Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27286 del 19/03/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 27286 Anno 2015
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MODAFFARI FRANCESCO N. IL, 30/11/1969
avverso l’ordinanza n. 713/2014 TRIB. LIBERTA’ di REGGIO
CALABRIA, del 23/07/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMOcrZ
e/sentite le conclusioni del PG Dott.

C/197)-r

Uditi difensonAvv.; 1-V4)2-,)i

Sr(

Data Udienza: 19/03/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 24/7/2014, il Tribunale di Reggio Calabria,
provvedendo sulla richiesta di riesame proposta da Modaffari Francesco avverso
l’ordinanza del G.I.P. dello stesso Tribunale applicativa della misura della
custodia cautelare in carcere, confermava l’ordinanza impugnata.
Modaffari Francesco è indagato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110
cod. pen., 10, 12 e 14 legge 497 del 1974 per avere commissionato e portato in

silenziatori artigianali e di canne da pistola (parti di arma comune da sparo),
oltre a quelli sequestrati in occasione del suo arresto, avvenuto il 9/2/2012; con
l’aggravante di avere commesso il reato per favorire la ‘ndrina Molè di Gioia
Tauro.
Il Tribunale respingeva la questione della retrodatazione degli effetti
dell’ordinanza alla data dell’arresto: nel febbraio 2012 Modaffari era stato
arrestato per un caso fortuito in occasione di un controllo, in quanto trovato in
possesso di numerosi silenziatori. All’epoca erano ancora in corso attività di
indagine, che solo successivamente avevano portato a comprendere il suo
inserimento in un contesto associativo più ampio: non a caso le intercettazioni
erano proseguite anche nei giorni successivi. Di conseguenza, il G.I.P. che aveva
emesso la prima ordinanza cautelare non era in grado di conoscere gli elementi
posti a base della seconda. Inoltre non esisteva alcuna connessione tra i due
episodi oggetto delle separate ordinanze.
Il Tribunale rigettava anche il motivo che contestava la sussistenza
dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991: dopo il suo arresto, le
telefonate intercettate avevano permesso di comprendere che la condotta di
Modaffari fosse pianificata e inserita nel traffico più ampio della fornitura di armi
a Rocco Molè, su incarico e finanziamento di Furfaro Arcangelo e con uno stretto
legame con Belfiore Giuseppe (accusato di avere realizzato le parti di arma),
legato al Molè. Sussistevano, quindi, gli elementi indiziari che dimostravano che
l’attività era diretta a favorire le attività del sodalizio mafioso che, in quel
periodo, era in fase di riorganizzazione.
I gravi indizi di colpevolezza sussistevano, atteso che Modaffari era coinvolto
in un vero e proprio traffico di silenziatori, come del resto dimostrava l’arresto.
Si trattava di un’organizzazione che introduceva in Italia armi “inertizzate” e le
trasformava in armi nuovamente funzionanti, rivendendole sul mercato
clandestino a prezzi nettamente superiori a quelli di acquisto. Le intercettazioni
delle conversazioni di Belfiore dimostravano che i fratelli Modaffari gli avevano
commissionato tredici silenziatori, di cui solo quattro erano stati sequestrati in

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luogo pubblico, in concorso con Modaffari Massimo, un numero imprecisato di

occasione dell’arresto.
Il Tribunale riteneva sussistenti le esigenze cautelari, non ritenendo decisivo
il rispetto delle prescrizione del regime degli arresti domiciliari ottenuto in
relazione alla prima ordinanza cautelare.

2. Ricorre per cassazione uno dei difensori di Modaffari Francesco,
deducendo violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla
sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991. Nel ricorso il

