Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 273 del 05/12/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 273 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– SALVAGNIN ELVIO, n. 15/01/1957 a Sant’Angelo di Piove di Sacco

avverso la ordinanza del Tribunale del riesame di TRENTO in data 20/06/2017;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. S. Perelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Data Udienza: 05/12/2017

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RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 20.06.2017, depositata in pari data, il Tribunale del riesame
di Trento, in parziale accoglimento della richiesta di riesame presentata dall’indagato Salvagnin, anche n.q. di legale rappresentate delle società AVTO Motor center
(da qui in poi AMC) e SIOR SA, avverso il decreto di sequestro preventivo disposto
dal GIP/tribunale di Trento in data 30.03.2017, avente ad oggetto una somma di

denaro (a titolo prima di profitto a carico dell’ente contribuente, nonché, in subordine, di equivalente del profitto ex art. 322 c.p.p.), facente parte del patrimonio
del medesimo in quanto sottoposto ad indagini per i reati di cui agli artt. 4 e 5, d.
Igs. n. 74 del 2000 (omessa dichiarazione relativamente a diversi periodi di imposta per le due società; dichiarazione infedele per la sola SIOR relativamente
all’anno 2012), annullava il predetto decreto nella parte in cui ordinava il sequestro
diretto in capo all’indagato nonché nella parte in cui ordinava il sequestro per
equivalente in capo alla AVTO Motor Center, rigettando nel resto la richiesta di
riesame.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il Salvagnin, a mezzo dei difensori di fiducia,
iscritti all’Albo speciale ex art. 613 c.p.p., deducendo quattro motivi, di seguito
enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att.
cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il
profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, 1,
co. 143, legge n. 2444 del 2007, 322-ter c.p., 125, co. 3, c.p.p. 165 TUIR, 19,
d.p.R. n. 633 del 1972, 1. Co. 9, d.l. n. 262 del 2006, conv. in I. n. 286 del 1006,
e correlato vizio di nullità dell’ordinanza per motivazione apparente.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che con le ipotesi di reato di cui ai capi
da a) ad f) della rubrica viene contestata la presunta “esterovestizione” della società slovena AM, che secondo il PM, pur avendo sede in Koper, avrebbe dovuto
presentare la dichiarazione IVA degli anni dal 2010 al 2014 in Italia, così come
quella IRES per l’anno 2014; detta tesi trae spunto dal PVC redatto dalla GdF in
data 12.10.2016, da cui emerge che tale società sarebbe stata di fatto amministrata in Italia dall’indagato, che l’avrebbe gestita dall’Italia in relazione alle attività commerciali della stessa, il cui oggetto principale è il commercio degli autoveicoli reperiti sul mercato sloveno o europeo; tale assunto era stato contestato
sul piano fattuale e giuridico, producendo e riproponendo i motivi svolti davanti
alla CTP di Trento avverso gli avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate per
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gli anni 2010 e 2011, motivi ritenuti fondati dalla CTP che aveva disposto la sospensione degli stessi con ordinanza allegata agli atti; il ricorrente passa poi ad
esaminare le ragioni rilevanti per escludere la contestata omissione dichiarativa
della società slovena AMC (svolgimento dell’attività commerciale sin dal 2004 mediante struttura operativa effettivamente operante in loco; la contestazione di
esterovestizione è stata operata in violazione degli artt. 26 e 27 della Convenzione

artt. 117 Cost. e 10, St. contrib.; effettività e realtà della residenza e dell’attività
commerciale in Slovenia della società; esistenza da sempre di autonomia gestionale, contrattuale e finanziaria della struttura di Koper, rendendo possibile sui
mercati sloveni ed esteri nel reperimento degli autoveicoli oggetto dell’attività, con
pagamento in Slovenia, Paese membro dell’UE, di ogni imposta su di essa gravante, IVA compresa; la circostanza per cui AMC vendeva gli autoveicoli commercializzati a clienti esteri o italiani ed anche a società italiana ad essa collegata,
Rent a star, ma a quest’ultima solo in misura minoritaria; la circostanza per cui le
Autorità fiscali slovene hanno sempre verificato l’attività di AMC e ne hanno confermato la residenza slovena, con assoggettamento a tassazione in tale Paese anche ai fini IVA, il cui scomputo non sarebbe stato operato in sede di accertamento,
in violazione dell’art. 165 TUIR e dell’art. 19, d.p.r. n. 633 del 1972; la circostanza
per cui sicuramente le operazioni di vendita degli autoveicoli su cui è stata calcolata VIVA addebitata ad AMC sono state effettuate in Slovenia, ivi sussistendo fisicamente gli autoveicoli immatricolati in tale Paese, poi spediti alla clientela da
AMC, difettando dunque il presupposto dell’imponibilità IVA e comunque non venendo riconosciuta l’accusa la detrazione dell’IVA assolta da AMC in acquisto o
comunque quella versata all’Erario italiano dai primi cessionari di AMC, che per
rendere possibile l’immatricolazione e targatura degli autoveicoli, altrimenti impossibile per specifica previsione normativa, furono assoggettati al pagamento
dell’IVA); si duole, in particolare, il ricorrente che i giudici della cautela non avrebbero tenuto conto del disposto dell’art. 1, co. 9, dl. n. 262 del 2006, conv. In I.
n. 286 del 2006, per cui solo gli autoveicoli per i quali venga versata la giusta
imposta possono essere ammessi all’immatricolazione nel PRA ed alla conseguenza targatura, condizione per l’utilizzo degli autoveicoli; in tal senso, si osserva, ove non sia esibita dal primo importatore la ricevuta di pagamento dell’IVA
a mezzo mod. F24, non è infatti possibile procedere alla targatura del mezzo ed
alla relativa immatricolazione da parte degli uffici MCTC, con la conseguenza che
l’Agenzia delle Entrate non avrebbe autorizzato sicuramente l’immatricolazione dei
veicoli ceduti da AMC alla clientela italiana in mancanza dell’assolvimento degli
obblighi IVA sugli stessi gravanti, risultando quindi insussistente il profitto del
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Italia-Slovenia ratificata e resa esecutiva con I. 76/2009, nonché in violazione degli

reato ipotizzato a carico di AMC sul piano IVA; sarebbe poi irrilevante che VIVA
fosse stata assolta da AMC in sede di cessione alla clientela italiana o da quest’ultima all’atto dell’importazione intracomunitaria, in quanto ciò non muterebbe i termini della questione, avendo l’Erario comunque incassato VIVA su tali autoveicoli
e non sussistendo in capo ad AMC l’evasione d’imposta richiesta dall’art. 5, d. Igs.

