Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27850 del 31/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 27850 Anno 2016
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Cusani Armando, nato l’8 ottobre 1963
avverso l’ordinanza del Tribunale di Latina del 30 luglio 2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
lette le conclusioni del pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore
generale Fulvio Baldi, nel senso del rigetto del ricorso.

Data Udienza: 31/03/2016

RITENUTO IN FATTO
1. – Con ordinanza del 30 luglio 2015, il Tribunale di Latina ha rigettato il
ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip dello stesso
Tribunale il 9 luglio 2015, in relazione al reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera

c),

del d.P.R. n. 380 del 2001, contestato, oltre che ad altri soggetti, all’indagato odierno
ricorrente, per avere, nella sua qualità di sindaco del Comune di Sperlonga, mediante
l’adozione di un programma integrato di intervento per lo sviluppo e la riqualificazione

di edilizia residenziale speculativa di gran lunga prevalenti, in volumetria e superfici,
rispetto alle opere di edilizia residenziale pubblica; programma integrato da ritenersi
illegittimo, in quanto utilizzato per eludere la procedura ordinaria di variante generale
al piano regolatore generale, che avrebbe imposto il rispetto delle volumetrie da esso
previste; con il rilascio a terzi dei relativi permessi a costruire, anch’essi illegittimi, in
quanto fondati sulla citata procedura amministrativa contro legge, e con la
conseguente realizzazione di una serie considerevole di manufatti edilizi, integranti
una lottizzazione abusiva.
2. – Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si deduce la nullità dell’ordinanza
impugnata, per violazione dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen., sul rilievo che sia il
Gip che aveva adottato il decreto di sequestro preventivo sia il presidente del
Tribunale del riesame erano stati ricusati dall’indagato, per avere presentato,
nell’anno 2002, un’infondata denuncia-querela contro di lui, archiviata nel 2014, per
fatti estranei all’oggetto del presente procedimento. Pur in presenza di tali
dichiarazioni di ricusazione, non vi era stato alcun rinvio della trattazione del
procedimento né alcuna astensione. In particolare il presidente del Tribunale del
riesame aveva ritenuto di non astenersi dal procedere alla definizione del
procedimento di riesame, per la perentorietà dei termini entro i quali procedere alla
decisione, pena l’inefficacia della misura cautelare. Rileva la difesa che nel caso di
specie non ricorrevano le condizioni per superare il divieto di cui all’art. 37, comma 2,
cod. proc. pen., perché la dichiarazione di ricusazione era stata presentata il 23 luglio
2015 e, dunque, non a ridosso della deliberazione, né in prossimità della scadenza dei
termini perentori per questa assegnati, anche perché avrebbe dovuto applicarsi la
sospensione feriale dei termini per tutto il mese di agosto. La difesa contesta, inoltre,
l’interpretazione dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen. data dalla sentenza Cass., sez.

della città in completamento e dei relativi accordi di programma, autorizzato interventi

un., 27 gennaio 2011, n. 23122, secondo cui la decisione che definisce il
procedimento assunta dal giudice nei cui confronti è stata proposta ricusazione
conserva comunque validità se la ricusazione è dichiarata inammissibile o infondata
dall’organo competente ex art. 40 cod. proc. pen. In via subordinata, propone
questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 cod. proc. pen., secondo
l’interpretazione datane dalla richiamata pronuncia delle sezioni unite, nella parte in
cui non prevede alcuna sanzione processuale per la violazione del divieto di cui al