depositato una memoria in udienza alla quale il Tribunale non aveva dato alcuna
risposta.
Il Tribunale si basava su congetture ed illazioni quando affermava che
l’attività del ricorrente era inserita in un contesto più ampio di criminalità e
mirava a garantire alla consorteria mafiosa un gettito di denaro necessario per il
suo mantenimento in vita: non vi era alcuna prova che i silenziatori che
Modaffari aveva commissionato a Belfiore fossero destinati alla cosca Molè, come
del resto aveva esplicitamente ammesso lo stesso G.I.P. nell’ordinanza
applicativa della misura. Modaffari non aveva alcuna frequentazione con
appartenenti alla cosca e, quindi, i silenziatori potevano essere destinati ad un
altro gruppo criminale.
Il Tribunale – nonostante la memoria insistesse su questo punto – era
incorso in un travisamento del fatto e della prova nell’affermare che il ricorrente
avesse un ruolo nella fornitura di armi al Molè da parte di Belfiore. Si trattava di
forniture del tutto indipendenti: né la circostanza che Cicciari, Furfaro e Belfiore
avessero procurato parti di armi al Molè permetteva di ritenere anche Modaffari
responsabile di tale cessione.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 297, comma
3, cod. proc. pen..
Era indubbio che i fatti oggetto della prima ordinanza cautelare emessa a
seguito dell’arresto e quelli oggetto della nuova ordinanza fossero connessi per
continuazione, come del resto già l’imputazione formulata indicava, menzionando
l’art. 81 cpv. cod. pen. e entrambe le partite di silenziatori (quelle sequestrate e
le ulteriori). L’affermazione opposta dell’ordinanza impugnata era, pertanto,
incomprensibile.
Le intercettazioni dimostravano che la condotta contestata con la seconda
ordinanza era stata commessa prima della data dell’arresto.
Era stata la scelta della Procura di separare i due procedimenti ad impedire
la desumibilità dagli atti, all’atto della prima ordinanza, della condotta oggetto

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difensore aveva contestato la sussistenza di tale aggravante e, sul punto, aveva

della seconda: come si evinceva chiaramente dagli atti di indagine, l’arresto di
Modaffari era stato operato in conseguenza delle intercettazioni in corso al fine di
verificare l’ipotesi investigativa che emergeva dalle conversazioni.
Di conseguenza, il Procuratore distrettuale (che era stato informato
dell’arresto del ricorrente, come emergeva dai decreti di proroga delle
intercettazioni) avrebbe dovuto chiedere la trasmissione degli atti concernenti
l’arresto all’A.G. di Palmi ex art. 54 bis cod. proc. pen., così da celebrare un
unico processo: non lo aveva fatto proprio per impedire l’effetto di

proc. pen..

In un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con
riferimento alle ritenute esigenze cautelari e alla applicazione dell’art. 275,
comma 3, cod. proc. pen..
Il ricorrente aveva rappresentato al Tribunale del riesame quegli elementi
specifici che dimostravano – così come la sentenza della Corte Costituzionale n.
57 del 2013 permette – che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte
con la misura degli arresti domiciliari, concessa dal G.I.P. di Palmi dopo un anno
di custodia cautelare in carcere e rigorosamente rispettata dal Modaffari per un
anno e mezzo.
L’affermazione del Tribunale secondo cui Modaffari aveva posto in essere
ulteriori condotte dopo l’arresto era palesemente infondata: anche le condotte
contestate nel presente procedimento risalivano ad epoca anteriore all’arresto.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della ordinanza impugnata.

3. Ricorre per cassazione anche il secondo difensore di Modaffari Francesco,
deducendo violazione di legge e mancanza di motivazione con riferimento al
mancato esame della memoria difensiva depositata in udienza concernente i
gravi indizi di colpevolezza e la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge
203 del 1991.
Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, il traffico di silenziatori
posto in essere dai due fratelli Modaffari risaliva ad epoca anteriore all’arresto,
come esplicitamente indicato nell’ordinanza del G.I.P., ed emergeva dalle
medesime intercettazioni menzionate nell’ordinanza cautelare: erano, quindi, già
note all’epoca della prima ordinanza cautelare. L’esistenza delle ulteriori parti di
arma diverse da quelle sequestrate in occasione dell’arresto veniva fatta
discendere da intercettazioni precedenti all’arresto stesso.
La motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 297 comma 3,
cod. proc. pen. era, quindi apparente e ignorava l’effettivo sviluppo delle indagini

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retrodatazione dell’ordinanza cautelare ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod.

e la volontà della DDA reggina di non svelare, dopo l’arresto di Modaffari,
l’indagine in corso per permetterne il proseguimento; inoltre ripeteva
semplicemente la motivazione adottata dal G.I.P., senza un effettivo controllo sul
provvedimento impugnato.
Il vizio di motivazione viene contestato anche quanto alla sussistenza dei
gravi indizi di colpevolezza – il ricorrente aveva contestato che
dall’intercettazione ambientale potesse desumersi che i caricatori ordinati a

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 7 legge 203
del 1991 e vizio di motivazione.
Secondo il ricorrente, il Tribunale aveva addirittura confuso la posizione del
Modaffari con quella di altro indagato: il G.I.P. non aveva mai parlato di forniture
di parti di arma da Modaffari a Molè Rocco; nessuna prova esisteva in ordine alla
commissione del reato per favorire la ‘ndrina Molè, né sussisteva alcun
collegamento.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

3. Il ricorrente ha depositato memoria con la quale insiste sul motivo della
retrodatazione degli effetti dell’ordinanza ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod.
proc. pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione della retrodatazione degli effetti dell’ordinanza applicativa
della misura ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. è infondata.