2.1.1. Si censura, poi, il fatto che il decreto di sequestro preventivo, quanto alla
pretesa amministrazione dall’Italia di AMC, motivi genericamente riportandosi a
controlli amministrativi di cui al verbale 12.10.2016 iniziati il 27.10.2014 ed eseguiti con frequenza bisettimanale i quali lascerebbero arguire che la residenza
estera dichiarata dall’indagato sia appunto fittizia; si duole il ricorrente del fatto
che tali verifiche non siano mai state documentate, risultando del tutto indimostrate le suggestive circostanze evidenziate al fine di attrarre in Italia la residenza
dell’indagato e della società AMC; nonostante dette censure, i giudici del riesame
si sarebbero limitati ad annullare il solo sequestro per equivalente in applicazione
delle note Sezioni Unite Gubert, mentre avrebbero confermato il sequestro diretto
del denaro “che si dovesse rinvenire nella disponibilità di AMC in relazione a i capi
da a) ad f); a tale ultima statuizione, i giudici del riesame sarebbero giunti, secondo il ricorrente, mediante alcune “eccentriche e disordinate affermazioni”, a
partire da quella secondo cui in casi analoghi caratterizzati dal profitto coincidente
con il risparmio di imposta, sarebbe d’obbligo sequestrare tutte le poste attive del
patrimonio sociale, affermazione, questa, che contrasterebbe apertamente con le
conclusioni cui perviene il tribunale medesimo, laddove annulla il sequestro per
equivalente nei confronti della società AMC, dunque escludendo ogni aggressione
al relativo patrimonio sociale; tuttavia, si osserva, se la predetta affermazione del
tribunale fosse ritenuta autonoma rispetto al dispositivo, la sentenza (rectius, l’ordinanza) avrebbe violato la legge (art. 12-bis, d. Igs. n. 74 del 2000) come interpretata dalle Sezioni Unite Gubert, poiché il patrimonio societario non potrebbe
essere aggredito da alcun sequestro che sarebbe disposto per equivalente; si
duole, poi, il ricorrente dell’affermazione dei giudici del riesame circa i limiti del
proprio ambito cognitivo che sarebbe limitato alla verifica astratta della corrispondenza del fatto con la fattispecie penale, affermazione che non terrebbe conto
dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, con la conseguenza che il tribunale
del riesame si sarebbe dovuto misurare con gli elementi concretamente presenti
nel fascicolo processuale, che appunto erano stati contrastati con l’indagato con
specifiche argomentazioni e produzioni.

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n. 74 del 2000.

2.1.2. Quanto, poi, alla valutazione del fumus sui capi da a) ad f) dell’ordinanza,
si censura l’apparenza della motivazione sul punto, non essendo dato comprendere su quali elementi si basi il tribunale per pervenire alla conferma del sequestro
diretto in capo ad AMC; le affermazioni del tribunale a sostegno sarebbero generiche e prive di qualsiasi collegamento ad AMC, completandosi con riferimenti altrettanto generali ed astratti (il riferimento è ad una decisione relativa ad attività
di ricerca petrolifera condotta su piattaforme atlantiche, in cui la sede portoghese

è stata ritenuta irrilevante; o, ancora, alla nota sentenza resa nel caso “Dolce &
Gabbana” come ad altre decisioni relative a società diverse da AMC che abbiano
gestione amministrativa in Italia ma residenza fiscale all’estero); difetterebbe,
dunque, qualsiasi specifico riferimento all’attività della AMC, soprattutto in considerazione del fatto che il ricorrente aveva esaurientemente contestato sul piano
fattuale l’ipotesi, non riscontrata, secondo cui l’attività amministrativa di AMC si
sarebbe svolta in tutti gli anni oggetto dell’imputazione; nel richiamare nuovamente gli elementi a sostegno della tesi difensiva (v. supra), il ricorrente si duole
del fatto che i giudici del riesame avrebbero omesso di valutarli, richiamando invece precedenti giurisprudenziali eccentrici rispetto al caso concreto, con la conseguenza che la motivazione dell’ordinanza sarebbe mancante ed apparente in
ordine ai predetti elementi, segnatamente su alcuni di essi; non si sarebbe, infine,
nemmeno soffermato sul tema dell’elemento psicologico del reato, che il ricorrente
sostiene doversi escludere a fronte di una società che ha sempre assolto i propri
obblighi tributari in Slovenia, come sarebbe stato ammesso dallo stesso PM.

2.1.3. Ulteriore profilo di censura investe quella parte dell’ordinanza laddove motiva non adeguatamente sul fatto che il profitto in ogni caso non sarebbe sussistente in quanto VIVA oggetto dei capi di imputazione da b) ad f), risulta comunque
versata dal primo importatore in Italia, cessionario di AMC, dunque il profitto pari
all’evasione IVA in sede di cessione degli autoveicoli agli importatori italiani sarebbe insussistente; sul punto tre sarebbero le ragioni di irrilevanza secondo il
tribunale, ossia che non sarebbero documentati i versamenti IVA da parte degli
importatori delle autovetture, che, in secondo luogo, quand’anche VIVA fosse stata
effettivamente versata da altri, comunque residuerebbe un profitto per AMC e,
infine, che in ogni caso sussisterebbe un abbassamento del prezzo degli autoveicoli
importati in Italia, con danno all’Erario sul piano della minore base imponibile,
defalcata dall’IVA; ciascuna di tali ragioni è censurabile secondo il ricorrente, in
quanto, con riferimento alla prima, non sarebbe spettato all’indagato documentare
il versamento dell’IVA da parte dei diversi importatori in Italia delle vetture, non
avendo il PM contestato tale versamento, dando invece atto che gli autoveicoli
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fatturati da AMC alla propria clientela italiana sono pervenuti in Italia e sono stati
commercializzati (da qui, dunque, la mancata valutazione da parte del tribunale
della già richiamata norma dell’art. 1, co. 9, d.l. n. 262 del 2006, conv. In I. n.
262 del 2006); la normativa applicabile alle cessioni intracomunitarie per le quali
vige il principio del pagamento nel Paese di destinazione ex art. 37, d.l. n. 331 del
1993, prevede che l’Erario incasso comunque una sola volta VIVA su tali autovei-