della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione all’art. 117 Cost.
2.2. – Si lamenta, in secondo luogo, la mancata considerazione di quanto
rappresentato e documentato nei motivi di riesame, circa l’insussistenza del fumus del
reato contestato. Non si sarebbe considerato, in particolare l’interesse pubblico
sotteso alla realizzazione del Programma integrato comunale, ai sensi dell’art. 16,
comma 1, della legge n. 179 del 1992 e della legge della Regione Lazio n. 22 del
1997. Né si sarebbero considerati gli errori di fatto e di diritto commessi dal
consulente di parte del pubblico ministero, segnalati nei motivi di riesame anche
attraverso la produzione del parere pro ventate dell’architetto Karrer, il quale afferma
«la non corrispondenza al vero della consulenza tecnica».
2.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si rappresenta che i piani integrati di
intervento di cui alla legge n. 179 del 1992 non sono da ritenersi utilizzabili
esclusivamente nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica, ma costituiscono
strumento urbanistico di generale adottabilità ogni volta in cui sia presente un
interesse pubblico alla riqualificazione urbana e ambientale. Si contesta, inoltre,
l’affermazione del Tribunale secondo cui dovrebbe trovare applicazione la quota del
40% riservata all’edilizia residenziale pubblica, prevista dall’art. 3 della legge n. 167
del 1962. Tale quota del 40% dovrebbe essere presa in considerazione – secondo la
difesa – in relazione all’intero piano regolatore e non a ciascuna singola porzione del
territorio, quale quella oggetto del Programma integrato. E, nel caso di specie, tale
Programma integrato avrebbe addirittura aumentato la dotazione di aree e spazi
pubblici pro capite, attraverso la cessione volontaria delle aree da parte di privati,
senza alcuni oneri finanziari per il Comune. Sarebbe inoltre erroneo ritenere – come fa
il Tribunale – che la procedura di variante al piano regolatore generale ai sensi dell’art.
10 della legge n. 1150 del 1942 sia l’unica ordinaria garantita, mentre la variante
attraverso l’accordo di programma ai sensi dell’art. 27 della legge n. 142 del 1990
sarebbe invece illecita. Sarebbe, invece, proprio la legge regionale n. 22 del 1997, art.
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comma 2 dello stesso articolo, in riferimento agli art. 3, 54 e 111 Cost. e all’art. 6

4, comma 4, a prevedere che, al fine di accelerare le procedure di definizione dei
programmi integrati, possa farsi ricorso allo strumento dell’accordo di programma
previsto dall’art. 27 della legge n. 142 del 1990. Quanto, in particolare, alla sottozona
C1d, si lamenta che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva ritenuto che la
stessa non potesse essere computata ai fini della volumetria realizzabile, trattandosi
di un comparto esterno al perimetro urbano. La difesa evidenzia, sul punto, che tale
sottozona era stata inserita nel piano regolatore generale ed era, dunque, da prendere

perché scorrette sul piano giuridico le conclusioni raggiunte dai tecnici dirigenti
regionali sentiti a sommarie informazioni, secondo cui, per l’approvazione della
variante generale al piano regolatore generale, si sarebbe dovuta seguire la procedura
di cui all’art. 10 della legge n. 1150 del 1942.
2.4. – In quarto luogo, si prospetta la violazione della disposizione
incriminatrice, sul rilievo che i fatti non sarebbero neanche in astratto riconducibili alla
fattispecie da questa prevista. Sarebbe impossibile – ad avviso della difesa contestare una lottizzazione abusiva negoziale attuata, come nel caso di specie,
mediante atti amministrativi.
2.5. – Con un quinto motivo di doglianza, si lamenta la violazione del principio
costituzionale della divisione dei poteri e della riserva di amministrazione e si
prospetta il difetto assoluto di giurisdizione. Il Tribunale non si sarebbe limitato ad un
controllo di legittimità degli atti amministrativi ma avrebbe ritenuto di potersi
sostituire alla pubblica amministrazione nella ponderazione degli interessi pubblici e
privati da perseguire con il programma integrato, così incidendo sulla insindacabile
sfera della discrezionalità amministrativa.
2.6. – Si rileva, inoltre, l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice e
dell’art. 157 cod. pen., con riferimento all’individuazione del momento consumativo
della presunta lottizzazione abusiva. I lavori autorizzati sulla base del programma
integrato del 1999 sarebbero, infatti, già ultimati da tempo, mentre, in relazione
all’accordo di programma 2004 e al relativo programma integrato, non si sarebbe
considerato che con gli stessi non era stato realizzato alcun aumento di volumetria.
2.7. – In settimo luogo, si contesta la mancanza dei presupposti per il sequestro
in relazione alla posizione dell’indagato, quale sindaco del Comune di Sperlonga. Non
si sarebbe considerato che egli non aveva partecipato alle deliberazioni relative ai
Programmi integrati in contestazione.

in considerazione a fini edificatori. In ogni caso, non si sarebbero dovute seguire,

