Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27886 del 10/02/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 27886 Anno 2016
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: SCARLINI ENRICO VITTORIO STANISLAO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
QUARTA FABIO N. IL 21/07/1964
avverso la sentenza n. 261/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del
03/02/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/02/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ENRICO VITTORIO STANISLAO SCARLINI
Udito il Procuratore nerale in persona del Dott.k t+6 juitdo
che ha concluso per

Udito, per lapfte civile, l’Avv
Ud t i difensor Avv.

Data Udienza: 10/02/2016

RITENUTO IN FATTO
1 – Con sentenza del 3 febbraio 2015 la Corte di appello di Milano
confermava la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, del 5 giugno 2013, che
aveva ritenuto Fabio Quarta colpevole del delitto ascrittogli ai sensi dall’art. 217
legge fallim., per avere, quale amministratore unico della FGS s.r.l. (dichiarata
fallita il 24 novembre 2010) dalla costituzione fino alla sua liquidazione del 3
luglio 2009, aggravato il dissesto astenendosi dal richiedere il fallimento
nonostante la perdita del capitale sociale, avvenuta a partire dall’anno 2008.

documentale.
La pena era stata fissata in mesi 6 di reclusione, con le circostanze
attenuanti generiche dichiarate equivalenti alla recidiva e con la diminuzione del
rito abbreviato. Con la condanna a risarcire alla parte civile con una somma
liquidata, a titolo di provvisionale, di euro 151.722,70.
Il compendio probatorio era costituito dalle osservazioni fatte dal curatore
nel redigere la relazione prevista dall’art. 33 legge fallim.
Questi aveva avuto modo di rilevare che, dai bilanci depositati, emergeva
che la società, fin dal 2006, a seguito delle perdite patite, si era trovata con un
patrimonio netto negativo. L’imputato, allora amministratore unico, non ne
aveva preso atto ed aveva perseverato nel condurre l’attività, così maturando
altri costi ed altre perdite.
Il curatore aveva dato atto che erano stati depositati i libri contabili ma non i
libri sociali.
2 – Fabio Quarta ricorre avverso la predetta sentenza.
2 – 1 – Con il primo motivo deduce la contraddittorietà della motivazione
laddove la Corte aveva confermato il giudizio di penale responsabilità
dell’imputato.
Non si era tenuto conto delle risultanze della relazione del curatore. Questi
aveva infatti riferito che, nel corso di un incontro con il liquidatore e l’imputato,
costoro gli avevano riportato che lo stato di irreversibile crisi finanziaria era
sopraggiunto alla cessazione dei rapporti con il cliente Coop Lombardia e ciò era
avvenuto solo il 30 giugno 2009. Il curatore aveva aggiunto che non aveva
rilevato operazioni anomale e che il comportamento omissivo non pareva avere
aggravato il dissesto.
2 – 2 – Con il secondo motivo lamenta il difetto di motivazione in relazione
all’accertato nesso di causalità fra la condotta dell’imputato e l’evento del reato.
2 – 3 – Con il terzo motivo censura la contraddittorietà della motivazione in
riferimento al trattamento sanzionatorio.

1

L’imputato era stato assolto dalla diversa imputazione di bancarotta semplice

Si era realizzata una reformatio in pejus aggiungendo le pena accessorie
non applicate in prime cure.
2 – 4 – Con il quarto motivo deduce la violazione dell’art. 612 cod. proc.
pen., non essendosi la Corte pronunciata, nonostante lo specifico punto di
gravame, sulla sospensione del’esecutorietà della provvisionale e delle statuizioni
civili, in assenza della prova del danno che ne sarebbe derivato.
2 – 5 – Con le conclusioni la difesa richiede anche la rinnovazione parziale
del dibattimento, l’applicazione dei benefici di legge, il riconoscimento della

civili.
3 – Il ricorrente deposita il 25 gennaio 2016 motivi aggiunti.
3 – 1 – Con il primo motivo deduce violazione di legge, ed in particolare
dell’art. 217 legge fallim., posto che solo con il dispositivo della sentenza di
primo grado l’imputato era venuto a conoscenza del fatto che gli era ascritta la
condotta prevista dal numero 4 della norma indicata.
E, comunque, il curatore aveva ricordato la difficoltà di recupero del credito
dalla Coop Lombardia ed il fatto che nemmeno con tale recupero si sarebbe
potuto evitare il fallimento.
3 – 2 – Con il secondo motivo lamenta difetto di motivazione e travisamento
della prova in relazione agli oneri del dissesto.
Erano stati quantificati in una somma indicata dal curatore ma ne
mancavano i dettagli che avrebbero potuto essere accertati con la richiesta
integrazione probatoria.
Si ribadiva che il curatore non aveva individuato alcuna operazione anomala
ed aveva affermato che il comportamento omissivo non pareva avere aggravato
il dissesto.
3 – 3 – Con il terzo motivo si deduce violazione di legge, ed in particolare
del divieto di reformatio in peius, laddove, in assenza di impugnazione del
pubblico ministero, la Corte di appello aveva applicazione la pena accessoria
dell’interdizione dall’esercizio delle imprese per la durata della pena principale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
1 – I giudici del merito avevano tenuto conto della relazione del curatore
nelle parti in cui essa riferiva i dati di fatto che si potevano evincere dai bilanci
della società traendo poi congrue e logiche conclusioni sulla responsabilità
dell’imputato in ordine alla condotta, di aggravamento del dissesto, ascrittagli.
Non potendo dedurre argomenti contrarli dal giudizio meramente ipotetico
formulato dal curatore: “non pare comunque, allo stato, che tale comportamento
omissivo abbia significativamente aggravato la situazione debitoria della società”
2

particolare tenuità del fatto, la sospensione e l’annullamento delle statuizioni

Tanto più che tale congettura contrastava frontalmente con i precedenti
rilievi, secondi i quali, a detta dello stesso curatore, come già rilevato dai giudici
del merito, “la società ha evidenziato perdite sempre crescenti fin dal 2006.
Sempre fin dal 2006 il patrimonio della società è stato negativo, e ciò anche in
ragione del fatto che il capitale sociale ammontava a soli euro 12.000. Sembra
dunque evidente che lo stato di decozione abbia iniziato a palesarsi fin
dall’esercizio 2006 e che, nel corso del 2008 l’insolvenza fosse ormai
irreversibile”.