suoi cessionari, in quanto l’evasione dell’IVA non sussiste, con conseguente esclusione del reato di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000 e l’inapplicabilità del sequestro; quanto, poi, alle due residue ragioni esposte dal tribunale a fondamento del
rigetto della tesi difensiva, si osserva come nella specie non sussisterebbe alcuna
compressione dell’imponibile IVA sugli autoveicoli importati in Italia, in quanto la
presenza o meno dell’IVA nelle fatture di AMC non importerebbe alcuna distorsione
sul piano del prezzo degli autoveicoli, poiché laddove esistente, a parità di prezzo,
i cessionari l’avrebbero detratta in quanto per essi neutrale, così parificandosi tale
situazione a quella riscontrata dall’autorità inquirente, nella quale i cessionari di
AMC hanno applicato VIVA su di un imponibile perfino maggiore di quello contestato ad AMC, avendo tali cessionari applicato il giusto ricarico in sede di rivendita
ed avendo così versato all’Erario VIVA fatta pagare ai propri clienti; i giudici della
cautela avrebbero violato la normativa in tema di cessioni intracomunitarie laddove hanno individuato un profitto di AMC che non sussisterebbe, atteso che la
normativa esclude l’ipotizzabilità di .un’IVA a carico sia del cedente che del cessionario che versa l’IVA addebitata alla clientela, stante il principio della neutralità
dell’IVA sugli operatori commerciali, principio che viene ad essere violato dai giudici del riesame nello sganciare il profitto di AMC rispetto al danno erariale qui
insussistente.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto
il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, in
relazione al capo relativo all’omessa dichiarazione di AMC ai fini IRES 2014, attesa
la nullità dell’ordinanza per l’omessa motivazione circa l’irrilevanza penale del
fatto.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che al capo a) viene contestata l’omessa
dichiarazione a fini IRES da parte dell’AMC per l’anno 2014, ciò in quanto la soglia
di punibilità (all’epoca del fatto, individuata in C 50.000,00) sarebbe superata trattandosi di un mancato pagamento di imposta pari ad C 69.604,00, secondo i calcoli
operati dalla GdF; quanto sopra sarebbe invece smentito da parte della stessa
Agenzia delle Entrate di Trento, che ha emesso avviso di accertamento per l’anno
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coli, e, pertanto non rileva la circostanza che fosse AMC a versarla piuttosto che i

2014 determinando la maggiore imposta IRES in C 16.701,00, dunque ben al di
sotto della predetta soglia di punibilità; è ben vero, si osserva, che il giudice penale
può discostarsi dalla determinazione dell’imposta evasa operata dall’Erario, ma
occorre un’adeguata motivazione che, nella specie, sarebbe mancante; sul punto
vi sarebbe quindi un’omessa pronuncia, con conseguente nullità dell’ordinanza in
relazione ai fatti contestati al capo a).

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c), c.p.p.,
sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 4, d. Igs. n. 74 del
2000, 1, co. 143, legge n. 244 del 2007, 125, co. 3, 322-ter c.p.p. e 12-bis, d.
Igs. n. 74 del 2000, attesa la nullità dell’ordinanza per l’insussistenza del fumus
del delitto di dichiarazione infedele quanto ai capi g) ed h) dell’imputazione relativi
alle pretese infedeltà dichiarative della società svizzera SIOR SA per l’anno 2011
e vizio di motivazione apparente quanto al disposto sequestro per equivalente.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che il con riferimento alle predette imputazioni cautelari, il profitto del reato deriverebbe dalla mancata presentazione
della dichiarazione fiscale relativa all’anno 2011 in cui non sarebbero stati indicati
presunti redditi della società svizzera SIOR SA per la stratosferica cifra di C
8.398.900,00, laddove, si deduce, tutto sarebbe stato determinato senza alcun
elemento di riscontro; si contesta, a tal proposito, che a parte l’infondata pretesa
di attrarre in Italia una società svizzera a tutti gli effetti e da molti anni ivi operante
e di considerare il Salvagnin come amministratore della stessa essendo solo socio,
l’unico accertamento operato dalla PG si sarebbe esaurito nella consultazione di
una banca dati privata da cui sarebbe emerso un dato associato a ricavi per oltre
11 mm. di dollari, pari ad oltre 8 mln. di euro; detta informazione, del tutto erronea, proverrebbe da una fonte informativa assolutamente non qualificata e che
non sarebbe stata in alcun modo verificata dalla PG operante; non si comprenderebbe come una società, operante nel settore immobiliare, possa aver generato
ricavi per tale importo stratosferico, considerato che il relativo patrimonio immobiliare era stato oggetto di stima ed era risultato assai esiguo rispetto al volume
di affari dell’anno 2011, tenuto inoltre conto che la gran parte degli immobili societari erano stati posti a disposizione della famiglia dell’amministratore con conseguente impossibilità di realizzo di tale volume di affari; i dati di bilancio attestati
dalla società di revisione della SIOR SA, già depositati in sede di verifica e riprodotti davanti al tribunale del riesame, non sarebbero stati menzionati nel PVC né
nella CNR trasmessa alla Procura della Repubblica, né sarebbero stati considerati
dal tribunale del riesame che sugli stessi avrebbe reso una motivazione carente,
non rispondendo alle doglianze difensive afferenti, da un lato, all’inattendibilità
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delle risultanze della banca dati privata rispetto invece ai dati attestati dalla società
di revisione e, dall’altro, all’assurdità dell’ipotesi di un volume di affari di oltre 8
milioni di euro in capo ad una società immobiliare come la SIOR SA; la risposta
del tribunale sarebbe stata generica, richiamando la legittimità dell’accertamento
induttivo, affermazione questa contestata in ricorso in quanto lo stesso non sarebbe mai stato eseguito dall’Agenzia delle Entrate, ma tutto si fonderebbe sulla

la conseguenza che il tribunale avrebbe omesso di esercitare il potere di controllo
sulla legittimità del provvedimento di sequestro; infine, si osserva, l’affermazione
secondo cui la SIOR SA sia una società di puro schermo del patrimonio dell’indagato e che egli ne sia l’amministratore disponendo anche dell’immobile di proprietà
societaria non sarebbe supportata, mancando quindi qualsiasi motivazione sul
punto.

2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c), c.p.p.,
sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 322-ter c.p. e 12-bis,
d. Igs. n. 74 del 2000, quanto al confermato sequestro per equivalente nei confronti della società SIOR SA, con correlata nullità dell’ordinanza per mancanza
della motivazione.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che il decreto del GIP aveva sottoposto
a sequestro per equivalente beni di proprietà delle società SIOR e AMC, società di
capitale di diritto svizzero e sloveno attratte in Italia sul piano tributario; in quanto
persone giuridiche nei paesi ove sono state costituite, sarebbero tali anche nel
nostro ordinamento, avendo peraltro la SIOR SA regolarmente presentato le dichiarazioni d’imposta all’Agenzia delle Entrate per quanto riguarda i redditi dei
fabbricati esistenti in Italia, mentre la AMC, secondo l’ordinanza, non può considerarsi società schermo e, in quanto tale, aggredibile patrimonialmente per equivalente, proprio in ragione del fatto che ne viene sostenuta l’esterovestizione, e,
quindi, il debito d’imposta IRES ed IVA verso il Fisco italiano; il tribunale, per
quanto riguarda la SIOR SA, ha ritenuto trattarsi di una società “schermo” dell’indagato, e quindi aggredibile nei suoi beni perché riconducibili all’indagato; l’ordinanza, sul punto, non sarebbe decifrabile, avallando per un verso l’esistenza di
debiti della SIOR SA, mentre dall’altro ne afferma la trasparenza e, quindi, l’aggredibilità sul piano patrimoniale, affermazioni del tutto incompatibili su cui il tribunale non prende posizione nonostante la contestazioni specifiche dell’indagato
e della società attinta dal sequestro; a ciò si aggiunge quanto erroneamente affermato dal tribunale del riesame, laddove sostiene che il ruolo di amministratore
di una società e l’utilizzo di un bene immobile della stessa ad opera del primo, in
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trasmissione di dati costruiti su fonti inattendibili e prive di rilevanza ufficiale, con