2.8. – Si deduce, infine, la violazione dell’art. 321 cod. proc. pen., per la
mancanza del presupposto del periculum in mora. La difesa ricorda che sono stati
sequestrati: edifici in costruzione che non si trovano nella disponibilità degli indagati e
che appartengono a soggetti acquirenti in buona fede; aree non edificate; beni
immobili del Comune adibiti ad uso pubblico, per i quali è stato comunque consentito
tale uso.
2.9. – In prossimità della camera di consiglio davanti a questa Corte, la difesa

programma integrato per apportare varianti al piano regolatore generale. Evidenzia,
altresì, che la procedura avrebbe aumentato il carico urbanistico incentivando
l’afflusso di utenti nei parcheggi pubblici resi gratuiti dallo stesso provvedimento di
sequestro. Rileva, inoltre, che il sequestro del cantiere aperto a carico della Società
cooperativa Maestrale era stato revocato sul rilievo che i relativi manufatti risultavano
ormai ultimati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è infondato.
3.1. – Il primo motivo di doglianza – con cui si deduce la violazione dell’art. 37,
comma 2, cod. proc. pen., sul rilievo che sia il Gip che aveva adottato il decreto di
sequestro preventivo sia il presidente del Tribunale del riesame, pur essendo stati
ricusati dall’indagato, avevano comunque proceduto alle statuizioni di loro competenza
– è infondato.
3.1.1. – Deve preliminarmente richiamarsi il principio di diritto formulato dalle
sezioni unite di questa Corte (con la sentenza 27 gennaio 2011, n. 23122), secondo
cui la decisione che definisce il procedimento, assunta dal giudice nei cui confronti è
stata proposta ricusazione in violazione del divieto istituito dall’art. 37, comma 2, cod.
proc. pen. – il quale prevede testualmente che il giudice ricusato non può pronunciare
né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che
dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione – conserva validità se la ricusazione è
dichiarata inammissibile o infondata dall’organo competente ex art. 40 cod. proc. pen.
La decisione che definisce il procedimento, assunta dal giudice nei cui confronti è stata
proposta ricusazione è invece viziata da nullità assoluta, nel caso in cui la ricusazione
sia accolta, e ciò indipendentemente dalla circostanza che essa sia intervenuta in
pendenza della procedura incidentale di ricusazione o dopo il suo accoglimento. Le
sezioni unite giungono a tale conclusione evidenziando che non è sufficiente la formale
violazione del divieto posto del richiamato art. 37, comma 2, ma è necessario che sia

ha depositato motivi aggiunti, con i quali ribadisce la legittimità del ricorso al

accertata dall’esterno la denunziata mancanza di imparzialità-terzietà del giudice. E
tale assunto si attaglia particolarmente ai provvedimenti giurisdizionali, quali quelli
resi in sede di riesame, che devono essere pronunciati entro termini la cui
inosservanza determina automaticamente effetti caducatori non evitabili. In tali casi,
infatti, la dichiarazione di ricusazione presentata a ridosso della deliberazione e in
prossimità della scadenza dei termini può porre obiettivamente un problema di
contemperamento di opposte esigenze; e ciò, anche al fine di evitare la proliferazione

provvedimento finale del procedimento o di renderla, comunque, più gravosa per la
necessità di provvedere alla sostituzione del magistrato ricusato in tempi brevissimi. E
tale conclusione interpretativa rappresenta un ragionevole punto di equilibrio fra
l’interesse costituzionale allo svolgimento del processo e alla sua ragionevole durata e
quello, di pari rango, all’imparzialità e terzietà del giudice. Deve essere dunque
ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata
dalla difesa in via subordinata – dell’art. 37 cod. proc. pen., secondo l’interpretazione
datane dalla richiamata pronuncia delle sezioni unite, nella parte in cui tale
disposizione non prevede alcuna sanzione processuale per la violazione del divieto di
cui al comma 2 dello stesso articolo, in riferimento agli art. 3, 54 e 111 Cost. e all’art.
6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione all’art. 117 Cost. I

