Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27801 del 31/03/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 27801 Anno 2016
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Pinto Michele, nato a Brugherio il 29 settembre 1961
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 15 settembre 2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale
Stefano Tocci, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

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Data Udienza: 31/03/2016

RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 15 settembre 2015, la Corte d’appello di Milano ha
confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 18 febbraio 2015, con la quale
l’imputato era stato condannato, per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod.
pen., e 2, comma 3, del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, in esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, quale legale rappresentante di una società, al fine di
evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicato nelle dichiarazioni dei

utilizzando fatture per operazioni inesistenti emesse da due società.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si lamenta che la Corte d’appello non
avrebbe fornito motivazione circa i rilievi difensivi relativi all’esistenza delle prestazioni
indicate nelle fatture, essendosi limitata a richiamare le motivazioni del giudice di
primo grado e la comunicazione di notizia di reato, così fondando la ritenuta
responsabilità penale su semplici presunzioni.
2.2. – In secondo luogo, si deducono vizi della motivazione in relazione al
travisamento della prova, con riferimento alla natura delle prestazioni oggetto di
accertamento. Si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale si sarebbe limitata
ad affermare che la documentazione prodotta dalla difesa non riscontrava pienamente
le prestazioni portate dalle fatture, pur trattandosi di collaborazioni o consulenze
commerciali risultanti da contratti stipulati fra le due società. Non si sarebbe
considerata, inoltre, la testimonianza resa da Faragò, soggetto che aveva messo in
contatto fra loro le due società, il quale aveva affermato che la società emittente le
fatture svolgeva effettivamente attività di consulenza e marketing, in particolare per il
procacciamento e la gestione della clientela.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile, perché basato sulla mera riproposizione di
doglianze già esaminate e motivatamente disattese dei giudici di primo secondo grado
e, comunque, diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del merito della
responsabilità penale; rivalutazione preclusa in sede di legittimità.
3.1. – Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa con il primo motivo di
doglianza, la prova della responsabilità penale non è stata raggiunta dai giudici di
merito in base alle presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ma ad una serie
di elementi indiziari gravi precisi e concordanti, in relazione ai quali il ricorrente non
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redditi relative agli anni di imposta 2007, 2008, 2009 elementi passivi fittizi,

ha sostanzialmente formulato specifiche contestazioni neanche con il ricorso per
cassazione. In particolare, la Corte d’appello evidenzia che: 1) le società emittenti le
fatture di cui all’imputazione non hanno una concreta operatività, non disponendo di
personale dipendente e di beni strumentali idonei allo svolgimento dell’attività indicata
nelle fatture stesse, ovvero il procacciamento di clientela e l’attività di analisi di
ricerche di mercato in ambito europeo e asiatico per l’individuazione di fonti di
approvvigionamento di apparati, sistemi e componenti relativi all’impiantistica di

presentato dichiarazione dei redditi e non avendo mai alcuno avuto alcun rapporto con
l’Agenzia delle entrate; 3) la società utilizzatrice ha per oggetto sociale la prestazione
di servizi di portierato, di logistica di magazzino, di progettazione installazione di
sistemi di sicurezza, mentre le società emittenti le fatture non hanno nulla a che
vedere con questo settore; 4) la documentazione depositata dalla difesa non riscontra
l’effettivo svolgimento delle prestazioni indicate in fattura, la cui genericità non
consente alcuna verifica puntuale circa l’effettiva esistenza delle stesse, perché
consiste riferimenti generici, adattabili a qualunque situazione o prestazione,
trattandosi di generiche consulenze per il procacciamento di clientela.
3.2. – Tali considerazioni valgono a far ritenere inammissibile anche il secondo
motivo di doglianza, in larga parte analogo al primo, perché anch’esso riferito alla
prova della responsabilità penale. Quanto allo specifico profilo della testimonianza resa
da Faragò, soggetto che avrebbe messo in contatto fra loro le due società, la Corte
d’appello evidenzia – senza che vi sia specifica contestazione sul punto neanche con il
ricorso per cassazione – che tale soggetto aveva dichiarato di non essere in grado di
fornire informazioni sull’esatto tenore dei rapporti tra le due società; cosicché dalla
sua deposizione non emerge alcun elemento a sostegno della non fittizietà delle
prestazioni portate dalle fatture oggetto dell’imputazione.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod.
proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della
somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.500,00.
P.Q. M.

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sicurezza; 2) le società in questione sono soggetti sconosciuti al fisco, non avendo

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 31 marzo 2016.

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