guisa di abitazione personale dimostrerebbe la natura cartolare della società di
capitali; si tratterebbe di affermazioni censurabili, in quanto è la stessa impostazione accusatoria imperniata sull’evasione di imposta da parte di SIOR SA e non
dell’amministratore che la gestisce come uno schermo, che escluderebbe la natura
fittizia della società, che invece viene considerata come esterovestita e, quindi,
debitrice delle imposte gravanti sulla società di capitali; il patrimonio della SIOR,

alla confisca per equivalente, donde l’ordinanza sarebbe nulla per violazione di
legge.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi diversi da quelli consentiti
dalla legge e, in ogni caso, perché manifestamente infondato.

4. La inammissibilità emerge alla luce della semplice lettura dell’ordinanza impugnata che motiva adeguatamente in ordine a tutti i profili di doglianza esposti dal
ricorrente. In particolare, dalla ordinanza emergono i seguenti punti: a) quanto ai
capi da a) ad f), oggetto dell’articolato primo motivo di ricorso, i giudici del riesame
evidenziano, anzitutto, che non possa frasi riferimento al principio della libertà dei
contribuenti all’adozione di soluzioni meno onerose sotto il profilo fiscale ai fini
della scelta del luogo di stabilimento, in quanto nel caso in esame la soluzione
adottata ha comportato anche un’alterazione della verità, in quanto la sostanza
dell’operazione è solo quella di creare all’estero una facciata di impresa, e cioè la
sua dimensione operativa, con violazione della realtà dei fatti, perché tutti i luoghi
di decisione e dell’amministrazione dell’attività sociale erano invece in Italia (sul
punto, si legge nell’ordinanza, se tutte le decisioni erano prese, tutti i conti tenuti,
tutti i contatti stipulati, tutti i crediti almeno in valuta euro incassati, esclusivamente in Italia, di questo non può che prendersi atto); b) a sostegno di tale esito
valutativo, in diritto, l’ordinanza richiama alcune decisioni di questa Corte rese in
casi di “esterovestizione”, confutando peraltro le argomentazioni difensive secondo cui in Italia farebbe difetto sia la stabile organizzazione che la gestione
amministrativa di cui al modello OCSE in punto di doppia imposizione, e ciò attraverso il richiamo ai principi affermati da questa stessa Sezione nel caso esaminato
con la sentenza n. 7080/2012 nonché nel noto caso Dolce & Gabbana di cui alla
sentenza n. 43809/2015, osservando che la difesa, pur prendendo atto di tale
giurisprudenza, aveva allegato la considerazione che, anche in presenza di omissione di dichiarazione, non vi sarebbe profitto, o meglio danno, perché le somme
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si conclude, non poteva dunque essere oggetto di sequestro preventivo finalizzato

dovute a titolo IVA sono state comunque saldate nel passaggio successivo, quello
della immatricolazione, da parte dell’acquirente finale che, così facendo ha in qualche modo compensato l’inadempimento da parte della società che appariva importatrice ed invece nella logica accusatoria doveva considerarsi italiana e, quindi,
avrebbe dovuto provvedere alla dichiarazione e poi al pagamento; c) orbene, in
relazione a tale punto, dopo aver richiamato la produzione documentale difensiva

Trento, i giudici del riesame, dopo aver escluso la rilevanza nel presente giudizio
penale del medesimo in quanto atto a contenuto cautelare (affermazione del tutto
corretta, osserva il Collegio, attesa l’autonomia del giudizio penale da quello tributario ex art. 20, d. Igs. n. 74 del 2000), rigettano nel merito l’obiezione difensiva
in quanto, da un lato, evidenziano che dei predetti pagamenti nulla è dato sapere
in quanto sarebbero stati solo ipotizzati come risultato di obblighi di legge ma non
documentati, dall’altro, che l’assenza di danno non eliminerebbe l’assenza di profitto in capo alla AVTO che comunque lo avrebbe conseguito per l’assenza di pagamento dovuti da parte sua e, infine, perché una volta non assolto il pagamento
IVA da parte della venditrice, costituisce dato notorio che il prezzo della vendita
viene ridotto percentualmente, e quindi vi sarebbe un danno anche per l’Erario e
che, anche se lo stesso si dimensiona diversamente dalla cifra indicata nell’imputazione, avrebbe comunque rilievo e sarebbe significativo in quanto tale differenza
costituisce esattamente la cifra corrispondente al danno per l’Erario ed al risparmio
di imposta, ed è la ragione, per il tribunale, di un elevato numero di reati realizzati
in materia di importazione tramite cartiera o di fittizia importazione; d) per tale
ragione, prosegue il tribunale, il tema è quello della determinazione del profitto
nel quantum e non della sua esistenza, con la conseguenza che il collocamento
della soglia di punibilità sul valore basso di 50.000 e fa ritenere che nella sede
cautelare la plausibilità del suo superamento, e quindi dell’integrazione della fattispecie penale, con rimessione alla sede di merito dell’esatta determinazione del
quantum da sequestrare in vista della confisca; e) quanto, poi, alla contestazione
sub g), relativa alla SIOR SA, il tribunale richiama il contenuto della pag. 7 della
richiesta del PM ricordando le ragioni esposte per le quali la società in questione è
considerata di puro schermo del patrimonio dell’indagato, il quale è amministratore e a cui appartiene la sua casa di abitazione; sul punto, i giudici ritengono che
quanto esposto dal Pm sia attendibile nella ricostruzione e che non avrebbe rilievo
il fatto che non vi sia ancora dispiegamento di prova definitiva, con la conseguenza
che la dichiarazione del reddito per imposta diretta avrebbe dovuto riguardare
tutto l’attivo o il profitto e, sul punto, la difesa non avrebbe svolto alcun argomento
a contrasto o almeno di interesse nella sede cautelare; f) il tribunale confuta poi
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costituita dall’ordinanza di sospensione dell’avviso di accertamento della CTP di