parametri costituzionali richiamati sarebbero infatti sostanzialmente violatt – come
già anticipato – proprio laddove si adottasse la diversa interpretazione secondo cui il
provvedimento adottato dal giudice ricusato deve essere ritenuto nullo a priori anche
in caso di riconosciuta inammissibilità o infondatezza della dichiarazione di
ricusazione. Una tale nullità si porrebbe, infatti, in contrasto con il principio di
ragionevolezza, oltre che con la ragionevole durata del processo e, più in generale,
con l’efficienza e l’efficacia della tutela penale, a fronte di un interesse dell’imputato
alla terzietà e imparzialità del giudice, che risulta meritevole di tutela solo in presenza
di un’effettiva violazione di tali principi e non anche in presenza di una loro violazione
meramente potenziale, poi rivelatasi insussistente.
3.1.2. – Tali principi trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui la
difesa nulla specifica circa l’esito dei procedimenti di ricusazione avviati con le
dichiarazioni presentate nei confronti del Gip e del Presidente del collegio del riesame,
limitandosi a riferire che la Corte d’appello di Roma ha fissato per la loro trattazione
l’udienza del 15 settembre 2015 e che «il procedimento di ricusazione seguirà
ovviamente il suo corso». In altri termini, poiché la difesa neanche prospetta che le
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di ricusazioni pretestuose, formulate al solo scopo di impedire la pronuncia del

dichiarazioni di ricusazione siano state accolte, non sussiste – allo stato degli atti – la
lamentata nullità del provvedimento di sequestro e dell’ordinanza impugnata,
potendosi pervenire all’accertamento di una tale nullità soltanto ex post.
3.2. – Il secondo motivo di doglianza – nella parte in cui si riferisce alla mancata
considerazione di quanto rappresentato e documentato nei motivi di riesame, circa
l’insussistenza del fumus del reato contestato – è inammissibile. Lo stesso non si
riferisce, infatti, alla mancanza della motivazione su profili essenziali ai fini della

insindacabili in questa sede, perché non riconducibili alla categoria della violazione di
legge ai sensi e per gli effetti dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen

(ex plurimis,

ribadiscono che il ricorso per cassazione in tema di misure cautelari reali può
riguardare solo la motivazione assente o meramente apparente del provvedimento
impugnato, sez. 3, 10 luglio 2015, n. 39833; sez. 6, 10 gennaio 2013, n. 6589, rv.
254893).
Il ricorrente afferma, infatti, che vi sarebbero i errori di fatto e di diritto
commessi dal consulente di parte del pubblico ministero, segnalati anche attraverso la
produzione del parere pro ventate dell’architetto Karrer, il quale afferma «la non
corrispondenza al vero della consulenza tecnica». Dalla lettura di tale parere si evince,
però, che lo stesso, non contiene valutazioni di fatto che sarebbero state pretermesse
dal Gip, ma semplicemente considerazioni riferite al quadro normativo applicabile alla
fattispecie. E si tratta di considerazioni che, pur non essendo richiamate in quanto tali
nel provvedimento impugnato, si pongono – come si vedrà – in contrasto con quanto
correttamente ritenuto dal Gip e dal Tribunale.
3.3. – Le altre censure del ricorrente prospettate con il secondo motivo di
doglianza, e più analiticamente sviluppate nel terzo motivo, sono infondate.
3.3.1. – Si lamenta, in particolare, la pretesa erronea valutazione dell’interesse
pubblico sotteso alla realizzazione del programma integrato comunale, ai sensi
dell’art. 16, comma 1, della legge n. 179 del 1992 e della legge della Regione Lazio n.
22 del 1997. E si rappresenta, sul punto, che i piani integrati di intervento di cui alla
legge n. 179 del 1992 non sono da ritenersi utilizzabili esclusivamente nell’ambito
dell’edilizia residenziale pubblica, ma costituiscono strumento urbanistico di generale
adottabilità ogni volta in cui sia presente un interesse pubblico alla riqualificazione
urbana e ambientale.
Il Tribunale correttamente premette, sul punto, che la lottizzazione abusiva si
configura non solo nel caso di mancanza di autorizzazione, ma anche nel caso in cui le
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decisione, ma a valutazioni del Tribunale circa gli indizi di reato; valutazioni comunque

