Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27880 del 09/02/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 27880 Anno 2016
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: SAVANI PIERO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MASTRONUNZIO MARIO N. IL 11/11/1939
avverso la sentenza n. 391/2012 CORTE APPELLO di
CAMPOBASSO, del 13/04/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/02/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PIERO SAVANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
0(
che ha concluso per )
itA.Lazu,
4i2 4″.

Udito, pe,j parte civile, l’Avv
Udito i ilifensor Owv.

Data Udienza: 09/02/2016

IN FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Campobasso, ridotta la pena per la concessione
delle attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante, ha confermato nel resto la sentenza emessa
in data 11 aprile 2012 dal locale Tribunale, appellata, fra l’altro, da MASTRONUNZIO Mario,
ritenuto responsabile del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento della “Edil DE.MA. di D’Errico Aldo s.a s.” già “Edilmastronunzio” dichiarato
il 26 aprile 2006, fallimento esteso al prevenuto con sentenza del 15 giugno 2006.
Propone ricorso per cassazione l’imputato sulla base di due motivi.
Con il primo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione contestando la sua ritenuta qualificazione di amministratore di fatto della società fallita, qualifica contestata con
l’appello per il periodo successivo alla cessione delle quote a D’ERRICO Aldo, non potendo esser indicativa di una qualifica di amministratore di fatto la sua presenza in ufficio per un breve
periodo dopo la cessione delle quote. La Corte d’Appello avrebbe opposto alle argomentazioni
dell’appello solo motivazione apparente, avendo fatto riferimento alle emergenze della sentenza
di fallimento ed agli accertamenti della Guardia di Finanza da cui sarebbe emerso che il negozio
di cessione delle quote sarebbe stato affetto da simulazione assoluta, laddove poi il D’ERRICO
nulla sarebbe stato in grado di riferire al curatore fallimentare.
Non avrebbe indicato la Corte di merito in che termini il prevenuto avesse esercitato poteri gestori, non ricollegabili alla mera sua presenza in ufficio.
Con il secondo motivo chiede che la Corte applichi l’indulto esistendone i presupposti di legge
con riferimento alla data del fallimento, del 26 aprile 2006.
Il ricorso è inammissibile.
Manifestamente infondato è il primo motivo; l’individuazione del prevenuto da parte della Corte
d’Appello come responsabile dei fatti di bancarotta in danno della fallita società si sottrae alle
censure del ricorrente per aver il giudice d’appello fatto riferimento in modo del tutto logico sia
alla circostanza che gli accertamenti dell’organo fallimentare avevano condotto alla dichiarazione del fallimento in proprio del prevenuto individuato come socio occulto della società per il positivo accertamento della simulazione della cessione senza alcun pagamento del relativo prezzo
da parte di un soggetto risultato del tutto all’oscuro delle vicende della società, rimasta chiaramente nelle mani dell’attuale ricorrente non uscito dalla compagine sociale, direttamente coinvolto di conseguenza nella sua gestione, in tal modo qualificandosi le sue non contestate presenze in ufficio.
Manifestamente infondato è anche il secondo motivo poiché il ricorrente non considera che la
mancata applicazione dell’indulto non può esser fatta oggetto, per carenza di interesse /di ricorso
per cassazione, consentito esclusivamente avverso provvedimenti del giudice del merito
sull’impossibilità di applicazione di un beneficio che ben può esser ottenuta in fase esecutiva
(cfr. Sez. II, 1/10/2013, n. 710, Rv. 258073; Sez. IV, 27/6/2013, n. 7944, Rv. 259312; Sez. III,
15/4/2009, n. 25135, Rv. 243907) e men che meno può esser chiesta come parrebbe al giudice di
legittimità.
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento e — per i profili di colpa correlati all’irritualità
dell’impugnazione — di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in €. 1.000,00#.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma di €. 1000,00# in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 9 febbraio 2016.

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