Anche ritenendo sussistenti i presupposti dell’anteriorità dei fatti oggetti
della seconda ordinanza e del nesso di continuazione tra le condotte oggetto
delle due ordinanze cautelari, risulta evidente la mancanza della desumibilità
dagli atti richiesta dalla parte finale della norma.
In effetti, la retrodatazione della decorrenza dei termini della custodia
cautelare prevista dall’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., in ipotesi di fatti
che si trovano in rapporto di connessione qualificata, opera anche se i
provvedimenti coercitivi sono stati emessi in procedimenti diversi, a condizione
che i fatti oggetto della seconda ordinanza siano desumibili dagli atti del
procedimento relativo alla prima ordinanza nel momento in cui in questo è
disposto il rinvio a giudizio (Sez. 2, n. 17918 del 03/04/2014 – dep. 29/04/2014,
Alla, Rv. 259713; Sez. 1, n. 42442 del 26/09/2013 – dep. 15/10/2013, Gatto,

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Belfiore fossero tredici – e alle esigenze cautelari.

Rv. 257380). Ciò – come è pacifico – non ricorreva affatto nel caso di specie,
poiché l’A.G. di Palmi, che aveva proceduto nei confronti del ricorrente a seguito
dell’arresto in flagranza del 9/2/2012 (con condanna dell’imputato in sede di
giudizio abbreviato il successivo 12/7/2012), non era affatto a conoscenza delle
indagini svolte da quella di Reggio Calabria e, tanto meno, del contenuto delle
intercettazioni svolte: infatti, i gravi indizi di colpevolezza per il porto dei
silenziatori e delle canne della pistola contestato nel presente procedimento

Il ricorrente ammette ciò, ma addebita la mancanza di conoscenza alla
condotta della DDA di Reggio Calabria che, al fine di evitare la retrodatazione
degli effetti di una seconda ordinanza cautelare, avrebbe omesso di chiedere
all’A.G. di Palmi la trasmissione degli atti ai sensi dell’art. 54 bis cod. proc. pen..
Il richiamo a tale norma appare fuori luogo: il contrasto positivo tra uffici del
P.M. è previsto quando l’Ufficio ha notizia di indagini preliminari “per il medesimo
fatto in relazione al quale egli procede”; la norma mira a far eseguire le indagini
dal P.M. presso il giudice competente.
Nel caso di specie, il fatto non era affatto il medesimo – come esattamente
osserva il Tribunale del riesame – trattandosi di condotte illecite diverse, sia pure
riunite per continuazione; pertanto, il P.M. di Palmi era certamente competente a
procedere alle indagini a seguito dell’arresto, così come il Tribunale di Palmi era
competente a giudicare l’imputato per quella specifica vicenda.

2. Le censure presenti nel secondo ricorso in punto di sussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza sono generiche e comunque manifestamente infondate:
l’ordinanza del Tribunale del riesame fornisce amplissima motivazione in ordine
alla sussistenza della prova della detenzione da parte di Modaffari di un certo
numero di silenziatori e canne per pistola diversi rispetto a quelli sequestrati in
occasione del suo arresto del 9/2/2012, che aveva dato origine a separato
procedimento.
I rapporti tra Modaffari e Belfiore risultano, infatti, risalenti nel tempo e le
intercettazioni fanno esplicito riferimento ad un numero di parti di arma diversi e
superiori rispetto a quelli oggetto di sequestro.

3.