opere edilizie siano stati realizzate in violazione della normativa di settore o in
contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti o adottati. Oggetto della tutela è, infatti,
non soltanto la potestà pubblica di programmazione del territorio considerata sotto
l’aspetto del suo esercizio, ma essenzialmente la risultante di questa e, cioè, la
concreta conformazione del territorio derivata dalle scelte di programmazione
effettuate. Applicando tali principi lo stesso Tribunale evidenzia che, nel caso di
specie, che ha riguardato una superficie complessiva di 269.842 m 2 , i permessi di

illegittimità dei programmi integrati adottati nel 1999 e del 2002 e dei relativi accordi
di programma. Si è, in particolare, sottolineato che l’intervento edilizio realizzato,
nonostante la qualifica meramente formale di “intervento di rilievo pubblico” ad esso
attribuita dagli atti amministrativi posti alla base della sua realizzazione, ha un
carattere essenzialmente privatistico e speculativo. Il Tribunale e il Gip hanno, del pari
correttamente, inquadrato i programmi integrati di intervento previsti dall’art. 16 della
legge n. 179 del 1992, richiamato dall’art. 1 della legge della Regione Lazio n. 22 del
1997 come strumenti urbanistici di secondo livello, rispetto al piano regolatore
generale, che hanno le finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio e
ambientale del territorio e sono caratterizzati dalla presenza di una pluralità di
funzioni, dall’integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di
urbanizzazione, nonché da una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione
urbana e dal possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e private. I programmi
in questione, dunque, non sono da ritenersi utilizzabili esclusivamente nell’ambito
dell’edilizia residenziale pubblica, ma costituiscono uno strumento urbanistico di
generale adottabilità ogni volta in cui presenza sia presente un interesse pubblico alla
riqualificazione urbana ed ambientale derivante dalla sua realizzazione, attraverso un
insieme coordinato di interventi risorse, pubblici e privati, incidenti anche sulle opere
di urbanizzazione sulla dotazione degli standard. Nel caso in esame si è però rilevata
una macroscopica illegittimità degli strumenti di programmazione utilizzati, per
l’assoluta mancanza di un interesse pubblico di rilevante valenza urbanistica ed
edilizia; cosicché è stato ritenuto illegittimo il ricorso a tali strumenti, con conseguente
inapplicabilità dell’art. 4, comma 4, della legge regionale n. 22 del 1997, che consente
di ricorrere allo strumento dell’accordo di programma, da adottare in variante rispetto
allo strumento urbanistico generale approvato e vigente qualora si tratti di piano
integrato di intervento non conforme ad esso. Ne consegue che, nel caso di specie, la

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costruire devono considerarsi illegittimi in conseguenza delle macroscopiche

variazione lo strumento urbanistico non avrebbe potuto essere effettuata mediante lo
strumento dell’accordo di programma, come invece avvenuto.
3.3.2. L’ordinanza impugnata riporta, inoltre, una serie di considerazioni di
fatto, in quanto tali insindacabili in questa sede e comunque solo in parte contestate
dal ricorrente. E, in particolare: a) la quota riservata all’edilizia residenziale pubblica è
solo del 22,4%; b) vi è una distorta rappresentazione delle superfici da destinare a
spazi pubblici previste nel piano regolatore generale, che risultano ridotte del 50%; c)

fornire la dotazione minima di spazi pubblici connesse agli insediamenti, né risultano
essere stati realizzati spazi pubblici destinati alle attività collettive a verde pubblico o
a strutture ricettive; d) il programma integrato ha apportato una variante al piano
regolatore generale quanto alla destinazione e non solo quanto agli indici previsti delle
norme tecniche di attuazione, essendosi anche incrementata la volumetria realizzabile
per la stessa area di intervento; e) nell’ambito del programma integrato vi è un
comparto C1d, denominato “Valle delle vespe”, a destinazione agricola, che non
avrebbe potuto perciò essere computato ai fini dell’aumento della volumetria
edifica bile.
Di fronte a tale complesso di macroscopiche illegittimità – quali risultano allo
stato degli atti e salva ogni ulteriore valutazione in sede di merito – non possono
assumere rilevanza decisiva, perché riferite a un singolo profilo, le deduzioni difensive
con cui si contesta l’affermazione del Tribunale secondo cui dovrebbe trovare
applicazione la quota del 40% riservata all’edilizia residenziale pubblica, prevista
dall’art. 3 della legge n. 167 del 1962. Tale quota del 40% dovrebbe essere invece
presa in considerazione – secondo la difesa – in relazione all’intero piano regolatore e
non a ciascuna singola porzione del territorio, quale quella oggetto del programma
integrato.
Né possono essere presi in considerazione rilievi, puramente fattuali, quali quelli
relativi al fatto che il programma integrato avrebbe addirittura aumentato la dotazione
di aree e spazi pubblici pro capite, attraverso la cessione volontaria delle aree da
parte di privati, senza alcun onere finanziario per il Comune.
E le illegittimità evidenziate rendono irrilevanti anche le considerazioni svolte
della difesa, in punto di diritto, circa il fatto che la legge regionale n. 22 del 1997, art.
4, comma 4, prevede che, al fine di accelerare le procedure di definizione dei
programmi integrati, possa farsi ricorso allo strumento dell’accordo di programma
previsto dall’art. 27 della legge n. 142 del 1990. È infatti sufficiente osservare, sul
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vi è la mancata realizzazione di opere di urbanizzazione secondarie necessarie per