l’argomentazione difensiva svolta al riguardo e relativa al mancato superamento
della soglia di legge, non solo evidenziando che la stessa sarebbe stata abbondantemente superata rispetto ai 50.000 C di evasione, indicando anche l’ammontare
di 3.000.000,00 di euro di elementi attivi taciuti; sul punto, infatti, nel richiamare
i dati di bilancio attestati dalla società di revisione SIOR SA che nella prospettiva
della difesa smentirebbero quelli dell’accusa, il tribunale sottolinea come in sede

peso maggiore rispetto ai dati frutto dell’accertamento svolto dall’Agenzia delle
Entrate, richiamando a tal proposito le risultanze dell’accertamento induttivo per
poi sottolineare come compito del tribunale sia quello di verificare se sussista nel
caso concreto il requisito dell’esistenza degli indizi e, tal riguardo, ribadisce il tribunale, la notizia di reato non sarebbe perplessa ma spenderebbe argomenti corretti quantomeno sul profilo formale come indicato in un preciso sistema di valutazione “Key financial”; e, in relazione a quanto sopra, ricordano i giudici del riesame che anche la presunzioni tributarie, o meglio i dati di fatto che le sottendono,
hanno valore indiziario già ai fini del fumus del reato per quanto concerne l’ammontare della pretesa, esame che del resto è unico in caso di reato con previsione
di una soglia di punibilità, concludendo con l’affermare che per la verifica dell’esistenza di apprezzabili indizi di reato, quel che conta è la presa in considerazione
dei fati storici che giustificano quella scelta di accertamento induttivo.

5. Orbene, osserva il Collegio, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze difensive, sotto l’apparente censura di vizi di violazione di legge, in realtà
tradiscono il malcelato tentativo di criticare la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli elementi indiziari operata dal tribunale del riesame, prospettando
quindi all’evidenza un articolato “dissenso” rispetto agli approdi valutativi del tribunale del riesame (e evidentemente del GIP che aveva emesso l’originario sequestro preventivo e della tesi accusatoria basata sulla contestata CNR), dissenso
che non si traduce nemmeno (e non potrebbe del resto esserlo in questa sede
incidentale cautelare, attesi i ristretti limiti imposti dall’art. 325 cod. proc. pen.,
che restringe i vizi deducibili nella sola violazione di legge: per tutte, v. Sez. U, n.
5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv.
226710) nella prospettazione di vizi motivazionali.
Ne discende, pertanto, che il ricorso si appalesa inammissibile in quanto proposto
per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge.

6. I profili di doglianza prospettati in sede di primo motivo, si appalesano, in ogni
caso anche manifestamente infondati, soprattutto alla luce del cospicuo apparato
11

cautelare la valutazione della società di revisione non possa ritenersi avere un

argomentativo e tenuto conto dei ristretti limiti del sindacato esercitabile da questa Corte (e dal tribunale del riesame) in sede di incidente cautelare reale. Questa
Corte, ha, infatti, più volte affermato che in tema di misure cautelari reali, sia nel
giudizio di riesame sia in sede di sindacato di legittimità, non è dato verificare la
sussistenza del fatto reato ma solo accertare se la fattispecie astratta di reato
ipotizzata dall’accusa trovi conforto nella previsione penale, sulla base della pro-

colare alle condizioni di applicabilità del sequestro preventivo nella fase delle indagini preliminari, devono configurarsi quelle ragioni di prevenzione e di attinenza
della cosa da sequestrare con il fatto reato, come sopra prospettato, previste dai
commi primo e secondo dell’art. 321 cod. proc. pen., da verificare anch’esse in
termini di sommarietà e provvisorietà (Sez. 6, n. 3590 del 26/11/1993 – dep.
07/02/1994, Pomicino ed altro, Rv. 196629).
Ed è questo ciò che ha correttamente fatto il tribunale del riesame, anzitutto valutando il profilo della c.d. esterovestizione societaria riguardante le due società
in verifica. I giudici, infatti, hanno, quanto alle contestazioni relative ai capi da a)
ad f), ritenuto che gli elementi indiziari in atti fossero idonei a sostenere la tesi
della esterovestizione societaria, condividendo quanto argomentato dall’organo
dell’accusa e ritenendo che quanto emergente dalla CNR fosse sufficiente a sostenere la prospettazione accusatoria. Nel pervenire a tale approdo, i giudici hanno
correttamente richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’obbligo
di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente
residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dall’art. 5 del
D.Igs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione
in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione
amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi (Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012 – dep.
23/02/2012, Barretta, Rv. 252102; Sez. 3, n. 32091 del 21/02/2013 – dep.
24/07/2013, Mazzeschi, Rv. 257043). Il ricorrente ha contestato tale approdo valutativo sostenendo che i giudici del riesame non avrebbero, per così dire, “modellato” la motivazione ritagliandola sulla struttura societaria della AMC illustrando
una serie di elementi che avrebbero escluso la sussistenza della c.d. estero vestizione.
Sul punto, a parte il rilievo che il ricorrente attraverso la prospettazione di tali
elementi in sostanza chiede a questa Corte di sostituirsi alla valutazione operata
dai giudici del riesame così cercando di sottoporre un controllo sulla logicità della

12

babile commissione del fatto medesimo. Parimenti, per quel che attiene in parti-

motivazione (operazione del tutto vietata non solo in questa sede incidentale cautelare reale ex art. 325 c.p.p., ma del tutto inibita in sede di legittimità, tant’è che
più volte si è affermato che il controllo di legittimità sulla correttezza della motivazione non consente alla Corte di cassazione di sostituire la propria valutazione
a quella dei giudici di merito in ordine alla ricostruzione storica delle vicenda ed
all’attendibilità delle fonti di prova, e tanto meno di accedere agli atti, non speci-

comma, lett. e) cod. proc. pen. come novellato dalla L. n. 46 del 2006, al fine di
verificare la carenza o la illogicità della motivazione: Sez. 1, n. 20038 del
09/05/2006 – dep. 13/06/2006, P.M. in proc. Matera, Rv. 233783), deve qui essere aggiunto che la questione “giuridica” che il ricorrente prospetta al fine di
sollecitare l’intervento di questa Corte nell’esercizio del suo sindacato in presenza
di un vizio di violazione di legge, viene affrontata dagli stessi giudici del riesame,
osservando correttamente come dei versamenti dell’IVA da parte degli importatori
delle autovetture commercializzate dalla AMC nulla è dato sapere in quanto sarebbero stati solo ipotizzati come risultato di obblighi di legge ma non documentati.
Si tratta di affermazione che – unitamente alle ulteriori due ragioni indicate a confutazione della prospettazione difensiva (v. supra)- non merita censura, in quanto
costituisce frutto di una constatazione oggettiva circa la mancanza di prova circa
l’assolvimento dell’IVA sulle autovetture commercializzate, rispetto alla quale la
deduzione difensiva fondata sulla previsione dell’art. 1, co. 9, d.l. n. 262 del 2006,
conv. in legge n. 286 del 2006 (secondo cui “Ai fini dell’immatricolazione o della
successiva voltura di autoveicoli, motoveicoli e loro rimorchi, anche nuovi, oggetto
di acquisto intracomunitario a titolo oneroso, la relativa richiesta è corredata di
copia del modello F24 per il versamento unitario di imposte, contributi e altre
somme, a norma dell’ articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 e
successive modificazioni, recante, per ciascun mezzo di trasporto, il numero di
telaio e l’ammontare dell’IVA assolta in occasione della prima cessione interna. A
tale fine, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, al modello
F24 sono apportate le necessarie integrazioni”), costituisce solo una argomentazione logica, ma di per sé inidonea ad incidere sul ragionamento svolto da parte
dei giudici del riesame.

