende della somma di € 1.000,00, così
equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.

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Sezione Feriale di questa Corte n. 32788 del 17/08/2012, recante la declaratoria

P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso il 26/10/2015.

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