punto, che il ricorso allo strumento dell’accordo di programma ha quale necessario
presupposto la legittimità del programma integrato.
Deve essere infine ritenuta erronea, in punto di diritto, la considerazione svolta
dalla difesa secondo cui la sottozona C1d avrebbe potuto essere computata ai fini
della volumetria complessivamente realizzabile. La difesa evidenzia, sul punto, che
tale sottozona era stata inserita nel piano regolatore generale ed era, dunque, da
prendere in considerazione a fini edificatori, ma non considera che la stessa aveva

dell’illegittimo programma integrato.
3.4. – Manifestamente infondato è il quarto motivo di doglianza, con cui si
prospetta la violazione della disposizione incriminatrice, sul rilievo che i fatti non
sarebbero neanche in astratto riconducibili alla fattispecie da questa prevista. La
difesa muove, infatti, dall’assunto che nel caso in esame si sarebbe in presenza di una
lottizzazione abusiva negoziale, che sarebbe stata attuata solo mediante gli atti
amministrativi di programmazione. Come già rilevato, tale assunto è manifestamente
erroneo, perché nel caso di specie la lottizzazione abusiva ha avuto solo quale punto
di partenza l’adozione dei programmi integrati ed è proseguita con l’emanazione, a
cascata, di atti amministrativi di assenso illegittimi, nonché con la realizzazione
materiale delle opere edilizie e con il trasferimento di parte degli immobili agli
acquirenti finali.
3.5. – Manifestamente infondato è anche il quinto motivo di doglianza, con cui
si lamenta la violazione del principio costituzionale della divisione dei poteri e della
riserva di amministrazione e si prospetta il difetto assoluto di giurisdizione. Secondo la
difesa, in sostanza, il Tribunale non si sarebbe limitato ad un controllo di legittimità
degli atti amministrativi ma si sarebbe sostituito alla pubblica amministrazione nella
ponderazione degli interessi pubblici e privati da perseguire con il programma
integrato.
È sufficiente richiamare, sul punto, la costante giurisprudenza di questa Corte,
riferita proprio alle fattispecie di macroscopica illegittimità di atti amministrativi che
formalmente consentano l’esercizio dell’attività edilizia. Deve, in particolare ribadirsi
che, in materia di violazione dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la non conformità
dell’atto amministrativo alla normativa che ne regola l’emanazione, alle disposizioni
legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia e alle previsioni degli
strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l’atto sia illecito, e cioè frutto
di attività criminosa, ma anche nell’ipotesi in cui l’emanazione dell’atto medesimo sia
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destinazione agricola; destinazione mutata solo in conseguenza dell’adozione

espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di
mancato rispetto delle norme che regolano l’esercizio del potere, non vertendosi in tali
casi in una disapplicazione dell’atto amministrativo (ex plurimis, sez. 2, 26 giugno
2014, n. 31229, rv. 260367; sez. 3, 28 settembre 2006, n. 40425, rv. 237038).
E ciò è quanto avvenuto nel caso di specie, per la rilevata evidente carenza di
interesse pubblico a procedere a ciò che è stato definito dalla stessa amministrazione
come “intervento di rilievo pubblico”.