7. Ed invero, tale misura, rappresentata da una particolare modalità di versamento
dell’Iva posta a carico degli operatori commerciali del settore auto, in relazione
alle vendite di autoveicoli nuovi ed usati oggetto di acquisti intracomunitari di cui
all’art. 38 del decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, si aggiunge ad altre che il
legislatore aveva introdotto precedentemente al fine di contrastare il fenomeno
13

ficamente indicati nei motivi di ricorso secondo quanto previsto dall’art. 606, primo

dell’evasione dell’IVA all’importazione nel settore del commercio autoveicoli. Si
ricordano, sul punto, l’art. 1, commi 378-386, della L. 30 dicembre 2004, n. 311
(Finanziaria per il 2005), con cui il legislatore aveva inteso introdurre un’incisiva
strumentazione di contrasto dei fenomeni di frode che affliggono endemicamente
il settore del commercio, comunitario e non solo, di autoveicoli, subordinando
(comma 378) l’immatricolazione dei veicoli di importazione alla trasmissione al

cessivo comma 379), entro 15 giorni dall’acquisto, dei dati identificativi degli stessi
mezzi ed imponendo (comma 381) analoghi obblighi di comunicazione degli
estremi delle dichiarazioni di intento ricevute anche ai cedenti ex art. 8, comma
2, del D.P.R. n. 633/1972 e prevedendo pesanti conseguenze, rappresentate da
sanzioni e da nuove ipotesi di responsabilità solidale, a carico dei soggetti inadempienti. Di particolare rilevanza, ancora, rappresentava l’introduzione, ad opera del
comma 386, dell’art. 60-bis nel corpo del decreto Iva, a mente del quale, in relazione ai beni la cui individuazione era rimessa ad un apposito decreto ministeriale
e per l’ipotesi di “mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa
a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale”, il cessionario è considerato solidalmente responsabile nel pagamento del tributo evaso, fatta salva la
possibilità riconosciuta a quest’ultimo di poter “documentalmente dimostrare che
il prezzo inferiore dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di
fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che
comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta”.
Si tratta quindi di disposizione, quella evocata dal ricorrente, che, applicabile a far
data dal 3 dicembre 2007, come da provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle
Entrate del 25 ottobre 2007, emanato in base alle attribuzioni conferite dallo
stesso art. 1, comma 11 del D.L. n. 262/2006 – subordina l’immatricolazione,
ovvero la successiva voltura, di autoveicoli, motoveicoli e loro rimorchi, anche
nuovi, oggetto di acquisto intracomunitario a titolo oneroso ovvero di importazione, all’allegazione alla relativa richiesta, rispettivamente, della copia del Modello
“F24 Auto UE”, recante per ciascun mezzo di trasporto l’indicazione del numero di
telaio e l’ammontare dell’imposta assolta in occasione della prima cessione interna, ovvero della certificazione doganale attestante l’assolvimento dell’imposta
“e contenente il riferimento all’eventuale utilizzazione, da parte dell’importatore,
della facoltà prevista dall’articolo 8, secondo comma, del decreto del Presidente
della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, nei limiti ivi stabiliti”.
Ma di tale documentazione, come correttamente esposto dal tribunale del riesame,
non v’è traccia, dunque restando del tutto prive di pregio le obiezioni difensive sul

14

Dipartimento dei trasporti terrestri (da effettuarsi con le modalità indicate nel suc-

punto, ivi incluse quelle secondo cui, nella specie non sussisterebbe alcuna compressione dell’imponibile IVA sugli autoveicoli importati in Italia, in quanto la presenza o meno dell’IVA nelle fatture di AMC non importerebbe alcuna distorsione
sul piano del prezzo degli autoveicoli, poiché laddove esistente, a parità di prezzo,
i cessionari l’avrebbero detratta in quanto per essi neutrale, così parificandosi tale
situazione a quella riscontrata dall’autorità inquirente, nella quale i cessionari di

stato ad AMC, avendo tali cessionari applicato il giusto ricarico in sede di rivendita
ed avendo così versato all’Erario VIVA fatta pagare ai propri clienti.
Difettando la prova documentale come sottolineato dal tribunale del riesame,
quindi, le predette deduzioni sono fini a sé stesse e non incidono sulla correttezza
del provvedimento impugnato.

8. Né del resto, può sindacarsi l’ordinanza impugnata perché non avrebbe esaminato tutte le argomentazioni difensive a sostegno della richiesta di riesame.
Pacifico, infatti, è che II tribunale del riesame deve limitare il suo sindacato alle
deduzioni difensive che abbiano una oggettiva incidenza sul “fumus commissi delicti” senza pronunciarsi su qualsiasi allegazione che si risolva in una mera negazione degli addebiti o in una diversa lettura degli elementi probatori già acquisiti
(Sez. 3, n. 13038 del 28/02/2013 – dep. 21/03/2013, P.M. in proc. Lapadula e
altro, Rv. 255114). E, nel caso in esame, i giudici del riesame, richiamando le
argomentazioni del primo giudice e gli elementi investigativi risultanti dagli atti
hanno ritenuto che si versasse in una fattispecie di esterovestizione e che gli elementi offerti dalla difesa fossero inidonei ad escludere sulla diversa prospettazione
difensiva, confutando le deduzioni difensive ritenute maggiormente incidenti sulla
prospettazione accusatoria, dovendosi evidentemente ritenere rigettati per implicito gli ulteriori argomenti di contorno esposti dalla difesa. Trattasi di operazione
del tutto legittima, come del resto più volte riconosciuto da questa Corte che ha
infatti sul punto affermato che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi
a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato,
risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti
logicamente coerente. Sotto tale profilo, dunque, la censura di non aver preso in
esame tutti i singoli elementi risultanti in atti, costituisce una censura del merito
della decisione, in quanto tende, implicitamente, a far valere una differente interpretazione del quadro indiziario, sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni
elementi rispetto ad altri (Sez. 5, n. 2459 del 17/04/2000 – dep. 08/06/2000, PM
in proc. Garasto L, Rv. 216367).
15