legge: non ricostituiva il capitale, non poneva in liquidazione la società, non
chiedeva il fallimento in proprio. Si limitava a continuare l’attività fino alla metà
2009 (quando l’unico cliente rescindeva il contratto), generando, come aveva
ricordato il curatore, sempre maggiori perdite (era allora evidente che neppure
quel contratto era profittevole) e quindi continuando ad aggravare l’inevitabile
dissesto.
Non vi è pertanto dubbio alcuno che, come affermato dai giudici del merito,
l’imputato abbia, appunto, aggravato il dissesto, consumando così il delitto
contestatogli ai sensi del numero 4, del primo comma, dell’art. 217 legge fallim..
Sono quindi infondati il primo motivo del ricorso principale ed il primo motivo
aggiunto. A proposito di quest’ultimo motivo va rilevato anche che,
contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l’originaria imputazione
comprendeva espressamente la condotta prevista dall’art. 217, comma primo n.
4, legge fallim., per cui la censura inerente l’immutazione dell’accusa è priva di
concreto fondamento.
2 – Il secondo motivo del ricorso principale è parimenti infondato non
essendo richiesto dalla norma alcun nesso di causalità fra la condotta ed il
dissesto.
L’art. 217, primo comma numero 4, punisce infatti chi

“ha aggravato il

proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del fallimento o con
altra colpa grave”.
E’ allora evidente che ne risponde chi, avendo elementi concreti per
comprendere che la situazione economica-finanziaria della società (o dell’impresa
individuale) amministrata non potrà ragionevolmente mutare evitando
l’insolvenza, non ne prenda atto, richiedendo in proprio il fallimento, e continui
l’attività, evidentemente in perdita, così aggravando il dissesto e, quindi, la
massa di debiti generati dalla stessa. Non deve, pertanto, sussistere alcun nesso
di causalità fra dissesto e condotta ma deve essersi generato (solo) un aumento
della massa passiva del fallimento a seguito della mancata richiesta del
fallimento in proprio.
3

A fronte di tale situazione l’imputato nulla faceva di quanto prescritto dalla

L’espressione con la quale la norma si chiude, ” o con altra grave colpa”,
chiarisce, inoltre, che, anche della mancata tempestiva istanza di fallimento in
proprio, l’imprenditore (o l’amministratore della società) risponde non solo a
titolo di dolo ma anche di colpa.
Va, infine osservato che, nell’imputazione, non era individuato il quantum
pecuniario di aggravamento del dissesto ma, una volta accertato che questi vi
era stato, la sua esatta quantificazione non ha rilievo in questo tgrfflingl giudizio,
posto che il punto, che dovrebbe essere risolto con perizia contabile, non assurge
a vizio di legittimità in quanto si è già affermato che la sentenza con cui il giudice
respinge la richiesta di una perizia, ritenuta decisiva dalle parti, non è
censurabile ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in
quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata
motivazione, è insindacabile in cassazione (Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Rv.
255152, imp. Sciarra).
Risultano quindi manifestamente infondati anche il quinto motivo del ricorso
principale ed il secondo aggiunto.
3 – Il terzo motivo del ricorso principale ed il terzo motivo aggiunto sono
manifestamente infondati perché questa Corte ha costantemente affermato che
è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle pene
accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorché la cognizione della
specifica questione non sia stata devoluta con l’impugnazione del pubblico
ministero (Sez. 6, n. 31358 del 14/06/2011, Rv. 250553, imp. Navarria), in
considerazione del fatto che tali pene discendono, per legge, dalla ritenuta
colpevolezza per i delitti a cui attengono e che la loro misura, se non fissa, va
parificata a quella della pena principale, ai sensi dell’art. 37 cod. pen..
4 – Le conclusioni prese dalla difesa dell’imputato in chiusura del ricorso,
non essendo sorrette da argomento alcuno, sono inammissibili.
5 – Parimenti inammissibile è il quarto motivo del ricorso principale, sulle
statuizioni civili, perché ci si duole che la Corte territoriale abb ia violato il
disposto dell’art. 612 cod. proc. pen., quando, invece, tale norma riguarda i
poteri di questa Corte.
Peraltro, se la doglianza fosse quella del mancato pronunciamento sulla
istanza di sospensione della provvisoria esecuzione prevista dall’art. 600 cod.
proc. pen., la questione sarebbe priva di interesse, posto che, ai sensi dell’art.
605, comma 2, cod. proc. pen., le statuizioni civili pronunciate (o confermate)
dalla Corte di appello sono immediatamente (e non più provvisoriamente)
esecutive.
Per quanto riguarda, infine, la misura della provvisionale deve ricordarsi che
non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede

penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale,
trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non
necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, Rv. 263486).
3 – Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e di una somma, ritenuta equa nella misura
indicata in dispositivo, a favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

ammende.
Così deciso in Roma il 10/02/2016.

spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle

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