I ricorsi sono fondati con riferimento alla ritenuta sussistenza

dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991.
In effetti, l’ordinanza impugnata, sul punto dei rapporti tra Modaffari e la
‘ndrina di Rocco Molè, soffre di palese illogicità e – sulla base di quanto espone la
motivazione – giunge a ritenere esistenti tali rapporti e la conseguente

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emergono dalle predette attività captative.

finalizzazione dell’attività illecita di Modaffari a favorire la cosca mediante un
salto logico.
La rete dei rapporti tra i soggetti coinvolti nell’indagine ha come punto di
riferimento Belfiore Giuseppe: questi, nella sua officina, realizzava canne per
pistola e silenziatori artigianali per chi glieli commissionava; in tale attività era
coadiuvato (secondo l’imputazione riportata nell’ordinanza) da Belfiore Marino.
I “clienti” di Belfiore, che commissionavano ed acquistavano da lui le canne
e i silenziatori, erano diversi: Modaffari Francesco (insieme al fratello Massimo)

Belfiore è individuato in Bonasorta Antonio. Modaffari ordinava i silenziatori
anche ad altro soggetto, Cicciari Gaetano.
Lo stesso Tribunale esclude che le parti di arma che i Modaffari acquistavano
da Belfiore fossero destinate alla ‘ndrina Molè: si afferma, infatti, che Modaffari
“operava per conto di terzi che sono rimasti non identificati”. Se ciò è esatto, il
passaggio della motivazione secondo cui “proprio la fornitura di armi al Molè
Rocco su incarico e previo finanziamento da parte del Furfaro Arcangelo nonché
il legame forte con il Belfiore rappresentano i dati diretti a favorire le attività del
sodalizio mafioso e ad implementare la sua stessa capacità intimidatoria” è
sostanzialmente incomprensibile se riferito a Modaffari che, appunto, non aveva
fornito armi a Rocco Molè.

In effetti – pare di comprendere – era Belfiore che fabbricava e vendeva
parti di arma a più clienti, tra cui Rocco Molè; ma la condizione di clienti di uno
stesso fornitore non determina necessariamente un legame tra i soggetti: in
effetti, non pare – per quanto esposto – che Modaffari abbia incontrato
nell’officina del Belfiore o altrove esponenti della ‘ndrina.

Restano, quindi, considerazioni generiche sulla persona di Belfiore – la cui
officina era frequentata da soggetti organici e/o contigui alla criminalità
organizzata della piana di Gioia Tauro – e su quella del Modaffari – la cui attività,
“per natura, caratteristica e struttura non può non essere inserita in un contesto
più ampia di criminalità”: considerazioni certamente logiche – poiché Belfiore
produceva illecitamente parti di arma, non è sorprendente che i suoi clienti
fossero coinvolti in attività illecite; e poiché Modaffari aveva commissionato
numerosi silenziatori, è ovvio che i suoi affari illeciti fossero con soggetti di una
certa levatura criminale – ma che non sono affatto sufficienti a provare che il
ricorrente commettesse il reato “per favorire la ‘ndrina Molè di Gioia Tauro”.

In sede di rinvio, pertanto, il Tribunale dovrà evidenziare elementi più

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era uno di questi; la persona che aveva messo in contatto i Modaffari con

significativi – se esistenti – che indichino l’esistenza di legami effettivi e di
interesse tra l’odierno ricorrente e la ‘ndrina Molè di Gioia Tauro.

4. Anche i motivi di ricorso relativi alla scelta della misura cautelareappaiono
fondati.
In primo luogo, la decisione del Tribunale è fondata su un presupposto
erroneo: che, cioè, la condotta illecita contestata nel presente procedimento sia
successiva a quella che aveva portato all’arresto del 9/2/2012; si è già osservato

è rimasto – ovviamente, essendo detenuto – del tutto estraneo.

In secondo luogo, una nuova valutazione è comunque necessaria dopo la
decisione in punto di sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del
1991 demandata nel precedente paragrafo.
Non si può, tuttavia, non sottolineare che il Tribunale non ha affrontato il
tema demandato dalla difesa in punto di adeguatezza della misura degli arresti
domiciliari: in effetti, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 57 del
2013, anche per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 cit. possono essere acquisiti
“elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.
Modaffari, al momento in cui era stato colpito dalla nuova ordinanza
cautelare, si trovava da tempo agli arresti domiciliari in relazione al precedente
procedimento al quale ci si è più volte riferiti: tenuto conto che i fatti contestati
erano dello stesso tipo di quelli oggetto del separato procedimento ed erano stati
commessi prima di essi, il Tribunale doveva valutare se la misura meno afflittiva
si fosse dimostrata adeguata a tutelare le esigenze cautelari.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 7
d.l. 152 del 1991 e alle esigenze cautelari e rinvia per nuovo esame al Tribunale
di Reggio Calabria; rigetta nel resto il ricorso.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al
direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att.
cod. proc. pen.
Così deciso il 19 marzo 201.5-

che così non è: le intercettazioni sono proseguite dopo l’arresto, ma Modaffari ne

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