AMC hanno applicato VIVA su di un imponibile perfino maggiore di quello conte-

9. Quanto, poi, alla mancata valutazione dell’elemento psicologico del reato, che
sarebbe stato da escludere in presenza di una società che avrebbe regolarmente
pagato ogni imposta in Slovenia, trattasi di censura manifestamente infondata,
atteso che in tema di misure cautelari reali, la giustificazione della misura deriva
dalla pericolosità sociale della cosa e non dalla colpevolezza di colui che ne abbia

condizionato alla sussistenza di una ipotesi di reato, prescinde dalla individuazione
del suo autore e dall’indagine sulla colpevolezza di questi (In applicazione di tale
principio la Corte ha annullato con rinvio la decisione del tribunale del riesame di
revoca di un sequestro preventivo fondata sull’indagine sull’elemento psicologico
del reato, sottratta, secondo la Corte, alla cognizione limitata del giudice di riesame, in quanto devoluta alla pienezza dei poteri conoscitivi e decisori del giudice
del successivo giudizio: Sez. 3, n. 11290 del 13/02/2002 – dep. 20/03/2002, P.M.
in proc. Di Falco M, Rv. 221268).
A ciò va aggiunto che la pretesa violazione del combinato disposto degli art. 165
TUIR e 19, d.P.R. n. 633 del 1972 quanto alla quantificazione del profitto del reato
(nel senso che il tribunale del riesame non avrebbe tenuto conto dei prospetti
relativi ai versamenti delle imposte effettuati in Slovenia per gli anni del 2010 al
2015) è censura priva di pregio, avendola infatti il tribunale del riesame affrontata
indirettamente quando si riferisce al tema della soglia di punibilità per il reato
contestato, osservando come dall’esame degli atti, tenuto conto dell’ammontare
del profitto non dichiarato, sarebbe plausibile il suo superamento in relazione ai
periodi di imposta presi in esame, dovendo comunque essere qui ricordato che è
legittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, dell’importo corrispondente all’imposta evasa nella sua totalità e non alla sola parte che
eccede la soglia di punibilità prevista dalla legge, in quanto il profitto del reato di
omessa dichiarazione è costituito dal risparmio economico da cui consegue l’effettiva sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente
beneficia il reo (Sez. 3, n. 1199 del 02/12/2011 – dep. 16/01/2012, Galiffo, Rv.
251893). Le eventuali questioni afferenti dunque alla mancata deduzione IVA in
violazione del combinato disposto degli art. 165 TUIR e 19, d.P.R. n. 633 del 1972,
non hanno pertanto pregio e non incidono sulla valutazione incidentale del tribunale del riesame.

10. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto al secondo motivo, con cui si contesta in relazione al capo a) della rubrica (dichiarazione AMC a fini IRES anno
2014), il mancato raggiungimento della soglia di punibilità, in quanto l’Agenzia
16

la disponibilità, così che il sequestro preventivo, di cui all’art. 321 c.p.p., pur se

delle Entrate di Trento avrebbe determinato per tale anno la maggiore imposta in
poco più di 16.000 euro, al di sotto della soglia di punibilità.
Il profilo, indubbiamente, suggestivo, non determina però l’illegittimità del provvedimento, in base al rilievo che – anzitutto, non risponde alla realtà, l’affermazione secondo cui vi sarebbe stata omessa motivazione perché i giudici avrebbero
deciso solo sui capi da b) ad f) della rubrica, in quanto a pag. 2 dell’ordinanza il

consideri quanto segue.
A prima vista sembrerebbe logico ritenere definitivamente accertata, anche ai fini
penali, se inferiore alla soglia, l’imposta cristallizzata in un accertamento dell’Ufficio divenuto definitivo, per mancata impugnazione, per adesione o in seguito ad
una conciliazione giudiziale, oppure in esito all’esercizio del potere di autotutela
(annullamento d’ufficio). Nei casi in cui la stessa Amministrazione finanziaria ha
determinato un’imposta evasa inferiore alla soglia penalmente rilevante, sarebbe
irragionevole ipotizzare un intervento del giudice penale il quale rideterminasse
l’imposta evasa in misura superiore rispetto a quella accertata dall’Ufficio, tale così
da configurare un’ipotesi delittuosa. Tuttavia, i rapporti tra il processo penale e il
processo tributario, rimangono saldamente ancorati al principio dell’autonomia e
del tendenziale parallelismo. Il giudice penale, in particolare, accerta il quantum
dell’imposta evasa con le regole e gli strumenti propri del rito penale. Questi, pertanto, può superare i limiti del procedimento tributario ed utilizzare tutti i mezzi di
prova previsti dall’ordinamento processuale penale, quali, ad esempio, la prova
testimoniale, preclusa invece al giudice tributario. Il giudice penale, quindi, sebbene debba far riferimento alla legge tributaria, può e deve disattenderla per
quanto attiene agli strumenti di carattere presuntivo utilizzati in sede di accertamento per la ricostruzione indiretta della base imponibile che confliggono con i
principi generali del sistema penale. Alla luce di una simile impostazione, perciò,
l’attività originata dalla notizia di reato è destinata a procedere in maniera del
tutto autonoma rispetto a quella amministrativa tributaria, e può arrivare a quantificazioni dell’imposta evasa non congruenti o addirittura contrastanti con questa.
A tal proposito anche la giurisprudenza di questa Corte (per tutte: Sez. 3, n. 21213
del 26/02/2008 – dep. 28/05/2008, De Cicco, Rv. 239984; ancora, Sez. 3, sentenza n. 44479 del 2012, ric. Orlandi, non massimata) è ormai consolidata nel
ritenere che, ai fini dell’individuazione del superamento delle soglie di punibilità
previste dal D.Igs. 74/00, sia compito del giudice penale accertare l’ammontare
dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche sovrapporsi ed entrare
in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario.

17

riferimento è chiaramente relativo ai capi da a) ad f) – ma soprattutto laddove si

È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria
venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi
escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non
considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso, di cui occorre dare
specifica e congrua motivazione, che tuttavia se ben può e deve essere richiesta

nell’esercizio del limitato sindacato cautelare, confrontandosi lo stesso con i dati
prospettatigli dalla pubblica accusa e contenuti nella CNR allegata agli atti sulla
cui base il primo giudice ha disposto il sequestro, il quale, a fronte di una diversa
indicazione dell’ufficio tributario circa l’ammontare dell’imposta evasa (contenuta
in un accertamento della cui definitività non è peraltro nemmeno dato sapere),
non ha strumenti di valutazione per poter ritenere che l’accertamento tributario
sia quello maggiormente corretto rispetto alle risultanze dell’attività investigativa,
essendo tale organo sprovvisto di poteri istruttori necessari al fine di verificare le
ragioni della diversa determinazione operata dall’Ufficio, a fronte di un calcolo diverso e superiore operato dalla Guardia di Finanza.