l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice e dell’art. 157 cod. pen., con
riferimento all’individuazione del momento consumativo della presunta lottizzazione
abusiva. La difesa si limita, sul punto, a mere indimostrate asserzioni, del tutto
sganciate da un’analisi critica del compendio istruttorio, circa il fatto che i lavori
autorizzati sulla base del programma integrato del 1999 sarebbero già ultimati da
tempo, mentre quelli realizzati a seguito dell’accordo di programma 2004 e al relativo
programma integrato non avrebbero provocato aumenti di volumetria. Il ricorrente
non specifica, in ogni caso, se tale doglianza fosse stata prospettata con i motivi di
riesame né se fosse stata dedotta all’udienza in camera di consiglio di fronte al
Tribunale; con la conseguenza che questa Corte non è messa in grado di valutare se
lo stesso Tribunale abbia effettivamente omesso di motivare su una questione posta
alla sua attenzione. Dal tenore dell’ordinanza impugnata risulta, anzi, che detta
questione è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Né a tali
conclusioni potrebbe obiettarsi che la richiesta di riesame ha effetto interamente
devolutivo e, dunque, investe il Tribunale di ogni aspetto relativo al titolo cautelare.
L’effetto devolutivo del riesame deve, infatti, essere inteso nel senso che il Tribunale è
tenuto, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, a valutare
esclusivamente la sussistenza dei presupposti della misura cautelare, sotto il profilo
del fumus commissi delicti e, nel caso del sequestro preventivo, del periculum in mora
o della confiscabilità dei beni sequestrati; non essendo tenuto, invece, a procedere
all’analisi di aspetti ulteriori, quale quello relativo all’analisi di elementi fattuali dai
quali possa desumersi la prescrizione del reato, qualora non espressamente dedotti.
3.7. – Il settimo motivo di impugnazione – con cui si contesta la mancanza dei
presupposti per il sequestro in relazione alla posizione dell’indagato, quale sindaco del
Comune di Sperlonga – è inammissibile. Non è, infatti, necessaria, ai fini
dell’emanazione di un sequestro preventivo finalizzato sia a prevenire l’aggravamento
o la protrazione delle conseguenze del reato, sia a garantire la futura confisca dei
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3.6. – Inammissibile per genericità è il sesto motivo di ricorso, con cui si rileva

beni, la dimostrazione della colpevolezza dell’indagato. E, in ogni caso, la difesa non
ha contestato che l’indagato fosse responsabile, in quanto sindaco del Comune, al
momento dell’adozione degli atti di pianificazione illegittimi, essendosi limitata ad
asserire genericamente- per la prima volta con il ricorso per cassazione – che egli non
aveva partecipato alle relative deliberazioni.
3.8. – Inammissibile è anche l’ultimo motivo di doglianza, riferito alla violazione
dell’art. 321 cod. proc. pen., per la mancanza del presupposto del periculum in mora.

insindacabile in questa sede – la mole degli interventi edilizi realizzati è tale da avere
provocato uno stravolgimento dell’assetto del territorio comunale, con conseguente
aggravamento del carico urbanistico. E, in ogni caso, il sequestro risulta anche
finalizzato alla confisca obbligatoria dei terreni e delle opere oggetto del reato di
lottizzazione abusiva; finalità rispetto alla quale non sussiste la necessità del
presupposto del periculum in mora (ex plurimis, sez. 3, 15 aprile 2015, n. 20887, rv.
263408; sez. 2, 26 giugno 2014, n. 31229, rv. 260367).
In tale quadro risultano del tutto generiche le considerazioni difensive relative al
fatto che alcuni immobili apparterrebbero ad acquirenti di buona fede e che si
tratterebbe in altra parte di aree modificate o di beni pubblici adibiti ad uso pubblico.
Del pari generiche risultano le considerazioni, svolte con i motivi aggiunti di ricorso,
relative a un maggiore afflusso di utenti nei parcheggi pubblici e alla revoca del
sequestro di uno dei cantieri: si tratta, nel primo caso, di mere indimostrate asserzioni
e, nel secondo caso, della situazione peculiare di una sola parte delle opere realizzate,
rispetto alle quali il ricorrente non ha alcun interesse, essendo già intervenuto il
dissequestro.
4. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 31 marzo 2016.

Come correttamente osservato dal Tribunale – con valutazione di fatto

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