11. Per quanto concerne i capi g) ed h) della rubrica, in relazione ai quali sono
sollevati il terzo ed il quarto motivo (che, per la sostanziale omogeneità dei profili
di doglianza, meritano congiunta trattazione), valgano, anzitutto, le considerazioni
di carattere generale in ordine alla sussistenza di una esterovestizione societaria
della SIOR SA, operate dal tribunale del riesame a proposito della società slovena.
Nel resto, le doglianze difensive con cui si contesta il fatto che i giudici del riesame
non avrebbero adeguatamente valutato le diverse risultanze derivanti dai bilanci
della società svizzera attestati dalla società di revisione che avrebbero escluso la
tesi accusatoria relativa all’infedele dichiarazione dei redditi per oltre 8 milioni di
euro, sono meramente contestative, a fronte di una argomentazione del tribunale
del riesame il quale sottolinea come in sede cautelare la valutazione della società
di revisione non possa ritenersi avere un peso maggiore rispetto ai dati frutto
dell’accertamento svolto dalla polizia giudiziaria operante, richiamando a tal proposito le risultanze dell’accertamento induttivo per poi sottolineare come compito
del tribunale sia quello di verificare se sussista nel caso concreto il requisito
dell’esistenza degli indizi e, tal riguardo, ribadisce il tribunale, la notizia di reato
non sarebbe perplessa ma spenderebbe argomenti corretti quantomeno sul profilo
formale come indicato in un preciso sistema di valutazione “Key financial”.
Le doglianze difensive, pertanto, a fronte di tale risposta fornita dal tribunale sul
punto, tradiscono ancora una volta il tentativo del ricorrente di chiedere a questa
18

al giudice della cognizione, non è altrettanto richiedibile al giudice del riesame

Corte di sostituire con un proprio giudizio di merito quello nei termini indicati svolto
dal tribunale del riesame, operazione del tutto inibita in questa sede, come dianzi
ricordato. Va qui ribadito, infatti, che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente

giudice del merito (v., da ultimo: Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 – dep.
27/11/2015, Musso, Rv. 265482).

12. Ciò vale anche con riferimento alla censura secondo cui i giudici del riesame
non avrebbero motivato circa la natura di società schermo del patrimonio dell’indagato, atteso che i giudici del riesame, sul punto, richiamano il contenuto della
pag. 7 della richiesta del PM ricordando le ragioni esposte per le quali la società in
questione è considerata di puro schermo del patrimonio dell’indagato, il quale è
amministratore e a cui appartiene la sua casa di abitazione. Sul punto, i giudici
ritengono che quanto esposto dal Pnn sia attendibile nella ricostruzione e che non
avrebbe rilievo il fatto che non vi sia ancora dispiegamento di prova definitiva, con
la conseguenza che la dichiarazione del reddito per imposta diretta avrebbe dovuto
riguardare tutto l’attivo o il profitto e, sul punto, la difesa non avrebbe svolto alcun
argomento a contrasto o almeno di interesse nella sede cautelare. La censura difensiva, dunque, si presenta al cospetto di tale argomentazione come generica per
aspecificità, mancando ogni indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza
cadere nel vizio di aspecificità (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007 – dep.
10/09/2007, Scicchitano, Rv. 236945).

13. Infine, quanto alla censura secondo cui la tesi della società “schermo” non
reggerebbe logicamente di fronte alla stessa tesi accusatoria imperniata sull’evasione d’imposta da parte della SIOR SA ciò che escluderebbe la natura fittizia della
società che sarebbe stata ritenuta esterovestita e dunque debitrice delle imposte
gravanti sulla società di captale, con la conseguenza che il patrimonio non avrebbe
potuto essere sequestrato per equivalente, è palese il tentativo della difesa del
ricorrente di censurare l’approdo valutativo del tribunale del riesame contestando
la logicità della tesi della società “schermo” perché ritenuta incompatibile con la
prospettazione accusatoria. Ma, come già evidenziato in precedenza in termini generali, si tratta di censura preclusa in questa incidentale sede cautelare reale di
19

plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal

legittimità, atteso che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema
di misure cautelari reali, costituisce violazione di legge deducibile mediante ricorso
per cassazione soltanto l’inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma
non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell’art. 606, comma primo, lettera
e), cod. proc. pen. (da ultimo: Sez. 2, n. 5807 del 18/01/2017 – dep. 08/02/2017,
Zaharia, Rv. 269119).

14. Sulla base delle considerazioni che seguono, la Corte ritiene che il ricorso
debba essere dichiarato inammissibile.
A tale proposito è il caso di precisare che manifestamente infondata, ai sensi
dell’articolo 606, comma 3, del codice di procedura penale, non è soltanto la questione palesemente pretestuosa o artificiosa oppure quella apparente, tale cioè da
presentarsi ictu ocu// come inconsistente e priva di ogni ragionevolezza, o quella
caratterizzata da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta
a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante
e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento (da ultimo, ex multis, Sez. U, n.
12602 del 17/12/2015, dep.2016, Ricci, in motiv.), situazioni processuali che non
esigono perciò un particolare sforzo motivazionale per essere confutate.
Manifestamente infondata è, invece, anche la questione che – pur dando luogo,
sul piano logico, all’impostazione di un sillogismo – rende assolutamente vana, sul
piano giuridico, la prospettazione dell’ipotesi strutturata con il motivo di ricorso,
per l’assoluta inconsistenza della premessa che muove dall’interpretazione della
norma o del principio giuridico invocati.
Ne consegue che, ai fini della valutazione del carattere manifesto, o meno, dell’infondatezza, occorre delibare sulla solidità delle ragioni poste a fondamento della
doglianza, non potendo l’ampiezza della motivazione giudiziale o la complessità e
la diffusività delle argomentazioni spese dal ricorrente con il motivo di impugnazione essere ritenute logicamente incompatibili con un procedimento ermeneutico
che sfoci in un’affermazione di manifesta infondatezza del ricorso per cassazione.
Infatti, proprio la carenza di fondamento dell’ipotesi prospettata con il motivo di
gravame può richiedere la produzione di un particolare sforzo argomentativo per
sostenerla, così da esigere parallelamente un’articolata motivazione per confutarla.

15. Consegue pertanto la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc.
pen., al pagamento delle spese processuali.

20

l,

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno
2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato
presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa,
di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 5 dicembre 2017

P.Q.M.

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